Il Negromante/Atto quinto

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Atto quinto

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Atto quarto La Scolastica

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ATTO QUINTO.




SCENA I.

MASSIMO, CAMILLO, ABBONDIO, TEMOLO.


Massimo.S’io truovo che sia ver, ne farò (statene
Sicuri) tal dimostrazion, che accorgervi
Potrete che m’incresca, e ch’io non reputi
Meno esser fatta a me che a voi l’ingiuria.
Camillo.Se trovate altramente, pubblicatemi
Pel più tristo, pel più maligno ed invido
Uom che sia al mondo.
Abbondio.                                        Se non fusse, Massimo,
Più che vero, io conosco costui giovene
Di sorte, che non sapría immaginarselo,
Non che dirlo. La qual cosa delibero
Che non resti impunita; nè passarlami
Vô così leggermente.
Massimo.                                   Udite, Abbondio,

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Per vostra fede, e non correte a furia:
Informiamoci meglio.
Camillo.                                   Chi informarvene
Meglio vi può di me, che con le proprie
Orecchie ho udito, ed ho con gli occhi proprii
Veduto, che qui dentro il vostro Cintio
Ha un’altra moglie?
Massimo.                                 Piano; io vô informarmene
Un poco meglio.
Camillo.                           Entriam dentro; menatemi
Al paragone; e se trovate ch’io abbia
Più della verità giunto una minima
Parola, vi consento e do licenzia
Che mi caviate il cuor, la lingua e l’anima.
Massimo.Andiamo, andiamo.
Camillo.                                 Andiam tutti; chiariamoci
Affatto.
Massimo.            Deh, restate voi; lasciatemi
Andarvi solo, e non si faccia strepito
Nè, più di quel che sia, la cosa pubblica;
Non procacciam noi stessi la ignominia
Nostra.
Abbondio.            Voi dunque andate, e poi chiamateci,
Quando vi par.
Massimo.                        Così farò. Aspettatemi.
Temolo.Io gli vô pur ir dietro, e veder l’ultima
Calamità che ci ha tutti a distruggere.


SCENA II.

NIBBIO, ABBONDIO, CAMILLO.


Nibbio.(Credo che tolto per una pallottola
Da maglio questi ghiottoni oggi m’abbiano:
Chè l’un con una ciancia percotendomi,
Mi caccia un colpo infino a San Domenico...)
Abbondio.Fu gran pazzía la tua, lasciarti chiudere
In una cassa! e posto a gran pericolo
Ti sei per certo.
Nibbio.                           (Io torno, e trovo in ordine
L’altro con l’altra ciancia...)
Camillo.                                                  Resto attonito

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Di me medesmo, tuttavía pensandoci.
Nibbio.(Che sta alla posta, e mena e fa ch’io sdrucciolo
Fino in gabella. A quest’altra mi spingono
Fuor della porta.)
Camillo.                               Veramente, Abbondio,
Non voglio attribuirlo sì al mio essere
Sciocco, come al voler di Dio, che accorgere
M’ha fatto per tal mezzo delle insidie
Le quali ad ambidue noi si ponevano.
Ecco un di quei che nella cassa chiusermi;
E vostra figlia e voi e me tradivano.
Nibbio.(Non so a chi mi ritorni.1 Ma ecco il giovane
Che v’era dentro serrato. Io mi dubito,
Per dio, che avremo fatto qualche scandolo.)
Camillo.Ah ghiotton, ladro, traditore e perfido,
E tu e tuo padron! Così si trattano
Quei ch’alla fede vostra si commettono?
Nibbio.Nè io, ne mio padron mai, se non utile
Vi facemmo e piacer.
Camillo.                                   Piacer ed utile
Grande mi saría stato, succedendovi
Di avermi fatto, come un ladro, prendere
Di notte in casa altrui!
Abbondio.                                      L’oneste giovini
Non avete rossor, nè conscienzia,
Scelerati, di far parere adultere?
E alle famiglie dar de’ gentiluomini.
Con vostre fraudi, nota ed ignominia?
Nibbio.Parlate a lui, che vi saprà rispondere.
Camillo.Gli parlarò chiarissimo, e ben siatene
Certi, ma altrove; e vi farà rispondere
La fune e questa e vostre altre mal’opere.
Nibbio.Petete dir quel che vi par, ma ufizio
Non è già vostro, ne di gentiluomini,
Di dire o fare ai forastieri ingiuria.
Il mio padron ben sarà buon per rendervi
Conto di sè.
Camillo.                    Sì, sarà ben.
Abbondio.                                          Lasciatelo
Senza risponderli altro.

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Camillo.                                        Col dïavolo
Va, ladroncello; va alle forche, impíccati.
Abbondio.Lascialo andare, e non entrar più in collera.
Ormai dovría chiamarne dentro Massimo;
E forse è questo. Non è già. Oh, con che impeto
Esce costui! Par tutto pien di gaudio.


SCENA III.

TEMOLO, MASSIMO e detti.


Temolo.(Oh avventura grande, oh fortuna ottima!
Come tanta paura e tanta orribile
Tempesta in sì sicura ed in sì placida
Quïete hai rivoltato così subito!)
Abbondio.Perchè è costui sì allegro?
Temolo.                                           (Dove correre,
Dove volar debb’io, per trovar Cintio?)
Abbondio.Ch’esser può questo?
Camillo.                                   Io non so.
Temolo.                                                  (Ch’io gli annunzii
Il maggior gaudio, la maggior letizia,
Ch’avesse mai.)
Abbondio.                                Che fia?
Temolo.                                          (La sua Lavinia
Ritrovano esser figliuola di Massimo.)
Camillo.L’avete inteso?
Abbondio.                            Sì.
Camillo.                                Come può essere?
Temolo.(Ma che cess’io d’andare a trovar Cintio?)
Abbondio.Moglie non ebbe egli giammai, ch’io sappia.
Camillo.S’hanno figliuoli anco dell’altre femmine
Che non son mogli.
Abbondio.                                 Eccoci a lui, che intendere
Ci farà il tutto.
Camillo.                            Trovate voi, Massimo,
Ch’io sia bugiardo?
Massimo.                                 Non, per dio.
Abbondio.                                                         Chiariteci.
Che figlia è questa vostra, che ci ha Temolo
Detto, ch’avete trovato?
Massimo.                                          Diròvvelo,

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Se ascoltar mi vorrete.
Abbondio.                                      Ambe vi accomodo
L’orecchie volentieri a questo ufficio.
Massimo.Ricordar vi dovreste, a quei principii
Che i Veneziani Cremona teneano,
Che, per imputazione de’ malivoli,
Io n’ebbi bando, e taglia di tremilia
Ducati dietro.
Abbondio.                       Mi ricordo.
Massimo.                                        Andâmene,
Che mai non mi fermai, fino in Calabria;
Dove, per più mia sicurezza, in umile
Abito, e solo, e nominar facendomi
Anastagio, e fingendomi di patria
Alessandrin, mi celai sì, che intendere
Di me non si potè mai, finchè suddita
Fu questa terra lor. Quivi una giovane
Presi per moglie, e ingravidâla,2 e nacquemi
Questa fanciulla. Udito poi che si erano
Uniti li Francesi con l’Imperio
Per cacciar Veneziani di dominio,3
Io, per trovarmi a racquistar la patria,
Nè volendo perciò, quando venissero
Le cose avverse, avermi chiuso l’adito
Di tornare a nascondermi, a Placidia
(Chè Placidia mia moglie nominavasi)
Dissi ch’io ritornava in Alessandria,
Per certa ereditade mia repetere;
E che quando i disegni miei sortissero
L’effetto ch’io speravo, fidatissime
Persone manderei, che la menasseno
Ove io fussi: e in due parti un anel dívido4
Per contrassegno; a lei la metà lassone,
Ne porto la metà meco; e commettole
Che, se non vede il contrassegno, a muovere
Non s’abbia. Io torno in qua, dove non preseno
Forma le cose mie, che più di quindici
Mesi passaro. Poi che al fin la presero,
Non volsi mandar altri, ma io proprio,

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Per condurla in qua meco, vo in Calabria;
E ritrovo che avendo ella, oltra al termine
Preso, aspettato molto, nè vedendomi
Nè di me avendo nuova, come femmina,
Che, più che ragion, muove il desiderio,
Era ita per trovarmi in Alessandria.
Udendo io questo, in fretta ed a grandissime
Giornate mi condussi in Alessandria;
E quivi ritrovai che con la picciola
Figlia era stata, e che d’uno Anastagio
Avea molto cercato, nè notizia
Alcuna nè alcun’orma5 avendo avutane,
Nè conoscendo ivi persona, postasi
Era in fretta a tornar verso Calabria.
Io ritornai di nuovo; e messi e lettere
Mandai e rimandai, che non han numero;
Non facendo però la causa intendere
Di questo mio cercarne: nè per sedici
Anni ho potuto averne alcun vestigio,
Se non pur ora. Ora, io vi prego, Abbondio,
Pel vostro generoso e cortese animo,
Per la nostra antichissima amicizia,
Che perdoniate a Cintio mio l’ingiuria
Che v’ha fatto gravissima; ed escusilo
L’etade.
Abbondio.               In somma, trovate che Cintio
L’ha tolta per mogliere?
Camillo.                                      Chi ne dubita?
Massimo.Alla temerità non più del giovene
Si debbe attribuir, che all’infallibile
Divina Provvidenzia, che a principio
Così determinò che dovesse essere:
Chè, senza questo mezzo, per conoscere
Non ero mai mia figliuola, che picciola
Di cinque anni perduta avéa; e già sedici
Ne sono che novella di lei intendere
Non ho potuto. Or, dove di più offendermi
Temette Cintio, senza mia licenzia
Togliendo moglie, si truova grandissimo
Piacere avermi fatto; chè nè eleggermi

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Avrei potuto mai più grato genero
Di lui, nè a lui potuto avrei dar femmina
Che mi fosse più cara di questa unica
Mia figlia. Or, solo il caso vostro, Abbondio,
Contamina6 e disturba che il mio gaudio
Non è perfetto. Ma, se senza ingiuria
Vostra io potessi fruirlo, rendetevi
Certo che saría in me quella letizia7
Ch’essere in alcun uomo sia possibile.
E se impetrar potrò da voi, che il gaudio
Mio tolleriate e non vogliate opporveli,
E vi togliate Emilia così vergine
Come a noi venne, la qual vi fia facile
Rimaritar a giovane sì orrevole
Come sia il nostro, e ricco; io mi vi proffero,
Con ciò ch’al mondo ho, sempre paratissimo.
Abbondio.Se fin da puerizia sempre, Massimo,
Io v’ho portato amore e riverenzia,
Non voglio ch’altri mi sia testimonio
Che voi. S’io v’amo al presente, e il medesimo
Son verso voi ch’io soglio, Dio lo giudichi,
A cui sol non si può nasconder l’animo.
Ma che non mi rincresca che disciogliere
Io vegga questo matrimonio, e Emilia
Tornarmi così a casa, non può essere:
Chè, ancorchè per ciò in lei non ha ignominia
Giustamente a cader, pur fia materia
Data al volgo di far d’essa una fabula;
Il che a rimaritarla sarà ostacolo
Maggior che non vi par.
Massimo.                                        Eccovi il genero
Apparecchiato qui. Camillo, nobile
E ricco e costumato e dabben giovane,
Che l’ama più che sè stesso, e desidera
D’averla. Or dove me’ potete metterla?
Camillo.Cotesta bocca sia da Dio in perpetuo
Benedetta!
Abbondio.                    Dica egli, ed io rispondere
Saprò al suo detto.

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Camillo.                                 Io l’averò di grazia:
Così con tutto il cor vi prego e supplico
Che me la concediate di buon animo.
Abbondio.Ed io te la prometto.
Camillo.                                   Io per legittima
Sposa l’accetto.
Massimo.                            Dio conduca e prosperi,
Senza averci mai lite, il matrimonio.
Abbondio.Siam d’accordo?
Massimo.                              D’accordo.
Camillo.                                                D’accordissimo.
Abbondio.Deh! se ’l vi piace, fateci un po’ intendere
Dove è stata costei nascosta sedici
Anni o diciotto, e come oggi venutone
Siete, più ch’altro dì, così a notizia?
Massimo.Ero entrato qua dentro per intendere
Più chiaramente questo che narrato ci
Avea Camillo; e contra questa povera
Famiglia ero in tant’ira e tanta collera,
Ch’io li voléa tutti per morti; e vôltomi
A mia figliuola, io le dica le ingiurie
Che si pôn dire a una cattiva femmina,
E con mal viso minacciavo metterla
Al disonor del mondo e al vituperio.
E questa moglie del vicin gittòmmisi
Piangendo a’ piedi, e mi disse: — Abbi, Massimo,
Pietade di costei, che non d’ignobile
Gente, come ti dài forse ad intendere,
Ma di patre e di matre gentiluomini
È nata. — Io ricercando la sua origine,
Intendo che suo patre fu Anastagio
Nomato, il qual venuto d’Alessandria
Avéa abitato alcun tempo in Calabria,
E quivi tolto moglier.
Abbondio.                                     Sête, Massimo,
Prudente; pur vi vô ricordar ch’essere
Inganno potría qui, ch’ella da Cintio
Avendo intesa questa istoria, fingersi
Volesse vostra figliuola.
Massimo.                                        Onde Cintio
Lo può saper? che pur mai non ho minima
Parola, se non or, lasciato uscirmene

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Di bocca; e a voi, che mi sête sì intrinseco,
Non lo dissi pur mai; chè troppo biasimo
Riputava aver moglie e non intendere
Dov’ella fosse. Altri parecchi indicii
N’ho senza questo. Una corona d’ebano
Riconosciuta l’ho al collo, e mostratemi
Ella ha poi collanucce, anella e simili
Cose che fûr di sua madre, e donatele
Avéa. Oh che! volete altra pruova? Eccovi
La metà dell’anello che partendomi
A Placidia lasciai. Questo è bastevole
Quando non ci fusse altro: ma la effigie
C’ha della matre, ancor più mi certifica.
Abbondio.Ch’è della madre? ve ne sa ella rendere
Conto?
Massimo.              Sì ben; ma più quegli altri dicono:
Che, tornando la madre ver’ Calabria,
S’era infermata a Fiorenza, ove Fazio
L’avéa alloggiata; e v’era giunta al termine
De’ suoi affanni, e lasciò lor la picciola
Fanciulla; ed essi poi se l’allevarono
Come figliuola, chè altra non avevano;
E le levaro il nome, ch’era Ippolita,
E la chiamaron Lavinia, in memoria
D’una lor, credo m’abbiano detto, avola.
Abbondio.Son de’ vostri contenti contentissimo.
Camillo.Ed io similemente.
Massimo.                              Vi ringrazio.
Camillo.Noi che faremo?
Abbondio.                            A tuo piacere Emilia
Potrai sposare.
Camillo.                         E perchè non concludere
Ora quel che s’ha a far?
Massimo.                                          Ben dice, sposila
Ora.
Abbondio.        Sposila: andiamo.
Camillo.                                      Andiam, di grazia.


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SCENA IV.

TEMOLO, poi l’ASTROLOGO.


Temolo.Era ito per trovar Cintio, con animo
d’aver il beveraggio dell’annunzio
Ottimo c’ho da dirli:8 ma fallitomi
È il pensiero, anzi m’accade il contrario;
Ch’alcuni miei compagni ritrovato mi
Hanno, e veduto al viso e ai gesti il gaudio
Mio, ch’io non posso occultar, domandato me
N’hanno la causa: io l’ho lor detto, ed eglino
Han voluto che per questo mio gaudio
Lor paghi il vino; e perchè non ho un picciolo,
M’han levato il tabarro, e impegnarannolo
Più ch’io non ho un mese di salario.
Ma se ritrovar posso Cintio, ed essere
Il primo a darli così lieto annunzio,
Avrò da stimar poco questa perdita.
Ecco il baro; io non vô più dir lo astrologo.
Non dê saper il ghiotton che scopertisi
Sien li suoi inganni, chè con questa audacia
Non tornerebbe qui. Sarebbe opera
Ben lodevole e santa a fargli mettere
La mano addosso.
Astrologo.                                Io non so quel che Nibbio
Fatto abbia della cassa, di che carico
Avéa il facchin lasciato. Era mio debito
Di non lo abbandonar prima che mettere
Non la facesse e chiuder nella camera.
Ma mi fu in quello istante un certo giovane
A ritrovar per aver un pronostico
Da me della sua vita: proferíami
Tre scudi: io, che credéa di farlo crescere
Fin ai quattro, son stato a bada; e all’ultimo
Non ho potuto da lui trarre un picciolo,
Ed ito al rischio son di grave scandolo
Di guastar ogni cosa. Pur vô credere,
Poichè non ne sento altro, ch’abbia Nibbio
Ritrovato la cassa, e consegnatola

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A chi io gli dissi.
Temolo.                              (Io vô porre ogni industria
Per fargli qualche beffa memorabile.)
Astrologo.Ma veggo chi mel saprà dire.— O giovene,
Il mio garzon, che tu dêi ben conoscere,
Ha portato una cassa qui?
Temolo.                                             Portato l’ha
Pur un facchino, ed è stato a pericolo,
Se non era io, di far non poco scandolo.
Astrologo.Mi disse ben ch’un delli vostri data gli
Avea la baja.
Temolo.                      Un delli nostri? Dettovi
Non ha la verità: fu un certo giovene
Mezzo buffon, che non par ch’altro studii
Che di dar baja a questo e quel ch’abbi aria
Di poco accorto. Ma, qui ritrovandomi
A caso, feci che il facchin, che volgersi
Voléa indietro, entrò in casa, e nella camera
Si scaricò dove gli sposi dormono:
Il padron venne poi subito, e chiusela
E seco ne portò la chiave a cintola.
Astrologo.Come facesti bene! Te n’ha Massimo
E tutti i suoi di casa da aver obbligo;
Chè stando nella strada, ne sarebbono
Li spirti usciti, e entrati in casa a furia
Questa notte, e trattati mal vi avrebbono.
Temolo.O maestro, pur che questi vostri spiriti
Si stian nella lor cassa, e che non corrano
Per casa, e qualche danno non ci facciano!
Astrologo.Non dubitare, chè non ci è pericolo.
Temolo.Voi direte la vostra, voi: mi triemano
Di paura le viscere.
Astrologo.                                 Fidatevi
Pur di me, ch’io non vi lascerò nuocere.
Temolo.Cel promettete voi?
Astrologo.                                 Sì, non aprendola.
Temolo.Oh ben pazzo saría chi avesse audacia
d’aprirla, o pur sol di toccarla: guardimi
Dio che mi venga simil desiderio!
Lasciamo ir questo. Io vô, mastro,9 una grazia

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Da voi; che al vecchio diciate che avete li
Due bacini d’argento avuto. Dissemi
Oggi ch’andassi a tôrli, ed arrecarveli
Dovessi, ma coperti, chè non fossino
Veduti; ed è accaduto che pregato mi
Ha qui un nostro vicino, ch’io lo accomodi
Del mio tabarro per mezz’ora; e passano
Già quattro e non ritorna; e, non avendoli
Io da coprir, non son ito: ma subito
Ch’io rïabbia il tabarro, vo ed arrecoli.
In tanto voi dite al patron, che avuto li
Avete.
Astrologo.            Non saría meglio che dirgli la
Bugía, che vada e gli arrechi?
Temolo.                                                  Devendoli
Portar scoperti, non voglio ir; chè Massimo
Si adirerebbe meco risapendolo.
E se non che potreste attribuirmelo
Forse a presunzïone, domandatovi
Avrei cotesta vesta, e sarebbe ottima:
Ma sì sciocco non son, ch’io non consideri
Che non saría domanda convenevole.
Astrologo.Se pur ti par che la sia buona, pigliala:
Ma perchè non debbe esser buona? Pigliala
Ogni modo, e va ratto.
Temolo.                                        Sarebbe ottima:
Ma mi parría gran villania spogliarvene.
Astrologo.Peggio saría s’io lasciassi trascorrere
Una conjunzïon, che per me idonea
Ora si fa, di Mercurio e di Venere.
Piglia pur tu la vesta, e torna subito,
Chè qui t’aspettarò in casa Massimo.
Temolo.Mi par strano lasciarvi in questo piccolo
Gonnellin: nondimeno, comandandolo
Voi, pigliaròlla.
Astrologo.                            Pígliala.
Temolo.                                        Or lo astrologo
Son io, e non voi.
Astrologo.                              Tu mi pari in quest’abito
Un uom dabbene.
Temolo.                              E voi parete... vogliolo
Poi dir com’io ritorno a voi.

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Astrologo.                                                  Va, e studia
Il passo, e torna tosto.
Temolo.                                          (Quasi detto gli
Ho che pare un ghiottone e un ladro. Aspettimi
Tanto ch’io possa al podestade correre,
E quel che pare ed è gli farò intendere.
Questa vesta gli ho tolta, non per renderla,10
Ma perchè sconti in parte quel che fattoci
Ha il ladroncello inutilmente spendere.)


SCENA V.

ASTROLOGO, poi NIBBIO.


Astrologo.Era ben certo che esser miei dovessino
Gli argenti di Camillo; perchè, avendolo
Mandato chiuso nella cassa, e fattolo
Serrar in questa camera, ho assai spazio
Di vôtarli la casa, e di fuggirmene
Sicuro. Ma dei bacini che Massimo
Mi debbe dar, avevo qualche dubbio;
Non che mutasse volontà di darmeli,
Ma che non me li desse oggi; e volendoli
Poi dar domani, io non ci potessi essere,
Chè questa notte levarmi delibero.
Io non so quando occasïon sì comoda
Ritornasse mai più. Qualvolta prospera
Comincia a esser fortuna, un pezzo seguita
Di bene in meglio; e chi non la sa prendere,11
Non di lei ma di sè poi si rammarichi.
La prenderò ben io. Ma ecco, Nibbio.
Nibbio.Voi sête così in gonnellino! avetevi
Forse giocata la vesta?
Astrologo.                                        Prestatala
Ho pur a un de’ famigli qui di Massimo,
Che è ito a tôr que’ dua bacini, e aspettolo
Che me gli arrechi.
Nibbio.                                Bacini? Eh levatevi,
Padron, di qui! Quel ribaldo attaccatavi

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L’ha veramente. Non sapete, misero,
Dunque che siam scoperti, e che quel giovine
È della cassa uscito?
Astrologo.                                    Uscito? diavolo!
Egli ne è uscito?
Nibbio.                            N’è uscito, e da Cintio
Tutto lo inganno ha sentito per ordine,
Che voi gli volevate usar. Levatevi,
Levatevi, per dio! Non è da perdere
Tempo.
Astrologo.            Io vorrei pur la mia vesta.
Nibbio.                                                          Toltala,
Padron, non credo abbia colui per renderla:
A chi l’avete voi data?
Astrologo.                                      A quel giovane
Che con Cintio suol ir: come si nomina?
Nibbio.L’avrete data a Temolo?
Astrologo.                                          Sì, a Temolo;
Appunto a lui l’ho data.
Nibbio.                                          Oh! gli è il medesimo
Ch’oggi mi diè la caccia, e mi fè correre.
Al libro dell’uscita avete a metterla.
Astrologo.Duolmene, e tanto più, quanto mio solito
Era di guadagnare e non di perdere.
Nibbio.Guardatevi, patron, da maggior perdita
Che d’una vesta. Andiam tosto; levatevi
Di qui; fate a mio senno; riduciamoci
Verso il Po: qualche barca troveremovi
Che ci porterà in giù. Mi par che giunghino
Tuttavia i bìrri ed in prigion ci caccino.
Astrologo.Non vogliamo ir prima all’albergo e prendere
Le cose nostre?
Nibbio.                            Andate voi pur subito
Al porto, e ritrovate o grande o piccola
Barchetta, che ci lievi; ed aspettatemi,
Ch’io vo correndo all’albergo, ed arrecovi
Tutte le cose nostre.
Astrologo.                                  Or, va.
Nibbio.                                                Volgetevi
Pur giù per questa strada.
Astrologo.                                            Io vo; ma ascoltami
Non lasciar cosa nostra nella camera

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Dell’oste; anzi, se puoi far netto,12 pigliane
Delle sue.
Nibbio.                  L’avvertimento è superfluo.


SCENA VI.

NIBBIO solo.


S’io vo dietro a costui, sto in gran pericolo
Che un giorno io mi creda essere in Italia,
E ch’io mi truovi in Piccardia:13 ma l’ultimo
Sia questo pur ch’io il vegga, non ch’io il seguiti.
Andar vô all’oste per le robe, ed irmene
Verso Tortona, indi passar a Genova:
E s’egli, come ha detto ed avéa in animo,
Anderà in giù verso Vinegia o Padova,
Non so se ci potrem tosto raggiugnere
Insieme. — Or non curate se lo astrologo
Restar vedete al fin della commedia
Poco contento; perchè l’arte ch’imita
La natura, non pate ch’abbian l’opere
D’un scelerato mai se non mal esito.
Non aspettate che ritorni Cintio,
Chè già buon pezzo con la sua Lavinia
Entrò per l’uscio del giardino; e Temolo
Lo cerca indarno per la terra. Or fateci
Con lieto plauso, o spettatori, intendere
Che non vi sia spiaciuta questa favola.




Note

  1. A chi mi rivolga, per aver notizia della cassa.
  2. Ediz. Giol.: ingravidalla.
  3. Allusione alla famosa lega di Cambrai.
  4. Secondo la prosodía dei latini; come altrove (pag. 383 e 422) ímita.
  5. Per Indizio. Esempio notabile.
  6. Caso certamente diverso dall’osservato nella nota 2, pag. 336; ma dove può egualmente spiegarsi col verbo Guastare.
  7. Ediz. Giol.: leticia.
  8. Nota il signor Tortoli, che una sola edizione veduta da lui ha: darli.
  9. Vedi la nota a pag. 389.
  10. Le antiche stampe: per rendere.
  11. Le medesime: spendere; se non che ivi pur seguita bentosto: La prenderò.
  12. Qui sembra da spiegarsi: se puoi farlo a man salva, senza pericolo.
  13. Sulle forche. Fu già notato, fa più di vent’anni, in qualche periodico italiano, che una illustre donna e avente il ius sanguinis (Veronica Gambara), avendo presi non so che saccardi o turbatori della pubblica quiete, scriveva, senza mostrar cica di quella che le nostre mamme chiamavano sensibilità: «Penso di questi prigioni farne una bella stangata, e mandarli in Piccardía.»