Il Conte di Carmagnola/Atto primo/Scena II

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Atto primo - Scena seconda

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Atto primo - Scena I Atto primo - Scena III

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SCENA II.

IL CONTE, e detti.

il doge.


Conte di Carmagnola, oggi la prima
Occasion s’affaccia in che di voi
Si valga la Repubblica, e vi mostri
In che conto vi tiene: in grave affare
Grave consiglio ci abbisogna. Intanto
Tutto per bocca mia questo Senato
Si rallegra con voi da sì nefando
Periglio uscito; e protestiam che a noi
Fatta è l’offesa, e che sul vostro capo
Or più che mai fia steso il nostro scudo,
Scudo di vigilanza e di vendetta.

il conte.


Serenissimo Doge, ancor null’altro
Io per questa ospital terra, che ardisco
Nomar mia patria, potei far che voti.
Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,
Pur or sottratta al macchinar de’ vili,
Questa che nulla or fa che giorno a giorno
Aggiungere in silenzio, e che guardarsi
Tristamente, tirarla in luce ancora,
E spenderla per voi, ma di tal modo,
Che dir si possa un dì, che in loco indegno
Vostr’alta cortesia posta non era.

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il doge.


Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,
Ci promettiam da voi. Per or ci giovi
Soltanto il vostro senno. In suo soccorso
Contro il Visconte l’armi nostre implora
Già da lungo Firenze. Il vostro avviso
Nella bilancia che teniam librata
Non farà piccol peso.

il conte.


                                        E senno e braccio
E quanto io sono è cosa vostra: e certo
Se mai fu caso in cui sperar m’attenti
Che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo.
E lo darò: ma pria mi sia concesso
Di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,
Un cor che agogna sol d’esser ben noto.

il doge.


Dite: a questa adunanza indifferente
Cosa che a cor vi stia giunger non puote.

il conte.


Serenissimo Doge, Senatori;
Io sono al punto in cui non posso a voi
Esser grato e fedel, s’io non divengo
Nemico all’uom che mio signor fu un tempo.
S’io credessi che ad esso il più sottile
Vincolo di dover mi leghi ancora,
L’ombra onorata delle vostre insegne
Fuggir vorrei, viver nell’ozio oscuro
Vorrei, prima che romperlo, e me stesso
Far vile agli occhi miei. Dubbio veruno
Sul partito che presi in cor non sento,
Perch’egli è giusto ed onorato: il solo
Timor mi pesa del giudizio altrui.
Oh! beato colui cui la fortuna
Così distinte in suo cammin presenta
Le vie del biasmo e dell’onor, ch’ei puote
Correr certo del plauso, e non dar mai
Passo ove trovi a malignar l’intento
Sguardo del suo nemico. Un altro campo
Correr degg’io, dove in periglio sono
Di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
Nome d’ingrato, l’insoffribil nome
Di traditor. So che de’ grandi è l’uso
Valersi d’opra ch’essi stiman rea,
E profondere a quel che l’ha compita
Premi e disprezzo, il so; ma io non sono
Nato a questo; e il maggior premio che bramo,

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Il solo, egli è la vostra stima, e quella
D’ogni cortese; e, arditamente il dico,
Sento di meritarla. Attesto il vostro
Sapiente giudizio, o Senatori,
Che d’ogni obbligo sciolto inverso il Duca
Mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno
De’ benefizi che tra noi son corsi
Pareggiar le ragioni, è noto al mondo
Qual rimarrebbe il debitor dei due.
Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca
Fin che fui seco, e nol lasciai che quando
Ei mi v’astrinse. Ei mi balzò dal grado
Col mio sangue acquistato: invan tentai
Al mio signor lagnarmi. I miei nemici
Fatto avean siepe intorno al trono: allora
M’accorsi alfin che la mia vita anch’essa
Stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.
Chè la mia vita io voglio dar, ma in campo,
Per nobil causa, e con onor, non preso
Nella rete de’ vili. Io lo lasciai,
E a voi chiesi un asilo; e in questo ancora
Ei mi tese un agguato. Ora a costui
Più nulla io deggio; di nemico aperto
Nemico aperto io sono. All’util vostro
Io servirò, ma franco e in mio proposto
Deliberato, come quei ch’ è certo
Che giusta cosa imprende.

il doge.


                                                  E tal vi tiene
Questo Senato: già tra il Duca e voi
Ha giudicato irrevocabilmente
Italia tutta. Egli la vostra fede
Ha liberata, a voi l’ha resa intatta,
Qual gliela deste il primo giorno. È nostra
Or questa fede; e noi saprem tenerne
Ben altro conto. Or d’essa un primo pegno
Il vostro schietto consigliar ci sia.

il conte.


Lieto son io che un tal consiglio io possa
Darvi senza esitanza. Io tengo al tutto
Necessaria la guerra, e della guerra,
Se oltre il presente è mai concesso all’uomo
Cosa certa veder, certo l’evento;
Tanto più, quanto fien gl’indugi meno.
A che partito è il Duca? A mezzo è vinta
Da lui Firenze; ma ferito e stanco
Il vincitor; voti gli erari: oppressi
Dal terror, dai tributi i cittadini

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Pregan dal ciel su l’armi loro istesse
Le sconfitte e le fughe. Io li conosco,
E conoscer li deggio: a molti in mente
Dura il pensier del glorioso, antico
Viver civile; e subito uno sguardo
Rivolgon di desio là dove appena
D’un qualunque avvenir si mostri un raggio,
Frementi del presente e vergognosi.
Ei conosce il periglio; indi l’udite
Mansueto parlarvi; indi vi chiede
Tempo soltanto da sbranar la preda
Che già tiensi tra l’ugne, e divorarla.
Fingiam che glielo diate: ecco mutata
La faccia delle cose; egli soggioga
Senza dubbio Firenze; ecco satolle
Le costui schiere col tesor de’ vinti,
E più folte e anelanti a nove imprese.
Qual prence allor dell’alleanza sua
Far rifiuto oseria? Beato il primo
Ch’ei chiamerebbe amico! Egli sicuro
Consulterebbe e come e quando a voi
Mover la guerra, a voi rimasti soli.
L’ira, che addoppia l’ardimento al prode
Che si sente percosso, ei non la trova
Che ne’ prosperi casi: impaziente
D’ogni dimora ove il guadagno è certo,
Ma ne’ perigli irresoluto: a’ suoi
Soldati ascoso, del pugnar non vuole
Fuor che le prede. Ei nella rocca intanto,
O nelle ville rintanato attende
A novellar di cacce e di banchetti,
A interrogar tremando un indovino.
Ora è il tempo di vincerlo: cogliete
Questo momento: ardir prudenza or fia.
                 

il doge.


Conte, su questo fedel vostro avviso
Tosto il Senato prenderà partito;
Ma il segua, o no, v’è grato; e vede in esso,
Non men che il senno, il vostro amor per noi.

(parte il conte).