I predoni del Sahara/Capitolo 32 - Una battaglia terribile

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Capitolo 32 - Una battaglia terribile

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Capitolo 32 - Una battaglia terribile
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32 - Una battaglia terribile


Pochi minuti dopo, Ben, Esther ed il marchese, seduti attorno ad un tavolo, in una delle stanze interne, si raccontavano le straordinarie vicende accadute in quelle ventiquattro ore. Fu non senza dolore che i due fuggiaschi appresero la morte di Tasili, assassinato dall'infame El-Melah.

“Tasili e anche il colonnello Flatters sono vendicati!” esclamò il marchese. “Quel traditore meritava non una, ma cento volte la morte.

“È stato meglio che sia stato ucciso da El-Haggar, perché se fosse caduto nelle mie mani, lo avrei fatto morire fra i più atroci tormenti.”

“Non occupatevi più di lui, marchese,” disse Esther. “Pensiamo invece a salvare Rocco.”

“Noi siamo pronti, è vero, Ben?”

“Ci metteremo alla testa degli arabi e dei Tuareg e non risparmieremo i kissuri del sultano. Quanti uomini hai assoldato, Esther?”

“Sono circa trecento.”

“Il capo degli arabi risponde di loro?”

“Sì, fratello.”

“È tutto pronto per assicurarci la fuga?”

“Una scialuppa ci aspetta a Kabra e quattro rapidissimi mehari ci attenderanno fuori dalla parte del mezzodì. Il vecchio Samuele, l'amico di nostro padre, ha pensato a tutto.”

“Mettiamo, innanzi a tutto, il vostro tesoro,” disse il marchese.

“I due beduini ed El-Haggar fra poco partiranno per Kabra. Ho fatto portare qui sei piccole casse da caricare sui cammelli.”

“Quanto hai promesso agli arabi ed ai Tuareg?”

“Ventimila talleri da pagarsi domani sera, nella casa di Samuele, cioè dopo i fatti compiuti.”

“Talleri che addebiterete a me,” disse il marchese. Ben ed Esther si guardarono sorridendo.

“Marchese,” disse l'ebreo, “di questo parleremo in altri tempi. Non dimenticate per ora che se noi siamo giunti qui incolumi, lo dobbiamo al vostro coraggio ed a quello di Rocco.”

“Ma...”

“Silenzio, marchese,” disse Esther, mettendogli un dito sulle labbra. “Vi proibisco di parlare di ciò.”

“Andiamo a vedere il tesoro,” disse Ben. “Il forziere è troppo pesante per caricarlo su un solo cammello. Divideremo il carico.”

La cassa era stata trasportata nella stanza attigua dai due schiavi di Samuele e da El-Haggar.

Era d'una robustezza eccezionale, con larghi chiodi di ferro e grosse cerniere di acciaio. Intorno aveva delle lamine di rame di notevole spessore.

“Saremo costretti a far saltare la serratura,” disse Ben. “Tasili non è più qui per indicarci dove si trova la chiave.”

Fece portare una zappa, introdusse la punta nella toppa e dopo reiterati sforzi l'aprì.

Lampi fulvi e bagliori scaturirono tosto. Il cofano era pieno d'oro, di diamanti e di smeraldi, nonché di collane, di braccialetti e di ornamenti d'ogni specie usati dalle donne di Tombuctu.

“Vi è qui una fortuna,” disse il marchese con una certa commozione.

Vuotarono il cofano, facendo rotolare alla rinfusa pezzi d'oro e gemme, e riempirono le sei cassette fornite da Samuele, solidissime e laminate in ferro, che poi coprirono con stuoie strettamente legate onde nessuno potesse supporre che contenevano oggetti di valore.

“Le crederanno casse piene di datteri,” disse Ben. “In questo paese le precauzioni non sono mai troppe.”

I due beduini ed El-Haggar avevano già bardato i cammelli. Le sei cassette furono caricate sui tre animali più robusti, poi il moro diede il segnale della partenza.

“Mi hai ben compreso?” chiese Esther al moro, prima che questi uscisse dal giardino.

“Sì, signora,” rispose il moro. “Vi attenderò a Kabra.”

“E caricherai le casse ed i nostri bagagli sulla scialuppa che l'arabo ha fatto acquistare per noi. Troverai i barcaiuoli sulla gettata e per distintivo porteranno un fez algerino ed un caic rosso.”

“L'ebreo me lo ha detto.”

“Sii fedele, El-Haggar, e non avrai da pentirti di noi.”

“Contate su di me, signora.”

“Ed ora,” disse Esther, volgendosi verso Ben ed il marchese, “andiamo un po’ a riposarci, onde essere pronti per la lotta.”

“Quando verrà l'amico di vostro padre?” chiese il signor di Sartena.

“All'alba, assieme al capo arabo. Il vostro supplizio era stato annunciato pel mezzodì.”

“Povero Rocco,” mormorò il marchese.

“Lo salveremo,” disse Esther. “L'arabo me lo ha giurato e Samuele mi ha detto che quell'uomo è capace di scatenare mezza popolazione contro il sultano.”

“Una persona molto potente dunque?”

“Sì, marchese; era l'uomo che ci occorreva.”

Cinque ore dopo, prima ancora che spuntasse l'alba, l'arabo ed il vecchio Samuele battevano alla porta della casa del defunto Nartico. Erano accompagnati da quattro Tuareg, avvolti nei loro mantelli di lana bruna e colle fasce riboccanti di jatagan e di pistoloni, veri arsenali d'aspetto poco rassicurante.

Il marchese, Ben ed Esther, che non erano riusciti a chiudere occhio, li ricevettero nella saletta pianterrena che metteva sul giardino.

“Signora” disse l'arabo, dopo aver salutato il francese e Ben, “vi ho condotto i capi dei Tuareg ed ho portato con me il Corano onde giurino sulle pagine del libro sacro del Profeta.”

“Sta bene,” rispose Esther, freddamente. “Il Profeta maledice coloro che mancano ai giuramenti. I vostri uomini pronuncino la sacra formula, e che Dio li danni se m'ingannano.”

“Signora,” disse uno dei quattro Tuareg, inchinandosi davanti alla giovane ebrea, “tu ci verserai il prezzo pattuito e noi ti saremo fedeli, lo giuro sul Corano: che le belve del deserto divorino il mio corpo; che i miei nemici lascino insepolto sulle sabbie ardenti del Sahara il mio carcame; che la sete mi strazi le viscere; che gli avvoltoi mangino i miei occhi se io ed i miei compagni mancheremo alla promessa. Siamo i predoni del deserto, ma sappiamo anche essere leali e fedeli a chi ci paga. Il Profeta mi ode: mi punisca dunque se io mancherò al giuramento.”

I suoi compagni avevano ripetuto le medesime parole, tenendo una mano tesa sul libro sacro che l'arabo aveva aperto dinanzi a loro.

Terminato il giuramento, il capo arabo fissò gli sguardi sul marchese e Ben, i quali avevano assistito a quella scena senza pronunciare una sola parola.

“Chi sono costoro?” chiese, rivolgendosi a Esther. “Io non li ho veduti presso di te stamane.”

“Non potevano essere presso di me perché si trovavano nelle mani dei kissuri del sultano,” rispose la giovane.

“Ieri sera mi hanno detto che due dei prigionieri sono fuggiti: il francese e l'ebreo. Sarebbero...”

“Sì, sono i due prigionieri.”

“Per Allah! E sono venuti qui?...”

“Li vedi. Uno è mio fratello, l'altro è il francese.” L'arabo guardò l'uno e l'altro con stupore.

“Allora ve n'è uno solo da salvare!” esclamò.

“Sì, uno solo.”

“L'impresa sarà più facile.”

“O più difficile? I kissuri raddoppieranno le loro precauzioni.”

“Siamo in trecento e tutti risoluti, signora.”

“Quando condurranno il prigioniero al supplizio?”

“Alle dieci.”

“Dove lo giustizieranno?”

“Sulla piazza del mercato.”

“Dove sono ora i tuoi uomini?”

“Hanno già occupato la piazza e circondato il palco,” rispose l'arabo. “Dietro di loro vi sono tre o quattrocento negri pronti a spalleggiarli ed ai quali ho promesso mille talleri se impediranno alla folla di importunarci.”

“La somma sarà depositata presso Samuele. Ventimila pei Tuareg, mille ai negri e diecimila per te. Sei contento?” chiese Esther.

“Tu paghi come una sultana,” rispose l'arabo sorridendo. “L'uomo che devono giustiziare può considerarsi salvo.”

“Andiamo,” disse Esther.

“Hai preparato tutto per la fuga, signora?”

“I mehari aspettano presso la porta di mezzodì,” disse Samuele. “I miei due schiavi si trovano colà già da due ore.”

“Ascoltatemi,” disse il marchese, fermando l'arabo. “Noi non correremo il pericolo di venire riconosciuti dai kissuri del sultano? Due uomini che hanno la pelle bianca fanno troppo contrasto in mezzo a una popolazione composta quasi esclusivamente da uomini di colore.”

“Ammiro la vostra prudenza, signore,” disse l'arabo. “Io non avevo pensato a questo pericolo.”

“Venite a casa mia: vi darò nuove vesti e vi tingerò la faccia e le mani in modo che sembriate due mori,” concluse Samuele.

“Affrettiamoci,” disse l'arabo. “Dobbiamo trovarci sulla piazza del mercato prima che la folla l'abbia invasa.”

Uscirono dalla parte del giardino e, attraversate delle ortaglie incolte, dopo un quarto d'ora giungevano alla casa del vecchio ebreo. La trasformazione di Ben e del marchese fu compiuta in meno di mezz'ora.

Avendo l'ebreo vestiti in quantità, gli riuscì facile trovare due costumi che s'adattavano a meraviglia all'isolano e all'ebreo. Con una tintura dipinse poi i loro volti e le loro mani, in modo da rendere l'illusione perfetta.

“Un superbo capo bambarra,” disse Esther, guardando il marchese.

“Ed un magnifico Tuareg,” disse questi volgendosi verso Ben il quale stava passandosi nella larga fascia rossa un formidabile jatagan a doppio taglio.

“Siete irriconoscibili,” disse il capo arabo. “Potete passare dinanzi ai kissuri senza alcun pericolo.”

Si gettarono ad armacollo i fucili, accettarono dall'ebreo delle rivoltelle e degli jatagan, poi uscirono in gruppo. Esther, che si era messa sul capo un grande turbante che le copriva anche buona parte del volto, si era bene avvolta nell'ampio caic, onde nessuno potesse riconoscere in lei una donna.

Le vie cominciavano ad affollarsi. La notizia dell'imminente supplizio d'un kafir si era già sparsa per la città e la popolazione, avida di sanguinari spettacoli, si riversava in massa verso la piazza del mercato. Quando il drappello vi giunse, più di mille persone avevano occupato i baracconi e altre sboccavano da tutte le vie schiamazzando.

Nel mezzo era già stato eretto una specie di palco, alto parecchi metri e guardato da due dozzine di kissuri armati di lance e di jatagan. Numerosi Tuareg, e molti arabi, armati come se andassero alla guerra, si erano accalcati attorno al palco, respingendo brutalmente la folla che cercava di tagliare le loro file per scegliersi i posti migliori.

“I nostri uomini,” disse il capo arabo, volgendosi verso il marchese, “sono più numerosi di quanto credevo.”

“E anche bene armati,” rispose il marchese. “Non desteranno qualche sospetto?”

“Nessuno, signore, perché tutti conoscono il fanatismo dei Tuareg ed il loro odio verso i kafir.”

“Fanatismo molto discutibile.”.

“L'oro soffoca tutto per quei predoni,” rispose l'arabo, sorridendo. “E poi, uditeli!...”

I Tuareg urlavano a piena gola, agitando ferocemente le armi:

“A morte il kafir! Portatelo qui che lo vediamo morire! Fate presto! Dio è grande!”

“Che bricconi!” esclamò il marchese. “Venite, ci porremo dinanzi a tutti.”

Vedendolo, le file degli arabi e dei Tuareg si erano subito aperte, sicché il drappello poté giungere presto presso il palco.

I capi predoni, quattro o cinque figure di briganti, con lunghe barbe arruffate, si erano accostati all'arabo, salutandolo.

“Siete pronti?” chiese questi.

“I nostri uomini sono impazienti di menare le mani,” rispose uno dei capi. “Abbiamo sparso la voce che l'uomo che si sta per giustiziare non è un kafir, bensì un inviato del sultano dei Turchi. Sono qui i due che sono fuggiti?”

“Sì,” rispose l'arabo.

“Sapete che i kissuri ed il vizir sono furibondi?”

“Me lo immagino.”

“Come sono scappati?”

“Non darti pensiero di ciò.”

“E ci pagheranno egualmente i ventimila talleri, ora che ve n'è uno solo da salvare?”

“Sono stati depositati presso il vecchio Samuele e questa sera tu e gli altri capi andrete ad incassarli.”

“Non c'ingannerà l'ebreo?”

“Io rispondo di lui.”

“Allora i kissuri avranno a che fare con noi,” disse il Tuareg, con accento feroce.

“E poi non avrai dei fastidi?”

“I nostri cammelli ed i mehari sono già radunati e, fatto il colpo, tutti noi andremo nel deserto; che i kissuri ci inseguano se ne hanno il coraggio.”

In quel momento un colpo di cannone rimbombò in direzione della kasbah.

“Il prigioniero è uscito dal palazzo,” disse l'arabo a Esther.

Un vivo fermento s'era manifestato fra la folla, diventata ormai enorme. Tutti si erano precipitati fuori dalle tettoie per accalcarsi intorno al palco; ma gli arabi ed i Tuareg avevano stretto le loro file, mentre due centinaia di negri, con un rapido movimento, avevano coperto le spalle dei futuri combattenti.

“Siamo in un buon numero,” disse il marchese, il quale aveva notato la comparsa dei negri. “Questo arabo ha fatto le cose per bene.”

In lontananza si udivano squillare dei corni e rullare dei naggara. Il corteo s'avvicinava respingendo la folla che ingombrava le vie, costringendola a riversarsi sulla piazza. Di quando in quando si udivano echeggiare urla feroci.

“A morte il kafir!”

“Decapitatelo!”

“Abbruciatelo!”.

“A morte l'assassino!”

Il corteo sbucò finalmente sulla piazza, spazzando colle aste delle lance i negri, i fellata ed i carovanieri che avevano occupato tutti gli angoli delle vie.

Si componeva di venti kissuri a cavallo, armati di lance e di jatagan, e di quaranta a piedi armati di moschetti. Dinanzi marciavano quattro negri che suonavano dei lunghi corni e quattro fellata i quali percuotevano furiosamente dei tamburoni di legno vuoto coperti da pelli di cammello.

In mezzo, colle braccia legate, si vedeva Rocco. Il sardo pareva tranquillissimo, nondimeno girava gli sguardi da tutte le parti nella speranza di scorgere il marchese ed i suoi compagni.

Certo contava su qualche straordinario avvenimento per sfuggire a sua volta ai kissuri.

“Siete pronti?” chiese l'arabo ai capi Tuareg che gli stavano presso.

“Sì,” risposero i predoni.

“Ai vostri posti. Quando io scaricherò in aria la mia pistola, date addosso alla scorta.”

Il marchese impugnò colla destra l'jatagan e colla sinistra la rivoltella. Ben lo aveva subito imitato.

I Tuareg, per meglio ingannare i kissuri, si erano messi a urlare ferocemente:

“A morte il kafir! Vogliamo la sua testa!...”

La scorta era allora giunta a poche diecine di passi dal palco ed aveva cominciato a respingere i Tuareg e gli arabi, i quali non aprivano le loro file che con molta lentezza.

Ad un tratto una voce tuonante coprì le urla di morte della folla: “Rocco!”

Era stato il marchese.

Udendo quel grido il sardo aveva alzato la testa ed essendo più alto dei suoi guardiani aveva gettato un rapido sguardo sulla folla.

Nel medesimo istante echeggiava un colpo di pistola. L'arabo aveva dato il segnale.

Ad un tratto le urla di morte dei Tuareg si cangiarono:

“Addosso ai kissuri!... Liberiamo il santone del sultano dei Turchi!...”

I Tuareg si slanciano addosso ai cavalieri coll'jatagan in mano e sventrano gli animali, i quali cadono tirando calci in tutte le direzioni e mandando nitriti di dolore.

I kissuri che li montano, in un baleno sono tutti a terra, coi piedi imbrogliati fra le staffe, nell'impossibilità, almeno pel momento, di reagire e di sottrarsi ai calci degli animali.

I loro compagni però, quantunque sorpresi dalla rapidità di quell'assalto assolutamente inaspettato da parte di quei fanatici, che un istante prima reclamavano la testa del prigioniero, abbassano i moschetti e stringono le file.

Una terribile scarica rimbomba e getta al suolo parecchi assalitori colla testa fracassata.

Quella resistenza sconcerta per un momento i predoni, ma gli arabi accorrono da tutte le parti, facendo fuoco colle pistole, mentre i negri si rovesciano sulla folla spargendo un panico enorme.

Mori, fellata, rivieraschi del Niger, carovanieri, spaventati da quegli spari e udendo in aria sibilare i proiettili, si precipitano confusamente verso gli sbocchi della piazza urlando, urtandosi, atterrandosi e calpestandosi.

La paura ha invaso tutti.

Gli arabi ed i Tuareg si sono intanto scagliati addosso alla scorta e sopra i kissuri che guardano il palco.

Il marchese e Ben, in prima fila, bruciano le cartucce delle loro rivoltelle, poi caricano cogli jatagan, spalleggiati da Esther la quale fa fuoco colla sua piccola carabina americana, e dal capo arabo che tira colpi di scimitarra all'impazzata.

Rocco, comprendendo che si cerca di salvarlo, non è rimasto inattivo. Con uno sforzo supremo spezza i legami, afferra pei piedi un kissuro che gli è seduto dinanzi, lo solleva come fosse un fanciullo e con un terribile molinello abbatte intorno a sé gli uomini che lo circondano.

Il vigore muscolare dell'isolano produce un effetto disastroso sui guerrieri del sultano. Vedendosi assaliti anche alle spalle da quell'uomo che sviluppa una forza così prodigiosa e che maneggia un uomo come se fosse un semplice bastone, cominciano a sbandarsi.

“Avanti!” grida il marchese. “Rocco è nostro.”

Vedendosi dinanzi il capo della scorta, con un colpo di jatagan lo rovescia al suolo moribondo, poi respingendo gli altri balza verso Rocco.

“Vieni!” grida.

Il gigante lascia cadere il kissuro, raccoglie un moschetto, lo afferra per la canna e con pochi colpi si fa largo.

“Date il passo!” grida l'arabo.

Le file dei Tuareg e degli arabi si aprono, il marchese, Ben, Rocco ed Esther, preceduti dal capo, attraversano correndo la piazza e fuggono, mentre la battaglia continua più aspra che mai, ma colla peggio per le guardie del sultano.

Le vie erano ingombre di fuggiaschi; nessuno quindi aveva fatto attenzione ai cinque. D'altronde il marchese aveva gettato sulle spalle di Rocco il suo caic e Ben gli aveva dato il suo turbante onde non potessero riconoscerlo.

Attraversarono sempre correndo quattro o cinque vie, seguendo i fuggiaschi, e giunsero ai bastioni meridionali della città.

In lontananza si udivano ancora le urla dei combattenti, i colpi di fucile, e verso la kasbah tuonava il cannone.

“Ecco i mehari,” disse l'arabo. “Presto, salite e fuggite senza perdere un solo istante.”

“E voi?” chiese il marchese.

“Vado a radunare i miei uomini.”

“Grazie, amico.”

“Che Allah vi guardi,” rispose l'arabo. “Io ho mantenuto la mia promessa.”

Strinse le mani a Esther, al marchese, a Ben ed a Rocco, poi si allontanò di corsa.

“In sella!” gridò il marchese. “Il Niger sta laggiù.”

I due schiavi di Samuele avevano condotto i mehari, quattro splendidi animali che dovevano correre come il vento.

“In meno di un'ora noi saremo a Kabra,” disse Ben, regalando una manata di talleri ai due negri. “Ci siamo tutti?”

“Tutti,” rispose il marchese.

“Presto, signore,” disse uno dei due schiavi. “Vedo una nuvola di polvere levarsi verso la porta d'oriente. Vi sono dei cavalieri laggiù!...” I quattro mehari si slanciarono a corsa sfrenata in direzione del Niger, le cui acque, percosse dai raggi perpendicolari del sole, scintillavano all'orizzonte come oro fuso.