I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Una caccia sul Maronì

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Una caccia sul Maronì

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Il ponte maledetto Il paria del Guzerate

UNA CACCIA SUL MARONÌ


Dal penitenziario di San Lorenzo, situato alla foce del grande fiume americano, denominato il Maronì, il più importante del possedimento francese dell'America del Sud, alla cascata dello Sparvine, non vi sono che sessanta chilometri, una vera miseria, come diceva il mio marinaro, che contava migliaia e migliaia di leghe di navigazione.

Appunto quella miseria mi aveva tentato. Da parecchi anni sapevo che il mio amico Cardali, un italiano che era andato a cercare fortuna in quella colonia abitata da galeotti francesi, desiderava vedermi e passare qualche giornata in mia compagnia.

Dovendo la nostra nave fermarsi otto giorni a Cajenna per imbarcare legnami da tintura, approfittai della vicinanza per farmi condurre al penitenziario di San Lorenzo, che oggi è diventato il più importante di tutta la Guaiana francese.

Dopo d'aver fatto chiedere al governatore della stazione il permesso di passaggio sul Maronì, noleggiai una comoda scialuppa che era condotta da due battellieri negri della tribù dei boni, battellieri che credo non abbiano rivali al mondo e che soli possono risalire le rapide dei fiumi.

Avevo condotto con me Barsal, un marinaro siciliano, che m'accompagnava sempre quando si trattava di fare qualche escursione a terra e soprattutto... di fare qualche buon pasto.

Ottenuto dunque il permesso, partimmo di buon mattino, per non esporci ai pericolosissimi colpi di sole, che sono quasi sempre mortali nelle Guaiane.

Avevamo preso con noi i nostri fucili e anche delle provviste, prevedendo che non saremmo giunti alla cascata dello Sparvine prima del tramonto.

Oltrepassate le ultime casupole di San Lorenzo, ci trovammo in pieno paese selvaggio.

A cinquecento metri dal penitenziario comincia quella interminabile foresta, quasi vergine, che si estende, quasi senza interruzione, fino sulle rive dell'altro gigante dell'America meridionale: il grandioso Amazzoni.

Sono alberi immensi, che crescono uno accanto all'altro, intrecciando rami e radici in una confusione indescrivibile, che hanno per di più foglie mostruose e che pur non producono il più piccolo frutto.

L'uomo che si smarrisse sotto quei colossi del regno vegetale e che non avesse con sé delle provviste, morrebbe ben presto di fame e lo sanno così bene i galeotti francesi del penitenziario di San Lorenzo, che, anche lasciati liberi, non tentano mai la fuga dalla parte di quella interminabile foresta.

Coricati sotto la cupoletta di foglie che doveva garantirci dai colpi di sole, noi chiacchieravamo, fumando eccellenti sigarette, mentre i due negri, insensibili al calore, come se avessero indosso la pelle delle salamandre, remavano con un vigore e con un'abilità che stupiva anche il mio marinaro, quantunque fosse un uomo poco facile a sorprendersi.

Il fiume, larghissimo, si svolgeva dinanzi a noi, serpeggiando fra le due foreste che gli facevano argine.

Era per la maggior parte coperto da foglie di macum, larghe come piccole zattere, aventi una superficie di due metri quadrati e anche più.

Quelle foglie immense, coi margini rialzati, andavano lentamente alla deriva ed erano coperte da certi animaletti, che prima non avevo potuto ben osservare perché i nostri negri cercavano di tenersi ben lontani da quei galleggianti.

Ne chiesi loro il motivo e mi risposero con un leggero sibilo, poi si spinsero lontani da quelle zatterine, che non desideravano affatto incontrare sulla loro rotta.

Quando si videro al sicuro, il negro più vecchio, che stava presso di me, ritirò il remo e, dopo d'avermi guardato con un certo imbarazzo, mi disse:

Massa,1 gl'indiani okay non vogliono che i bianchi risalgano in questo momento il fiume.

– Come lo sai? – gli chiesi con sorpresa.

– Me lo dicono le macum.

– Quelle foglie?

– Sì, massa.

– È un avvertimento degl'indiani?

– E costituiscono anche un pericolo per gl'imprudenti che le accostano.

– Vuoi scherzare?

– Non avete osservato che cosa v'è su quelle foglie?

– Degli animaletti che non ho potuto bene osservare.

– No, massa, dei serpenti e velenosissimi. Venite a vedere. La nostra barca è rapidissima e non ci lasceremo accostare dalle macum.

Quello che mi diceva il negro era vero.

Avevamo attraversato quasi mezzo fiume, quando facemmo l'incontro d'una seconda flottiglia di foglie galleggianti. Avendole accostate, uno spettacolo da far rabbrividire l'uomo più coraggioso del mondo s'offerse ai nostri sguardi.

Come il negro aveva detto, quelle foglie reggevano ognuna un serpente.

Ve n'erano di tutte le specie e di tutte le lunghezze e parevano mezzo assonnati, perché non facevano alcun movimento e si tenevano arrotolati su loro stessi.

Ecco là, mollemente adagiato sulla zattera, il terribile crotalo o serpente a sonagli il cui morso è mortale; più oltre ecco i trigonocefali, i serpenti-corallo, i piccoli ai ai, così chiamati perché l'uomo morsicato ha appena il tempo di mandare un grido che cade fulminato, poi su altre foglie i serpenti-cacciatori, i più audaci di tutti, poi i serpenti-liana color verde chiaro, lunghi tre metri e sottili come un portapenne.

L'equipaggio di quella strana flottiglia scendeva lentamente il fiume, ora riunito in gruppi ed ora disseminato, a seconda della forza della corrente e delle curve che descriveva il Maronì.

Di quando in quando qualche serpente si svegliava bruscamente e si rizzava, pronto a mordere, con la testa diritta, le mascelle aperte, la lingua mobile, e fischiando rabbiosamente.

Io ed il mio marinaro guardammo i due negri, i quali manovravano in modo da non venire a contatto con quelle zattere, chiedendo ad una voce:

– Chi ha messo quei serpenti sulle macum?

– Gl'indiani okay – ci rispose il vecchio.

– E per quale motivo?

– Per impedire agli uomini bianchi del penitenziario di salire il fiume. È un avvertimento.

– E come possono aver fatto a imbarcare tutti quei rettili? – chiesi.

– Nella loro tribù si contano i più famosi incantatori di serpenti. Quegli uomini si recano nella foresta, suonando il flauto, finché non fanno uscire dai loro nascondigli tutti i serpenti che si trovano nelle vicinanze; poi li attirano sulla riva del fiume, dove prima hanno radunato un gran numero di macum, e, suonando in un modo speciale, li costringono ad imbarcarsi. La corrente poi s'incarica di portarli via.

– E perché vogliono impedire a noi di giungere alla cascata?

– Non lo so – mi rispose il negro. – Suppongo che qualche grave avvenimento sia accaduto fra gli okay e che non desiderino di farlo conoscere ai bianchi. Forse più tardi ne sapremo qualche cosa dal vostro amico che si trova sul territorio degli okay e che ha frequenti contatti con la tribù.

– Allora noi non obbediremo al divieto degl'indiani.

– Se lo desiderate, saliremo ugualmente. Anche disobbedendo all'intimazione, gli okay non ci daranno fastidio. Sanno che i bianchi sono protetti dal governatore di San Lorenzo e che quel signore è un uomo da metterli a posto.

– Andiamo – diss'io, dopo essermi consigliato col mio marinaro. – Siamo armati e le munizioni abbondano.

I due negri ripresero i remi e continuarono a remare con vigore crescente, imprimendo alla scialuppa una velocità straordinaria. È ben vero che avevamo il flusso in favore e che la corrente si faceva sentire debolissima.

Noi tenevamo d'occhio le foglie dei macum, temendo che qualcuna venisse spinta verso di noi.

Il loro numero anziché diminuire, aumentava in modo inquietante, e sopra ognuna si vedeva sempre qualche serpente.

Si sarebbe detto che gli okay avessero radunato sulle rive del Maronì tutti i serpenti della Guaiana. Il fatto è che ve n'erano delle centinaia e che altri giungevano sempre.

I due negri, di quando in quando, s'interrompevano e parlavano a voce bassa nella loro lingua, che né io, né il mio marinaro comprendevamo.

– Mi sembrano preoccupati – dissi a Barsal, che da qualche tempo li osservava.

– Infatti, signore, – mi rispose il marinaro, – pare che comincino ad averne abbastanza di tutti questi serpenti e un po' anch'io.

– Vorresti tornare a San Lorenzo?

– Oh, no! Ci tengo al pranzo che non ci mancherà di offrirci il vostro amico – mi disse Barsal.

In quel momento vidi i negri virare di bordo e dirigersi verso la riva dove era apparso un canale.

– Sbarchiamo? – chiesi loro.

– No, massa – mi risposero. – Prendiamo la savana e arriveremo ugualmente alla cascata senza incontrare quei serpenti.

Attraversammo il Maronì e la barca si cacciò in uno stretto per trovarsi, poco dopo, su una laguna vastissima di cui non riuscivamo a scorgere le rive.

Era la savana, una specie di lago dal fondo pantanoso, abitato da serpenti acquatici, fortunatamente innocui, e da certi pesciolini chiamati caribi, lunghi appena due o tre pollici, eppure terribilissimi. Quei mostriciattoli hanno delle mandibole armate di denti così acuti e dotati di una tale forza che in pochi minuti riducono un uomo allo stato di scheletro.

Chi cade in quelle acque morte e nerastre, è irremissibilmente perduto. O affonda nel fango che subito lo inghiotte, o cade fra i caribi, che s'incaricano di spolparlo in pochi minuti.

– Guarda di non cadere – dissi a Barsal. – Qui vi è la morte.

I due negri avevano ripreso la corsa, arrancando con vigore incredibile. Non abbandonavano un solo istante i remi, senza che accennassero a mostrarsi stanchi.

Essi giravano con una destrezza inaudita degli ammassi enormi di piante acquatiche, che sorgevano da tutte le parti e da dove s'involavano spaventati numerosi uccelli acquatici, turbati per la prima volta nella loro solitudine.

Sovente s'arenavano sui banchi di melma, s'impigliavano nelle radici e fra le liane, ma nulla arrestava il loro ardore.

Impiegavano nel superare quegli ostacoli tutta la loro pazienza e tutta la loro straordinaria abilità.

Quella navigazione attraverso la savana durò tutta la giornata, con una sola ora di tregua per mangiare un boccone. Alla sera eravamo tornati nel Maronì, attraversando un nuovo canale.

Colà non si vedevano più le foglie delle macum. Udivamo, invece, distintamente i muggiti della rapida dello Sparvine, i quali, nei giorni di calma, si propagano a grandi distanze.

Eravamo presso la concessione del mio amico Cardali. Quel mio compatriota aveva ottenuto dagl'indiani okay un vasto territorio che sfruttava con fortuna, essendo sufficientemente ricco di polvere d'oro che si trovava quasi a fior di terra.

Avevamo appena sorpassato la cascata, quando giungemmo dinanzi a varie tettoie, che formavano l'hacienda del mio amico.

Una confusione indescrivibile regnava là sotto. Negri, indiani, coolie,2 incaricati del lavoro delle miniere, cantavano, ballavano, si bisticciavano e soprattutto bevevano.

Numerosi barili di tafià – pessimo liquore che brucia la gola – giacevano al suolo sventrati, spandendo intorno un odore insopportabile d'alcool.

– I minatori sono in festa, – dissi a Barsal; – che il mio amico abbia scoperto qualche ricca vena di metallo?

Prendemmo i nostri fucili e sbarcammo. I negri, i cinesi e gl'indiani, che parevano ubriachi fradici, non avevano fatto nemmeno attenzione alla nostra comparsa.

Continuavano a bere, come se fossero stati presi da una sete inestinguibile e ad urlare, dimenandosi come ossessi.

Anche nelle tettoie che si allungavano sui fianchi dell'abitazione del mio amico, regnava una confusione inenarrabile. Negre e indiane sfondavano i barili contenenti il merluzzo e le casse di gallette, empiendo dei panieri che subito venivano portati via da una legione di ragazzi, i quali non dovevano essere meno ebbri dei loro padri.

Era un saccheggio ed un'orgia in piena regola e non già una festa come avevamo dapprima creduto.

Guardai i miei due battellieri, i quali avevano gli occhi accesi e fissi sui barili di tafià e ne aspiravano l'odore con le nari dilatate. Senza la nostra presenza, si sarebbero certamente gettati anche loro su quei barili per prendere una solenne ubriacatura.

– Ditemi, dunque, che cosa succede qui? – domandai a loro.

– I coolie della miniera si divertono, signore – mi rispose il negro più anziano, con un sorriso.

– Mi pare che saccheggino – disse il mio marinaro. – Non vedi, negro, che derubano le provviste del padrone?

– Lo vedo.

– Dunque? – ripresi io.

– Non so che cosa succeda qui – riprese il negro. – Se mangiano e bevono a quel modo, io suppongo che il padrone sia morto.

– Vammi a cercare il direttore della miniera – gli dissi. – M'immagino che non sarà morto anche lui.

I due negri deposero i remi, legarono la barca e saltarono a terra. Li vedemmo fermarsi qualche po' presso i bevitori, vuotando qualche tazza di tafià che veniva offerta loro dagli ubriachi, poi scomparire sotto le tettoie.

Noi eravamo imbarazzatissimi e ci sentivamo indosso una voglia pazza di disperdere quei beoni col calcio dei nostri fucili e di bastonare maledettamente le saccheggiatrici. Per poco che quell'orgia fosse durata, il mio povero amico, se era ancora vivo, nulla avrebbe più ritrovato delle sue provviste che dovevano essere state considerevoli.

– Barsal, – dissi al marinaro, – teniamoci pronti a disperdere questa canaglia.

– Ho le mani che mi prudono, signore – mi rispose, mostrandomi i suoi pugni enormi. – Quando me l'ordinerete, picchierò tremendamente le teste lanute dei negri e quelle pelate dei coolie cinesi. E dove sarà andato il vostro amico? Che sia proprio morto?

– Non capisco più nulla, – risposi; – che sia però morto, ne dubito, avendomi scritto a Cajenna otto giorni fa.

Era trascorso un quarto d'ora, quando vidi giungere Michele, il sorvegliante della miniera, che io già conoscevo, un mulatto nato da padre negro e da un'indiana, che aveva fatto i suoi studi alla Cajenna e che era sempre stato il braccio diritto del mio amico Cardali.

Il pover'uomo era in uno stato da far pietà. Piangeva e si strappava i capelli.

– Ah, signore! – mi disse, vedendomi. – Salvate le ricchezze del mio padrone! I negri ed i coolie saccheggiano ogni cosa e continuano ad ubriacarsi.

– E dov'è Cardali? – chiesi.

– Non ne sappiamo più nulla, signore. È partito due giorni or sono per cacciare un giaguaro che faceva delle frequenti escursioni sui terreni della miniera, divorando le sue pecore, poi non è più tornato. I minatori, credendo il padrone morto, si sono ribellati e hanno saccheggiato i magazzini.

– Che sia morto?

– Non so nulla, signore. Tuttavia penso che se fosse ancora vivo sarebbe qui, giacché è due giorni che è assente.

– È partito solo?

– Solo coi suoi due cani.

– Può essere stato solamente ferito – disse il mio marinaro. – Bisogna cercarlo.

– Nessuno ha voluto muoversi e se io mi fossi messo in sua cerca sarebbe stato peggio che peggio. Nella casa vi sono mille e più once di polvere d'oro ed i negri non le avrebbero certo lasciate.

– Ed i minatori non vogliono obbedirvi?

– Sono tutti ubriachi.

– Barsal – diss'io al marinaro. – Mettiamo prima a posto questi bricconi ed impediamo loro di vuotare i magazzini. Poi tu ti metterai a guardia della casa per impedire che rubino l'oro, ed io andrò in cerca del mio amico assieme a Michele.

Stavo per scendere a terra, quando un pensiero mi trattenne.

– Ditemi, – dissi a Michele: – chi è che ha lanciato nel Maronì tutti quei serpenti?

– I negri – mi rispose il direttore della miniera. – Vi sono degl'incantatori di serpenti fra di loro e hanno fatto uscire un numero infinito di rettili dalle foreste, per impedire che qualche barca del penitenziario salisse fin qui e disturbasse la loro orgia.

– Vieni, Barsal – dissi al marinaro, prendendo il fucile.

Ci slanciammo tutti e tre in mezzo ai beoni, gridando con voce imperiosa:

– Finitela o vi accoppiamo! Via di qui, nelle vostre capanne! Comandiamo noi e la miniera è nostra.

Negri, cinesi e indiani, vedendoci armati e coi calci dei fucili in aria, pronti a calarli sulle loro teste, in meno che non si dica, fuggirono da tutte le parti, disperdendosi nei terreni limitrofi all'abitazione del mio amico.

Parecchi, però, completamente ubriachi, erano caduti come colpiti da apoplessia, prima di giungere nelle loro capanne.

Anche il saccheggio dei magazzini era subito cessato. Negre e indiane, udendo la nostra voce, erano scomparse assieme ai ragazzi, nascondendosi nella vicina foresta.

Fugati tutti quei bricconi, diedi ordine a Barsal di far fuoco su chiunque avesse avuto l'ardire di ritornare, poi dissi al sorvegliante della miniera:

– Ora andiamo a cercare il mio amico Cardali. Io non credo affatto che sia stato divorato o sbranato dal giaguaro. In qualche luogo noi lo ritroveremo.

Cercarlo non era probabilmente cosa facile. Michele non aveva alcuna notizia precisa sulla direzione presa dal mio amico.

L'aveva veduto dirigere verso la grande foresta, poi non ne aveva saputo più nulla. Nemmeno i due cani erano tornati ed era appunto quell'assenza che m'inquietava.

Se il padrone era morto, almeno uno sarebbe tornato alla casa.

Provveduti entrambi di fucile e di quelle corte sciabole, a lama larga, chiamate da guastatore, armi eccellenti contro i rettili e per aprirsi un passaggio fra le liane delle foreste, partimmo.

La notte era calata da qualche ora, e la luna era sorta splendidissima, sicché ci si vedeva benissimo e poi Michele conosceva la foresta e non vi era da temere che ci smarrissimo.

Ci cacciammo, dunque, risolutamente sotto gl'immensi alberi, avanzando a casaccio. Cercare la pista del mio amico sotto le ombre proiettate da quelle foglie immense sarebbe stata cosa impossibile, anche a giorno fatto.

Camminavamo da un paio d'ore, tagliando a destra ed a sinistra le liane e le radici che c'impedivano il passo, quando vidi Michele arrestarsi improvvisamente.

Dinanzi a lui si scorgevano al suolo dei rami tagliati e non ancora del tutto appassiti e pendere dagli alberi delle liane che parevano fossero troncate da poco tempo.

– Qualcuno è passato di qui – mi disse. – Può essere stato il mio padrone.

– E perché non un indiano? – gli chiesi.

– Non hanno sciabole e preferiscono strisciare come rettili anziché affaticarsi a recidere i rami e le radici – mi rispose. – Qui ha lavorato una sciabola da guastatore, e non ne possiede che il padrone.

– Seguiamo la traccia – diss'io.

La lama del cacciatore aveva tracciato come un solco attraverso quella foresta quasi vergine.

Si vedevano dappertutto radici e rami tagliati e liane pendenti ed un po' appassite. Ci cacciammo in quel passaggio, tenendo il dito sul grilletto dei fucili, non essendo scarse le belve feroci nelle foreste della Guaiana sia francese, inglese od olandese.

Oltre i giaguari, che sono le tigri dell'America meridionale, vi sono anche i coguari, animali più piccoli, chiamati forse a torto i leoni dell'America non avendone né la maestà, né la forza straordinaria, né la ferocia e tuttavia non poco pericolosi, e poi anche gli onza, un po' più piccoli e molti audaci, i quali si scagliano a tradimento sui cacciatori.

Avevamo percorso un migliaio di passi, seguendo sempre quella traccia, quando ci trovammo improvvisamente dinanzi al cadavere di un cane. Il povero animale era stato letteralmente sventrato e giaceva con le gambe all'aria, mostrando i suoi intestini.

Michele aveva mandato un grido:

– Uno dei due cani del padrone! Ah, disgrazia! Disgrazia!

– Non è che un cane – diss'io. – Cerchiamo l'altro e poi il mio amico. Non sono ancora convinto che sia morto e non lo sarò se non avrò prima trovato il suo cadavere.

Proseguimmo la nostra via attraverso l'immensa e sconfinata foresta, passando sotto certi alberi che avevano cinquanta e anche sessanta metri d'altezza, e foglie che ne misuravano perfino dieci di lunghezza su quattro di larghezza, e di cui una sola sarebbe stata bastante per formare il carico d'un uomo.

Percorsi altri centocinquanta o duecento metri, ci trovammo su un piccolo piazzale quasi sgombro d'alberi, e vedemmo nel mezzo una massa oscura, che subito non riuscimmo a ben discernere.

– Vi è qualcuno che dorme o che è morto – diss'io a Michele.

– Che sia il padrone? – chiese il direttore della miniera, facendosi smorto in viso.

Ci avanzammo con precauzione, tenendo i fucili tesi, ma la massa non accennava a muoversi. Quando fummo a pochi passi, un grido di sorpresa ci sfuggì dalle labbra:

– Un giaguaro!

Era, infatti, uno di quei terribili animali che sono il terrore delle foreste americane. La belva giaceva supina, con la testa fracassata da un colpo di fucile sparatole a bruciapelo, e teneva ancora stretto fra gli artigli un cane ridotto in uno stato miserando.

– Il secondo cane del padrone! – gridò Michele. – Lo riconosco! Ah, mio Dio, che cosa è successo del signore?

In quel momento udimmo una voce lamentevole gridare:

– Acqua! Acqua!

Ci slanciammo verso un'enorme simaruba sotto cui si era levato quel grido.

Il mio amico Cardali giaceva là sotto, col corpo appoggiato al tronco dell'albero, con le vesti imbrattate di sangue, stringendo ancora la carabina fra le dita rattrappite.

Appena mi vide mi sorrise, poi, fosse il dolore o la commozione, cadde al suolo come se fosse morto.

Accendemmo un pezzo di candela e ci affrettammo ad esaminarlo, temendo che fosse morto. Il disgraziato cacciatore era stato conciato in modo atroce dalla belva che aveva uccisa.

Aveva le spalle straziate dagli artigli ed un braccio, il destro, era stato in parte scarnato. Come aveva potuto resistere due giorni in quelle miserande condizioni?

Lo fasciammo meglio che ci fu possibile, poi costruimmo una barella con dei rami frettolosamente tagliati e riprendemmo lentamente la via della miniera.

Cardali era tornato quasi subito in sé, dopo una sorsata di tafià, somministratagli dal suo direttore.

Mentre lo trasportavamo, ci aveva brevemente narrato la sua avventura.

Aveva sorpreso il giaguaro due giorni prima, in piena foresta, ed era riuscito a ferirlo leggermente, dopo d'aver perduto un cane.

Poi lo aveva seguito e l'aveva scoperto novamente, rannicchiato in mezzo ad una folta macchia di cespugli.

Nel momento però in cui si disponeva a fucilarlo, l'animale gli si era scagliato addosso, rovinandogli le spalle ed aveva appena avuto il tempo di fracassargli la testa con un colpo di fucile sparatogli a bruciapelo. Per due giorni il disgraziato si era trascinato attraverso la foresta, subendo parecchi svenimenti e probabilmente se noi non l'avessimo trovato, sarebbe spirato solo, senza alcun amico.

Quando giungemmo all'abitazione, una calma completa regnava nella miniera. Il mio marinaro aveva già sparato alcuni colpi di fucile in aria e, udendo quelle detonazioni, negri, indiani e cinesi, si erano ben guardati dall'uscire dalle loro capanne per ricominciare l'orgia.

Ci fermammo otto giorni presso il salto dello Sparvine e quando ci decidemmo a tornare a Cajenna, dove la nave ci attendeva, il mio amico Cardali era ormai fuori di pericolo ed i minatori avevano ripreso i loro lavori, sotto la direzione di Michele, ben felici di non aver ricevuto una solenne fustigazione.

Quando ci lasciammo il mio marinaro era così lieto, come non lo avevo mai veduto prima di allora.

Mi confidò più tardi che il mio amico gli aveva regalato due pepite d'oro puro da donare alla sua fidanzata, e che quelle pepite non valevano meno di trecento lire l'una.

Barsal ha mantenuto però la parola.

Sua moglie, una brava pescatrice di Marsala, ora sfoggia le sue pepite, che destano molta invidia fra le sue compagne.


Note

  1. Signore.
  2. Emigranti cinesi.