I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il paria del Guzerate

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Il paria del Guzerate

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Una caccia sul Maronì Un dramma in Persia

IL PARIA DEL GUZERATE


Avevo conosciuto l'anno prima, a Bombay, durante un banchetto offertoci da un negoziante genovese, arricchitosi nel commercio dell'indaco, una sostanza colorante assai ricercata, che si usa per tingere le stoffe di lusso.

Jol Hart era allora ancora un bell'uomo, bello come statura, perché era alto quanto un alpino o un artigliere di montagna dei Ghati indiani, bruttissimo, invece, di viso, senza un pelo di barba e tutto coperto di cicatrici profonde che pareva fossero state prodotte da un ferro rovente o da qualche acido corrodente.

Quelle deformità, che non dovevano essere naturali, avevano già punto assai la mia incredibile curiosità; però, non avendo alcuna confidenza con lui, mi ero ben guardato dal chiedergli la causa di quelle orribili cicatrici.

Avendo stretto con lui, nel momento della partenza per la Cina, una certa amicizia, ed avendo ricevuto l'invito di andarlo a trovare nella sua abitazione, se per caso fossi tornato in quella città marittima, appena gettata l'àncora, quattordici mesi dopo quel pranzo memorabile, mi ricordai subito di Jol Hart.

Poteva darsi che nel frattempo fosse morto; perciò, appena sbarcato, mi recai dal negoziante genovese per chiedergli notizie dello sfregiato, come io avevo battezzato l'inglese.

– Sta meglio di voi e di me – mi rispose il negoziante, sorridendo. – Anzi, credo che gli fareste un vero regalo, andandolo a trovare. Mi ha parlato sovente di voi.

– Sicché, mi farà una buona accoglienza? – diss'io.

– Hart è più ospitale d'un arabo e vi rivedrà ben volentieri. Alla sua tavola vi è sempre un posto per gli amici.

Non volevo saperne di più. Chiesi l'indirizzo dell'inglese, ed il giorno seguente suonavo il campanello del suo giardino.

Jol Hart abitava fuori della città, sul margine d'una superba foresta di banani, in una elegante palazzina ad un solo piano, un bungalow come vengono chiamate in India quelle costruzioni.

Un sudra, ossia un servo indiano, venne a ricevermi e m'introdusse tosto in un salottino semplicissimo, ammobigliato con poche sedie di bambù a dondolo e le finestre riparate da bellissime stuoie variopinte, che attenuavano l'intensità della luce solare.

Ero appena entrato, quando vidi giungere Jol Hart.

Era molto invecchiato dall'anno precedente e anche più brutto. Le cicatrici, che deturpavano il suo viso, si erano incavate di più; tuttavia teneva ancora ben diritto il suo corpo da gigante.

Mi accolse come un vecchio amico ed insistette perché pranzassi con lui, con tanta buona grazia che non potei rifiutarmi di tenergli compagnia.

D'altronde era quanto io desideravo per farlo più tardi chiacchierare, e conoscere in seguito a quali strane circostanze egli portava sul suo viso, che un tempo doveva essere stato bellissimo e maschio, quelle cicatrici.

Il pranzo fu poco meno che luculliano. Feci onore alle anitre delle paludi, ai tucani in salsa verde, ai marangoni arrosto e anche un po' alla varietà infinita dei liquori, poi accendemmo degli eccellenti londrès, facendoci le nostre confidenze.

Dopo d'avergli narrato le varie peripezie del mio ultimo viaggio, che era stato oltremodo difficile, gli chiesi a bruciapelo:

– Signor Hart, vorreste dirmi, se non vi dispiace, in seguito a quali circostanze portate sul viso quelle cicatrici? Perdonate la mia curiosità, ma noi, gente di mare, cerchiamo di conoscere dovunque delle avventure strepitose.

Egli sorrise, aspirò tre o quattro boccate di fumo profumato dal suo londrès, poi, passandosi una mano sulla fronte come per risvegliare degli antichi ricordi, mi disse:

– Vogliamo appagare la vostra curiosità.

Stette parecchi minuti silenzioso, sorseggiando un bicchierino di vecchio sherry, poi riprese:

– Avrete udito parlare della terribile insurrezione degli seikki indiani, condotti da Nana Sahib, il figlio di Ditor, che ambiva al possesso del trono dell'India e che aveva ordito una trama gigantesca per cacciare noi inglesi in mare.

«Giorni terribili erano succeduti alla grande calma che regnava nell'Indostan. Le guarnigioni dei sipai,1 sobillati da Nana, si ribellavano dovunque e fucilavano a tradimento i loro ufficiali e sottufficiali inglesi e massacravano dovunque gli europei con una ferocia inaudita.

«Né le donne, né i fanciulli di razza bianca trovavano scampo. Quanti ne cadevano nelle mani degl'insorti venivano irremissibilmente massacrati o fatti morire fra i più atroci tormenti.

«Ero allora comandante d'una colonna inglese ed avevo ricevuto l'ordine di raccogliere sulle vie di Cannipore tutti gli europei che cercavano di porsi in salvo verso Benares, città che era tenuta fortemente dai nostri e che si era conservata fedele alla bandiera inglese.

«Avevo già posto in salvo parecchie famiglie europee, quando un giorno, mentre stavo attraversando una folta foresta dove supponevo si celassero dei fuggiaschi inglesi e francesi, vidi uscire da un gruppo di cespugli un giovane indiano di appena una dozzina d'anni, il quale mi corse incontro, gridandomi con un violentissimo scoppio di singhiozzi:

«"Signor ufficiale! Salvate mio padre! Laggiù lo martirizzano!"

«Commosso dalla disperazione del ragazzo, avevo comandato alla mia colonna di lancieri di fermarsi ed ero disceso da cavallo.

«Dico che ero commosso e non vi nasconderò che ero anche un po' inquieto, perché i ribelli indiani ricorrevano di frequente ai fanciulli per attrarre le nostre colonne volanti nelle imboscate e, per riuscirvi, ricorrevano a mille astuzie.

«Finsi quindi di mostrarmi arrabbiato, e gridai al ragazzo che continuava a singhiozzare, cercando di abbracciarmi le ginocchia:

«"Che cosa vuoi, traditore? Tu appartieni ai ribelli e cerchi di trascinarmi in un agguato".

«Il ragazzo mi guardò con uno stupore impossibile a descriversi, poi mi rispose con voce quasi vergognosa:

«"Signore... sono un paria".

«Per chi non lo sa, i paria sono esseri spregiati che tutti gl'indiani guardano quasi con ribrezzo e che nessuno oserebbe accostare, né ospitare nella propria casa.

«Sono peggio dei lebbrosi e ognuno ha il diritto di maltrattarli e, potendolo fare senza che le autorità inglesi se ne accorgano, anche di ucciderli.

«Sono infine dei disgraziati i cui avi, per colpe più o meno immaginarie, sono stati scomunicati e quella maledizione si estende anche ai loro discendenti.

«Se quel ragazzo era un paria, non poteva aver avuto alcun incarico dai ribelli, i quali avrebbero preferito piuttosto servirsi d'un ladro che d'un essere così spregevole ai loro occhi.

«"Salvate mio padre, signor ufficiale, e la nostra vita vi apparterrà" mi disse il fanciullo.

«"Chi è che tormenta tuo padre?" gli chiesi.

«"Il comandante d'un gruppo di ribelli."

«"Per quale motivo?"

«"Perché ha protetto la fuga di una famiglia inglese, che lo aveva beneficato."

«"Conosci il nome di quella famiglia?"

«"È quella del capitano Lalland."

«Impallidii e mi sentii stringere il cuore. Il capitano Lalland era stato mio compagno e avevamo servito insieme nella decima compagnia dei lancieri del Bengala l'anno precedente.

«Egli aveva una moglie adorabile ed un bambino di cinque o sei anni, biondo come un cherubino.

«"Ragazzo" gli dissi con voce profondamente commossa, "tu mi giuri che tuo padre ha protetto la fuga della famiglia Lalland?"

«"Lo giuro, signor ufficiale."

«"Dov'è la moglie del capitano?"

«"È stata nascosta in una foresta, in un luogo che solo mio padre conosce. Il capo dei ribelli, che è un luogotenente di Nana Sahib, e che pareva nutrisse un profondo odio verso il capitano, informato che mio padre aveva posto in salvo la moglie ed il figlio, si è impadronito di lui e lo tormenta per fargli confessare dove li ha condotti."

«Ne sapevo abbastanza.

«Salii a cavallo, feci montare dietro il fanciullo, raccomandandogli di tenersi ben stretto a me e gridai ai miei uomini:

«"Preparate le armi e tenetevi pronti a caricare".

«Partimmo al galoppo, seguendo le indicazioni che mi dava, di quando in quando, il fanciullo.

«La mia colonna non si componeva che di ventiquattro cavalieri, avendo dovuto lasciarne altrettanti ad una stazione, che pareva fosse stata presa di mira dai ribelli.

«Erano però tutti soldati valorosi, che avevo guidati più volte al fuoco e che montavano cavalli arabi, che avevano l'argento vivo nelle vene.»

Giunto a questo punto Jol Hart si fermò per accendere un altro londrès e vuotare un altro bicchierino di sherry, poi riprese:

– Le foreste indiane voi le conoscete e sapete quanta difficoltà si prova nell'attraversarle a piedi, quindi potete immaginarvi quanto sia difficile percorrerle coi cavalli.

«Non ostante le nostre impazienze, fummo ben presto costretti a scendere di sella e a guidare a mano i nostri cavalli.

«Non dovevamo però essere lontani dal luogo del supplizio. Di quando in quando ci giungevano, affievolite dalla distanza, delle grida e qualche colpo di gong, un enorme disco di bronzo che gl'indiani battono con un martello di legno; quel rumore si spande meglio che il suono delle campane.

«"Adagio" dissi ai miei uomini. "Appendete le lance alle selle dei cavalli e prendete i moschetti."

«Le armi da fuoco fanno sugl'indiani maggior effetto che quelle bianche.

«Attraversammo con molta fatica l'ultimo tratto della foresta, e finalmente ci trovammo sul margine d'una spianata, in mezzo a cui s'alzavano alcune miserabili capanne, aggruppate intorno ad una vecchia pagoda semidiroccata.

«Una cinquantina d'indiani, armati di scimitarre, di carabine e di lance, circondavano un grosso albero, sghignazzando e gridando:

«"Hop! Hop! Ancora un colpo e scoppierà!"

«Appeso all'estremità d'un solido ramo, dondolavasi un povero vecchio, il quale mandava urla strazianti e si dibatteva disperatamente.

«Aveva il viso congestionato e gli occhi pareva che volessero uscirgli dall'orbita.

«I suoi carnefici lo avevano appeso mediante un filo di metallo che gli passava attorno al ventre e, servendosi di due corde, lo facevano dondolare innanzi e indietro con estrema violenza.

«Il peso del disgraziato faceva stringere sempre più il laccio, minacciando di tagliargli il ventre. Il supplizio doveva essere terribilmente doloroso, a giudicarlo dalle urla strazianti che mandava il vecchio.

«"Mio padre!" singhiozzò il ragazzo.

«Gl'indiani non si erano accorti della nostra presenza.

«Balzammo in sella e ci slanciammo alla carica, facendo fuoco coi nostri moschetti.

«Udendo quelle fucilate, gl'indiani si dispersero prontamente, lasciando qualche morto, e scomparvero nella foresta, dove avevano i loro cavalli.

«Un galoppo furioso mi avvertì che si erano posti in salvo.

«Accorsi verso l'albero e con un colpo di sciabola ruppi il filo, ricevendo il vecchio paria fra le mie braccia.

«Il disgraziato mi volse uno sguardo di riconoscenza, poi svenne.

«Mentre i miei soldati rientravano nella foresta per impedire un ritorno offensivo dei ribelli, spruzzai il viso del martirizzato, poi lo costrinsi ad inghiottire alcuni sorsi del gin che avevo nella mia borraccia.

«Il vecchio, che doveva avere la pelle ben dura, aprì quasi subito gli occhi e mi disse:

«"Grazie, signor ufficiale. Il capitano Lalland vi sarà riconoscente d'aver salvato il suo fedele servo. Se tardavate ancora un po', quei ribelli mi ammazzavano".

«Poi abbracciò teneramente il figlio e se lo fece sedere accanto, accarezzandogli la testa.

«"Chi erano quei ribelli?" gli chiesi.

«"Appartenevano al corpo del luogotenente di Nana, il feroce Sikka."

«"Era con loro il luogotenente?"

«"Sì, signore."

«"Peccato che sia fuggito alla nostra scarica! È vero che voleva farti confessare dove tu hai nascosto la moglie ed il figlio del mio amico Lalland?"

«"È verissimo, signore."

«"Dove si trovano ora?"

«"In un luogo sicuro, presso un paria mio compatriota, che abita una foltissima foresta. È anche lui del Guzerate e noi siamo tutti amici degl'inglesi, perché ci proteggono."

«"È stata distrutta la casa del capitano?"

«"Non rimane più nulla di quella opulenta dimora, e anche tutte le immense piantagioni d'indaco e di canapa, che la circondavano, sono state incendiate.

"Sikka, non so come, aveva saputo che la moglie ed il figlio del capitano si erano rifugiati nella loro casa di campagna e ieri mattina lo vidi apparire con cinquanta cavalieri.

«"Ero stato già avvertito che Sikka aveva giurato di sterminare la famiglia del capitano, così mi tenevo in guardia ed avevo disposto delle sentinelle nei boschi vicini.

«"Appena accortomi della presenza del bandito, feci salire la moglie del capitano su un veloce cavallo, io salii su un altro col bambino e ci mettemmo in salvo in una foresta foltissima, abitata dal mio compatriota.

«"Stavo per tornare all'abitazione del capitano per raccogliere mio figlio, che non avevo avuto il tempo di condurre meco, quando fui sorpreso dai cavalieri del luogotenente di Nana e trattato come avete veduto."

«"Hai confessato dove si nasconde la signora Lalland?" gli chiesi.

«"Oh, no, signore!" esclamò il paria. "Mi sarei lasciato uccidere piuttosto che dirlo!"

«"Perché nutri tanta affezione pel capitano?"

«"Perché egli mi ha raccolto giovane, strappandomi dalle fauci d'una tigre, che aveva già divorato mia moglie."

«"E conosci il motivo dell'odio di Sikka verso il capitano?"

«"L'odia perché in uno scontro gli ha ucciso il fratello, che comandava gl'insorti di Benares."

«"Conducimi dal tuo compatriota" diss'io. "Sikka può tornare con rinforzi o aver scoperto il luogo che serve di rifugio alla famiglia del capitano Lalland."

«Feci suonare a raccolta e poco dopo, alla testa dei miei ventiquattro lancieri, e preceduto dal paria del Guzerate e da suo figlio, ritornavamo sotto i boschi per tentare di porre in salvo la signora Lalland e suo figlio.

«Ero però poco tranquillo, essendo stato informato dal paria che verso Lonknoso vi erano numerose bande di ribelli.

«Trovandoci noi a poche diecine di miglia da quella città che era il quartier generale dell'insurrezione, temevo che Sikka mi piombasse addosso con un buon nerbo di cavalieri e schiacciasse la mia colonna che, come vi dissi, era così debole.

«Il paria, che indovinava le mie apprensioni, ci condusse attraverso a certe montagne boscose, dove le sorprese non dovevano essere facili e che mi assicurava essere poco note anche agli abitanti delle campagne, in causa delle tigri che si mostravano abbastanza numerose in quelle selve.

«La notte ci sorprese fra quelle immense piante, e ci fu giocoforza accamparci, per non correre il pericolo di smarrirci.

«Disposte alcune sentinelle e accesi dei fuochi per tener lontano le belve, cercammo di addormentarci.

«I nostri timori non ebbero alcuna conferma e la notte, contro tutte le previsioni, passò tranquillissima.

«Eppure, appena svegliatomi, mi vidi comparire il paria col viso sconvolto.

«"Signor ufficiale" mi disse, "partiamo senza indugio."

«"Che cosa temi?" gli chiesi.

«"I ribelli ci dànno la caccia."

«"Come lo sai, tu?"

«"Poco fa mi sono arrampicato su una pianta ed ho veduto brillare delle punte di lance in mezzo ai burroni che conducono quassù."

«"È lontana la capanna del tuo compatriota?"

«"Fra due ore vi giungeremo, se Sikka non ci chiude la via."

«Feci levare il campo, raccomandando a tutti il più profondo silenzio e ci mettemmo nuovamente in marcia, cercando di mantenerci sulle creste delle montagne per poter più facilmente respingere un attacco.

«Dopo tre ore giungevamo dinanzi ad una capannuccia, formata con tronchi d'albero e che era nascosta in mezzo ad alcuni banani colossali, che la coprivano interamente.

«Senza il paria c'era da scommettere che noi non saremmo mai riusciti a trovarla.

«La signora Lalland e suo figlio, avvertiti dal loro ospite della presenza di cavalieri inglesi, erano prontamente usciti.

«La brava signora mi si gettò fra le braccia, chiamandomi il suo salvatore. Aveva passato due lunghi giorni fra angosce inenarrabili, temendo ad ogni istante di veder comparire i ribelli, i quali non l'avrebbero certamente risparmiata.

«Sapendoci inseguiti, diedi subito l'ordine di partire e di muovere senza ritardo verso Benares, la sola città dell'India settentrionale dove potevamo sfidare tranquillamente la rabbia degl'insorti e di Sikka.

«Avevo appena preso fra le braccia la signora Lalland e affidato suo figlio ad un caporale, su cui sapevo di poter contare, quando fummo fatti segno a una scarica violentissima, che ferì parecchi dei nostri cavalli.

«I ribelli erano piombati su di noi ed in tale numero da non poter impegnare un combattimento senza avere la peggio.

«Per nostra fortuna erano tutti fantaccini e solamente il luogotenente di Nana Sahib montava un cavallo.

«Rispondemmo alla scarica coi nostri moschetti, poi, approfittando della confusione degl'insorti, cacciammo gli sproni nel ventre dei nostri cavalli e partimmo a corsa sfrenata.

«I due paria ed il ragazzo s'erano slanciati dietro di noi, correndo a tutta lena, e vi posso assicurare che non rimanevano indietro. Voi già conoscerete la resistenza prodigiosa degl'indiani e la loro agilità.

«Gl'insorti, aizzati da Sikka, si erano cacciati nella foresta, perseguitandoci accanitamente e facendo fuoco su di noi senza posa.

«I loro colpi, però, male diretti, a causa della corsa affannosa dei bersaglieri, non colpivano quasi mai nel segno.

«Avevamo lasciato la montagna e stavamo per giungere al posto dove il giorno innanzi avevo lasciato un drappello dei miei lancieri, quando udii dietro a me un grido straziante:

«"Mio padre! Mio padre!"

«Mi volsi e vidi il figlio del paria col viso irrigato di lagrime ed in preda ad una disperazione che non vi potrei descrivere.

«"Dov'è tuo padre?" gridai.

«"Scomparso, signore!" urlò il povero ragazzo.

«Interrogai i miei lancieri. Nessuno si era accorto della scomparsa del povero vecchio.

«Era stato ferito da qualche colpo di fucile, oppure era caduto esausto dalla lunga corsa?

«Non sapevo che cosa fare, eppure mi rincresceva lasciare quel disgraziato nelle mani dei ribelli, giacché supponevo che fosse stato ripreso da Sikka.

«"Signora" dissi alla moglie del capitano Lalland, "ormai voi non correte alcun pericolo. Il posto non è che a mezzo chilometro da qui e là sarete al sicuro."

«"Che cosa volete fare, signor Hart?" mi chiese con una voce profondamente commossa, giacché aveva ormai indovinato la mia risoluzione.

«"Andare a cercare il paria" le dissi.

«"Voi siete un generoso come ve ne sono pochi, signor Hart."

«L'affidai a due soldati, poi ordinai ai miei uomini di seguirmi e di prepararsi a piombare sui ribelli.

«Quei bravi giovani non fecero alcuna obbiezione. Impugnarono le lance e si slanciarono dietro a me come se si trattasse di fare una semplice esplorazione.

«I ribelli non avevano osato uscire dalla foresta, però udivamo ancora le loro grida e non mi parevano urla di guerra.

«"Signor tenente" disse il mio caporale, che si era messo al mio fianco. "Gl'indiani hanno intonato una canzone funebre. È a questo modo che cantano quando bruciano i loro morti."

«"Che Sikka sia stato ucciso dalla nostra scarica e che si preparino a cremarlo?"

«"E se fosse, invece, un vivo?" mi disse il caporale.

«Lo guardai, rabbrividendo.

«"Signor tenente" mi disse. "Io scommetterei che si tratta del paria. Quei disgraziati lo bruciano!"

«"Alla carica!" urlai. "E giù senza misericordia!"

«Le grida risuonavano vicine e anche a me parevano canti funebri.

«Stavamo per rientrare nel bosco, quando il caporale mi fece osservare una colonna di fumo, che si alzava sopra gli alberi, disperdendosi lentamente.

«"Lo bruciano, signore" mi disse.

«In quell'istante un urlo acutissimo, straziante, echeggiò per l'aria, coprendo le voci dei cantori.

«Ci precipitammo innanzi con le lance in resta e piombammo in mezzo ad uno spazio, che era stato disboscato.

«Colà ardeva una pira immensa, formata di tronchi d'alberi resinosi, ed in mezzo a quelle vampe si dibatteva disperatamente un essere umano, già annerito dal fumo.

«Intorno danzavano, urlando e sghignazzando, una cinquantina d'indiani, fra i quali riconobbi anche Sikka, il feroce luogotenente di Nana Sahib.

«Con uno slancio irresistibile, piombammo su quei miserabili, trapassando con le nostre lance quanti si trovavano dinanzi a noi.

«Io, con una sciabolata, avevo già spaccato il cranio a Sikka.

«Vedendo cadere il loro capo e credendoci forse in gran numero, i ribelli si erano dati a fuga disperata, tentando appena una debole resistenza.

«Mentre i miei lancieri li disperdevano, io mi ero lasciato scivolare giù dal cavallo e mi ero slanciato in mezzo alle fiamme per strapparne il povero paria.

«Quando uscii da quella catasta di legna io ero tutto in fiamme. Fui trasportato, a gran pena, al posto. La mia pelle, specialmente quella del viso, carbonizzata da quelle maledette vampe, si staccava a lembi.

«Guarii dopo due mesi di atroci sofferenze, però guardate in quale stato mi trovo ancora oggidì. Il mio viso è quasi irriconoscibile e certe volte, mirandomi nello specchio, ho orrore di me stesso.»

Jol Hart vuotò un altro bicchiere di sherry, poi, alzandosi, mi disse, a mo' di consolazione:

– Che cosa volete? Sono gl'incerti della guerra. D'altronde non mi sono mai lamentato d'aver esposto la mia vita per salvare quel disgraziato.

– Ed il paria? – chiesi.

– È il mio più fedele servo e piange sempre la mia disgrazia. Non è però meno bello di me e ci consoliamo a vicenda.

Mi diede una buona stretta all'inglese ed, essendo tardi, mi condusse fino alla porta dove aveva fatto venire un comodo palanchino.

– Guardatelo! – mi disse. – Eccolo!

Il paria stava seduto sotto un albero del giardino e si nascondeva il viso orribilmente deformato, fra le mani, tenendo fissi gli occhi sul suo padrone.


Note

  1. Soldati indiani al soldo dell'Inghilterra.