I predoni del Sahara/Capitolo 28 - Il colpo di pugnale di El-Haggar

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Capitolo 28 - Il colpo di pugnale di El-Haggar

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Capitolo 28 - Il colpo di pugnale di El-Haggar
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28 - Il colpo di pugnale di El-Haggar


El-Haggar, come già i lettori penseranno, era miracolosamente sfuggito ai kissuri del sultano ed al tradimento dell'arabo.

Mentre il marchese, Rocco e Ben, impazienti di vedere il colonnello, avevano scavalcato precipitosamente il davanzale, il moro, trattenuto forse da un sospetto, si era fermato sotto la finestra, volendo che salisse prima l'arabo.

“Monta,” gli aveva detto. “Io sarò l'ultimo.”

“No,” aveva risposto la guida. “Io rimarrò qui in sentinella.” Quella risposta, lungi dal rassicurare il moro, gli aveva destato un subitaneo lampo di diffidenza.

“Sali,” aveva ripetuto. “Ti ho detto che voglio essere l'ultimo.” Invece di obbedire l'arabo aveva accostato due dita alle labbra come per mandare un fischio. Nello stesso momento dalle case che occupavano l'estremità della piazza erano usciti precipitosamente alcuni kissuri.

Era stato allora che El-Haggar aveva gridato: “Tradimento! I kissuri!...”

Accortosi che l'arabo cercava di sfoderare l'jatagan, con due colpi di rivoltella l'aveva fulminato, poi si era precipitato attraverso la piazza a corsa sfrenata, scomparendo in mezzo ad un dedalo di viuzze strette e deserte.

Certo di essere inseguito, invece di proseguire la corsa aveva scavalcato il muro d'un orticello, gettandosi sotto un cespuglio.

Quella manovra, eseguita a tempo, lo aveva salvato; pochi minuti dopo un drappello di kissuri era passato per quella viuzza, correndo a tutta lena.

Appena gli inseguitori furono lontani, El-Haggar, abbandonato il nascondiglio, si era gettato in un'altra viuzza e attraversando ortaglie incolte aveva potuto raggiungere indisturbato i quartieri più meridionali della città.

Avendo promesso al marchese di recarsi da Esther per avvertirla dell'esito della spedizione, desiderava vedere subito la giovane.

“Sarà un colpo terribile per lei,” mormorò il moro, che si sentiva stringere il cuore a quel pensiero. “A meno d'un miracolo, il padrone, Ben e Rocco sono perduti; chi può averci traditi? Chi?...”

Ad un tratto un sospetto gli attraversò il cervello.

“El-Melah!” esclamò. “Non può essere stato che quel miserabile! È stato lui a condurci l'arabo, è stato lui a preparare il piano e anche la sua scomparsa l'accusa. Ah!... Per Maometto!... La pagherà cara!... E la signora Esther? Che sia in pericolo?”

Allungò il passo, in preda a mille angosciosi pensieri. Temeva di giungere troppo tardi alla casa dell'ebreo.

Quando si vide nei pressi del giardino, prima d'impegnarsi nella viuzza, fece il giro della casa e non vide nulla che potesse confermare i suoi sospetti.

I dintorni parevano deserti e la porta della casa era ancora chiusa, come quando era partito assieme al marchese ed a Ben.

Un pò rassicurato, girò lungo il muro del giardino per giungere al cancello e subito si arrestò indeciso. Dietro l'ammasso di rottami che ingombrava la via, aveva scorto un turbante che poi era subito scomparso.

“Vi sono degli uomini nascosti là,” disse. “Chi saranno? Dei kissuri forse?”

Stette un momento esitante, poi impugnata la rivoltella colla sinistra e l'jatagan colla destra varcò la porta.

Anche nel giardino nessun disordine, né alcuna traccia di violenza. I cammelli ed i mehari, coricati l'uno presso l'altro, sonnecchiavano, mentre presso il pozzo bollivano alcune pentole.

“Nessuno!” esclamò, impallidendo. “Dove sono Tasili ed i beduini? E la signora Esther?”

Ad un tratto udì delle voci che echeggiavano dalla parte del cortile.

“C'è qualcuno qui,” disse.

Si slanciò verso l'andito ed entrò nel cortile, ma giunto sotto il porticato s'arrestò, poi retrocesse con orrore.

Tasili giaceva presso una colonna, coricato su di un fianco, colle mani raggrinzite sul petto e le gambe distese. Una larga macchia di sangue si dilatava lentamente attorno al disgraziato.

“L'hanno assassinato!” esclamò. Stava per curvarsi sul vecchio, quando udì Esther gridare: “Aiuto! Tasili!”

El-Haggar in certi momenti era coraggioso. Quantunque ignorasse con quanti avversari avesse a che fare, si slanciò risolutamente in soccorso della giovane ebrea.

Attraversò le due stanze e nella terza vide El-Melah che tentava di trascinare con sé la giovane.

Comprese tutto. Alzò la rivoltella per far fuoco sul rapitore, poi, temendo che la palla potesse ferire anche la giovane, l'abbassò impugnando invece l'jatagan e si scagliò sul traditore, sprofondandogli l'arma fra le spalle.

Il colpo vibrato dal moro fu così tremendo, da troncare di colpo la spina dorsale. La morte dell'assassino del colonnello Flatters era stata, si può dire, quasi fulminante.

Esther vedendolo cadere, si era precipitata verso El-Haggar, il quale teneva ancora in pugno l'arma.

“Ringraziate Allah, signora,” disse il moro, “che mi ha fatto giungere in tempo per salvarvi e per vendicare il padrone e vostro fratello. Questo miserabile ci aveva venduti tutti al sultano.”

“E il marchese? E Ben?” gridò Esther, con un singhiozzo straziante.

“Temo, signora, che siano perduti,” rispose El-Haggar con voce triste.

“Potente Iddio!” esclamò la giovane, coprendosi il viso.

“Ignoro però se siano stati fatti prigionieri, perché quando fuggii per venire ad avvertirvi, i kissuri non avevano ancora assalito il padiglione.”

“Narrami tutto, El-Haggar! Voglio sapere tutto.”

Il moro in poche parole raccontò tutto ciò che era avvenuto dopo la loro partenza, fino al momento in cui i kissuri accorrevano da tutte le parti della piazza.

“El-Haggar,” disse la giovane, con suprema energia. “Andiamo alla kasbah. Dove sono i beduini e Tasili?”

“I primi sono scomparsi ed il vostro servo è stato assassinato da El-Melah.”

“Tasili ucciso!” esclamò Esther, con dolore.

“Andiamo a vederlo, signora, se ne avrete il coraggio.”

“Ne avrò, El-Haggar.”

Stavano per uscire, quando il moro le disse:

“Armatevi, signora. Ho veduto degli uomini nascosti presso la cinta del giardino.”

“Dei kissuri?”

“Suppongo che siano dei complici di El-Melah.”

“Ho la mia carabina e la rivoltella.”

Esther rientrò nella sua stanza, si annodò rapidamente i capelli, indossò il giubbetto ricamato, si gettò sulle spalle un caic fornito d'un ampio cappuccio, prese le sue armi e raggiunse il moro il quale era già uscito dal porticato.

“Mio povero e fedele Tasili!” gemette la giovane, curvandosi sul vecchio servo di suo padre.

“È morto, signora,” disse El-Haggar. “Il traditore lo ha colpito al cuore.”

“L'infame!”

Sollevò dolcemente il capo del vecchio moro, guardandolo per alcuni istanti cogli occhi lagrimosi, sperando forse di sorprendere su quel volto qualche indizio di vita, poi lo lasciò ricadere.

“Riposa in pace, mio fedele Tasili,” disse. “Avrai onorata sepoltura.”

“Venite, signora,” disse El-Haggar, allontanandola con dolce violenza.

Giunti nel giardino, il moro bardò il cavallo e l'asino, aiutò Esther a salire sul primo, inforcò il secondo, e si diresse verso il cancello.

“Adagio, signora,” disse il moro staccando dalla sella il suo lungo fucile marocchino e armandolo. “Gli uomini che ho scorti sono dietro quell'ammasso di macerie.”

“Vuoi cacciarli?”

“Potrebbero seguirci o approfittare della nostra assenza per derubarci dei bagagli e dei cammelli. Ah! I beduini!”

All'estremità della viuzza erano comparsi i due figli del deserto, tenendo in mano i loro moschettoni.

Vedendo El-Haggar ed Esther, affrettarono il passo.

“Signora,” disse uno dei due. “Non abbiamo veduto nessuno sulla piazza del mercato.”

“Chi vi ha mandati colà?” chiese Esther, stupita.

“El-Melah. Ci aveva detto che il servo del marchese ci attendeva.”

“Ora comprendo,” disse El-Haggar. “Quel miserabile li aveva allontanati per assassinare Tasili ed impadronirsi di voi.”

“Vi sono degli uomini dietro a quei rottami,” disse El-Haggar ai beduini.

“Che cosa dobbiamo fare?” chiese il primo.

“Noi non abbiamo paura di nessuno,” rispose il secondo.

“Seguiteci,” disse Esther.

Spronò il cavallo, imbracciò la sua piccola carabina americana e si diresse risolutamente verso le macerie, mentre i due beduini giravano al largo.

I quattro Tuareg, che non si erano ancora mossi, non avendo udito il segnale di El-Melah, vedendo quelle quattro persone armate di fucili balzarono sul cumulo, puntando le lance.

“Che cosa fate qui?” chiese El-Haggar, con voce minacciosa.

“Aspettiamo un uomo che abita in quella casa,” rispose uno di loro.

“El-Melah, forse?”

“Sì, El-Melah o El-Aboid, come vi piace.”

“Non ha più bisogno di voi,” disse Esther.

I quattro Tuareg s'interrogarono collo sguardo.

“Andate,” disse El-Haggar, vedendo che non si decidevano.

“E dove?” chiese il Tuareg che aveva parlato pel primo.

“El-Melah è partito per Kabra.”

I Tuareg si scambiarono alcune parole, poi vedendo che non avrebbero potuto resistere a quelle quattro persone armate di fucili e che parevano molto risolute, abbassarono le lance, scesero il cumulo e partirono frettolosamente, forse molto soddisfatti che le cose fossero passate così lisce.

“Voi rimanete a guardia dei cammelli e dei bagagli,” disse El-Haggar, quando i predoni furono scomparsi. “Attendete il nostro ritorno.”

I due beduini rientrarono nel giardino chiudendo il cancello.

“Ed ora, signora,” continuò il moro. “Abbassate il cappuccio onde non s'accorgano che siete una donna, avvolgetevi bene nel caic e seguitemi.”

“Andiamo alla kasbah?” chiese Esther, con voce tremante.

“Sì, signora. In un quarto d'ora noi vi saremo.”

Aizzarono il cavallo e l'asino e si diressero verso i quartieri centrali della città, scegliendo le vie meno frequentate.

Essendovi festa in tutte le case, la festa della carne di montone, pochissime erano le persone che s'incontravano e quelle poche non erano che dei miserabili negri che non potevano certo dare impiccio.

Nondimeno per maggiore precauzione El-Haggar aveva pure alzato il cappuccio, in modo da nascondere buona parte del viso, quantunque fosse più che certo di non aver lasciato tempo ai kissuri di riconoscerlo.

Già non distavano dalla kasbah più di cinquecento passi, quando udirono tuonare in quella direzione un pezzo d'artiglieria.

“Il cannone!” esclamò El-Haggar, trasalendo. “Ah! Signora! Disgrazia!”

“Perché dici questo?” chiese Esther, impallidendo e portandosi una mano al cuore.

“Il marchese ed i suoi compagni devono essersi rifugiati nel minareto del padiglione, signora.”

“E tu credi...” chiese la giovane con estrema angoscia.

“Che dirocchino a cannonate il minareto per costringerli alla resa.”

“Gran Dio! El-Haggar!”

“Coraggio, signora: venite!”

Sferzò l'asino costringendolo a prendere un galoppo furioso e pochi minuti dopo giungeva, sempre seguito da Esther, sulla piazza della kasbah, di fronte ai due padiglioni.

La lotta era finita. Non si scorgevano che pochi curiosi che stavano radunati dinanzi alla finestra del padiglione più piccolo, osservando una larga pozza di sangue.

I kissuri del sultano erano invece scomparsi.

El-Haggar guardò il minareto e vide che un angolo della base era stato diroccato, probabilmente da una palla di non piccolo calibro.

“Signora,” disse con voce tremante, “sono stati presi.”

Esther vacillò e sarebbe certamente caduta dalla sella se il moro, accortosene a tempo, non l'avesse sorretta.

“Badate, signora,” le disse. “Ci osservano e se nasce loro qualche sospetto, prenderanno anche noi.”

“Hai ragione, El-Haggar,” rispose la giovane reagendo energicamente contro quell'improvvisa commozione. “Sarò forte. Informati di ciò che è avvenuto. Ah! Mio povero Ben! Povero marchese!”

Il moro, vedendo un vecchio dalla barba bianca che attraversava la piazza, camminando quasi a stento, gli si accostò.

“È successo qualche grave avvenimento?” gli chiese, facendogli segno d'arrestarsi. “Ho udito tuonare il cannone.”

Il vecchio si fermò guardandolo attentamente, quasi con diffidenza. Era un uomo di sessanta e forse più anni, col volto rugoso ed incartapecorito, il naso ricurvo come il becco dei pappagalli, gli occhi neri e ancora vivissimi. Non pareva che fosse né arabo, né un fellata e tanto meno un moro a giudicare dal colore della sua pelle molto bianca ancora.

“Eh, non sapete?” chiese il vecchio, dopo d'averlo guardato a lungo. “Hanno preso degli stranieri e anche un ebreo.”

Aveva pronunciato l'ultima parola con un accento così triste, che il moro ne era stato colpito.

“Anche un ebreo?” chiese El-Haggar.

“Sì,” rispose il vecchio con un sospiro.

“Che cosa avevano fatto quegli stranieri?”

“Io non lo so. M'hanno detto che si erano rifugiati su quel minareto dove opponevano una disperata resistenza, minacciando di precipitare sulla piazza un marabuto che avevano sorpreso lassù.”

“Hanno poi effettuato la minaccia?”

“No, perché i kissuri hanno bombardato il minareto, costringendoli ad arrendersi subito. Se avessero resistito ancora pochi minuti, tutta la costruzione sarebbe precipitata e gli stranieri insieme.”

“Dunque sono stati presi?”

“Sì, e anche quel disgraziato israelita.”

“V'interessava quel giovane ebreo?” chiese El-Haggar.

Il vecchio invece di rispondere guardò nuovamente il moro, poi gli volse le spalle per andarsene.

“Non così presto,” disse El-Haggar, prendendolo per un braccio. “Vi ho scoperto.”

“Che cosa dite?” chiese il vecchio, trasalendo.

“Voi compiangete quel vostro correligionario.”

“Io, ebreo?”

“Silenzio, potreste perdervi e perdere anche quella giovane che monta quel cavallo. È la sorella del giovane ebreo che i kissuri hanno arrestato.”

“Voi volete ingannarmi.”

“No, non sono una spia del sultano,” disse il moro, con voce grave. “Quella giovane è la figlia di Nartico, un ebreo che ha fatto la sua fortuna in Tombuctu.”

“Nartico!” balbettò il vecchio. “Voi avete detto Nartico!... Chi siete voi dunque?...”

“Un servo fedele degli uomini che sono stati presi dai kissuri.”

“E quella donna è la figlia di Nartico?... Del mio vecchio amico?...”

“Ve lo giuro sul Corano.”

Un forte tremito agitava le membra dell'ebreo. Stette alcuni istanti senza parlare, come se la lingua gli si fosse paralizzata, poi facendo uno sforzo, balbettò:

“Alla mia casa... alla mia casa... Dio possente! La figlia di Nartico qui!... Il figlio prigioniero! Bisogna salvarlo... Venite! Venite!...”

“Precedeteci,” disse il moro con voce giuliva. “Noi vi seguiamo.” Raggiunse Esther la quale attendeva, in preda a mille angosce, la fine di quel colloquio e la informò di quella insperata fortuna.

“È Dio che ce lo ha mandato,” disse la fanciulla. “Quell'ebreo, che deve essere stato un amico di mio padre, salverà il marchese e mio fratello.”

“Ho fiducia anch'io in quell'uomo, signora,” rispose El-Haggar. Raggiunsero il vecchio, il quale si era diretto verso una viuzza assai stretta, fiancheggiata da giardini e da casupole di paglia e di fango abitate da poveri negri, tenendosi però ad una certa distanza onde non suscitare dei sospetti.

L'ebreo pareva che avesse acquistato una forza straordinaria; camminava con passo rapido e senza servirsi del bastone. Di quando in quando si arrestava per osservare Esther, poi riprendeva il cammino con maggior velocità.

Attraversò così quattro o cinque viuzze e si arrestò dinanzi ad una casetta ad un solo piano, di forma quadrata, sormontata da un terrazzo e ombreggiata da un gruppo di superbi palmizi.

Aprì la porta e volgendosi verso Esther disse:

“Entrate nella casa di Samuele Haley, vecchio amico di vostro padre. Tutto quello che possiedo è vostro; consideratevi quindi come la padrona.”