Il Principe della Marsiliana/VIII
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VIII.
La mattina dopo tutti i giornali avevano un lungo resoconto del ricevimento alla Stampa, che doveva inaugurare i sabati invernali, e tutti parlavano della promessa del principe della Marsiliana rispetto al teatro, e della bellezza e della grazia con cui la signora Maria Caruso aveva fatto gli onori di casa.
Il dovere d’ospitalità aveva fatto tacere tutti i risentimenti partigiani, aveva ucciso tutte le polemiche. La Stampa, con l’inaugurare il grandioso edifico in cui si era insediata, era divenuta ipso facto il primo giornale di Roma.
— Eccellenza, — diceva il Rosati umilmente entrando il giorno di poi nel salotto di donna Camilla, — il suo protetto è accettato all’Orfanotrofio di Termini. Mi farà un favore se vorrà ricordarsi di me ogni volta che le occorre qualcosa e associarmi alle sue opere di carità.
— Grazie, mille grazie, — rispondeva la principessa stringendogli l’indice e il medio della mano, come faceva con tutti, quasi le ripugnasse ogni contatto, — ma si accomodi, la prego, e mi racconti come andò ieri sera.
— Benissimo. Fu un trionfo continuato per il principe e una approvazione generale per la sua splendida promessa.
— Che promessa? — domandò donna Camilla.
— Non lo sa? avremo un teatro mercè sua e si chiamerà “La Fenice„.
— Perchè quel nome? — domandò sollecitamente la principessa.
Fabio, accorgendosi di aver commessa una imprudenza, dovette narrare com’era sorta l’idea del teatro e il perchè del nome. La principessa si morse le labbra, ma non tradì il dispetto che provava altro che dando alla voce una intonazione più aspra e più nasale del consueto, e, dopo aver domandato al signor Rosati quali erano gli artisti che avevano cantato, quali signore v’erano, stette qualche momento pensosa, con gli occhi volti a terra e poi gli disse:
— Io presiedo l’Opera per le Povere Madri Lattanti, e di quella associazione fanno parte quasi tutte le signore romane e molti signori, ma mentre essi mi danno molto appoggio per riunire offerte, mi abbandonano tutto il lavoro più duro, che è quello di visitare a casa le povere donne, per assicurarsi se sono veramente miserabili, e di domandare informazioni sul conto loro nel vicinato. Io non posso accudire a tutto; vuole aiutarmi in questa opera di carità? Bisogna lavorare anche per l’anima.
Fabio accettò con riconoscenza e la principessa lo pregò di tornar da lei il martedì venturo.
Mentre Fabio, tutto lieto di entrare in una associazione aristocratica e di poter andare in casa Urbani come non ci andavano i suoi colleghi della Stampa e neppure Ubaldo, che diventavagli antipatico ogni giorno più, scendeva le scale del palazzo patrizio, la principessa, a denti stretti, esclamava:
— Voglio anch’io gettar fango su questa odiosa famiglia che mi disprezza, voglio anch’io imitare mio marito, voglio anch’io che tutta Roma parli di me e ne parli male, purchè del male io non ne faccia, purchè davanti alla mia coscienza io non abbia da rimproverarmi altro peccato che la vendetta!
Donna Camilla appoggiò la fronte ai cristalli e guardò Fabio, che traversava la strada; poi, come se la sua esaltazione cessasse a un tratto per dar luogo a un grande sfogo di dolore, disse, nascondendo il viso fra le mani:
— Ma che cosa ho mai fatto per non ispirare affetto in nessuno? Non ho conosciuto mia madre; sono stata trattata con freddezza da mio padre e dai miei fratelli; Pio mi ha sposata senza amarmi, non si cura di dimostrarmi la sua antipatia; non ho figli, non ho nessuno e dovrò vivere sempre così sola, così abbandonata, così dimenticata da tutti?
— A questa domanda il suo cuore rispose con un singhiozzo tremendo, che le squarciava il petto, come certi fulmini che squarciano il cielo e non sono accompagnati dalla pioggia. Gli occhi di donna Camilla rimasero asciutti, poichè ella non sapeva piangere, ma il suo dolore era più straziante che se avesse avuto per lenimento le lagrime.
A pranzo ella era fredda e compassata come al solito e salutò il marito, che non aveva veduto prima in quel giorno, come se non fosse mai corsa fra loro una parola aspra.
La duchessa aveva portato in sala, dal suo quartiere, tutti i giornali che parlavano del ricevimento, e disse al figlio con grande espansione:
— Mi pare, Pio, che ormai il tuo giornale abbia il primo posto qui a Roma e che tu faccia di tutto per conservarglielo: il progetto di creare un teatro è una idea stupenda e credo che quest’impresa ti frutterà anche dei denari.
— So che è stata accolta con molto entusiasmo, — disse donna Camilla.
— Chi te lo ha detto? — domandò don Pio.
— Il signor Rosati stamane.
— Non sapevo che tu degnassi parlare con uno dei miei intrusi.
— Il Rosati è romano, di buona famiglia; è un bravo giovine, mentre gli altri....
Don Pio non rispose per non fare un battibecco in presenza della servitù, e per non sentir vilipesa Maria; ma da quel momento nutrì sospetti contro Fabio e promise a sè stesso di sorvegliarlo supponendolo ligio alla moglie e capace di riferirle quello che non voleva ella sapesse.
Con la riapertura della Camera La Stampa era entrata in un periodo di ostilità continue. L’onorevole Carrani, don Pio della Marsiliana e il gruppo di deputati che tutto speravano dal ritorno dell’ex-ministro dell’Agricoltura e Commercio al potere, tempestarono il Governo d’interpellanze. Ogni piccolo avvenimento dava loro occasione d’impegnare una zuffa; la guerra la serbavano alla discussione dei bilanci. Oggi servivano loro di pretesto a una interpellanza i mali trattamenti usati dalle autorità austriache a una barca da pesca chioggiotta, domani le prevaricazioni di un ricevitore del registro, e poi la morte di un soldato in seguito a una marcia, un disastro ferroviario, un maestro comunale rimosso.
E quella scaramuccia, che i deputati amici della Stampa incominciavano alla Camera dei deputati, era continuata nelle colonne del giornale con una violenza di cui non si serbava memoria nel giornalismo italiano. La tattica della Stampa era quella di sollevare le quistioni dal basso, agitare, agitare finchè esse non giungevano a molestare i ministri, e sopratutto il presidente del Consiglio, punto di mira di tutte le polemiche, bersaglio di tutti gli attacchi. I giornali che sostenevano il Governo avevano un bel ribattere le accuse; La Stampa aveva più diffusione da sola che essi tutti riuniti, ed era per questo più ascoltata, come quella che meglio poteva farsi udire da maggior numero di persone. C’erano poi tutti i politicanti, che hanno bisogno dell’imbeccata del giornale per formarsi una idea delle questioni, e quei politicanti lo leggevano, come lo leggevano gli avversari per combatterlo o biasimarlo.
Don Pio della Marsiliana non era certo considerato alla Camera come uomo di valore, perchè anche là come in tutti i consessi la forte mente e i forti caratteri s’impongono, e anche se un deputato non è oratore, anche se non prende mai la parola, i compagni sanno apprezzarlo, a qualunque partito esso appartenga, per i lavori degli uffici, per le discussioni in seno delle commissioni, per i mille mezzi che anche dentro al Parlamento sono offerti all’attività intellettiva di un uomo per estrinsecarsi. Ma anche non essendo considerato un valore, egli godeva di una situazione speciale formulatagli dal gruppo, che rappresentava il giornale, e dal giornale stesso.
Da principio quel gruppo non aveva altro nucleo che l’onorevole Carrani, ma in breve, quando gli altri quattro capi dei diversi gruppi del partito progressista incominciarono a vedere che quel gruppo diveniva preponderante, si riunirono ad esso, calcolando che potevano, mercè la generosità di don Pio della Marsiliana, risparmiare tutti i danari che sarebbe costata loro la guerra al governo, dal momento che c’era un principe che faceva tutte le spese all’organo battagliero. Fu un calcolo economico che ebbe un risultato politico. Si sapeva che quei cinque uomini non simpatizzavano tra loro, si sapeva che tutti miravano a farsi accettare nel gabinetto che combattevano, ma questi screzi, che non erano un mistero per gli uomini politici e per i giornalisti, non eran noti al pubblico, il quale vedeva un forte partito capitanato da cinque duci, armati da capo a piedi per combattere il governo, e sperava da quegli uomini, che mostravano spiriti così battaglieri, una guerra in tutte le regole. Il pubblico non si accorgeva che tutti e cinque erano pronti a passare separatamente nel campo nemico, purchè il premio della divisione fosse un portafoglio importante.
Quella parte di Giove pagante che il principe della Marsiliana sosteneva di fronte agli uomini dell’avvenire, unita alla naturale albagia, lo aveva reso così orgoglioso di sè e del suo potere da far credere che egli avesse adottato per la sua persona il dogma dell’infallibilità. Non ascoltava più consigli da nessuno rispetto ai suoi affari, neppure dalla madre, che con tanta accortezza aveva amministrato per diversi anni il suo patrimonio. Egli non faceva altro che comprare terreni ovunque ne trovasse. I primi avevali pagati un prezzo mite, ma in seguito quando non fu più il solo a comprare, e la compra divenne una vasta speculazione, allora dovette pagarli prezzi altissimi, e per far fronte a quelle spese esorbitanti, chiedeva milioni alle Banche, dando ipoteca sul suo vasto patrimonio. E in quei terreni fabbricava senza tregua, e per fabbricare occorrevano altri capitali, che novamente chiedeva al credito, dando una seconda e una terza ipoteca sui suoi possessi. Intanto più ingegneri lavoravano al progetto della stazione in Trastevere, fra i quali il fratello di Fabio Rosati; intanto a Roma non si parlava d’altro che delle vaste speculazioni di don Pio. Il popolo, i borghesi lo consideravano come un portentoso esempio di attività, come l’ideale dei principi secondo le idee moderne; nel patriziato lo consideravano invece come un reprobo, un pazzo, e erano convinti che un giorno o l’altro si sarebbe pentito di aver derogato alle tradizioni della sua casta.
Ma La Stampa andava a vele gonfie, aumentava diffusione e tiratura tutti i giorni; ma anche costava sempre più denari a don Pio, il quale cullato dalle promesse di Ubaldo, dai discorsi dell’onorevole Carrani e più di tutto dal grande fatto di aver riunito all’ombra del labaro del giornale tutte le forze del partito progressista, sognava già di essere un giorno ambasciatore a Berlino o a Parigi, o anche ministro degli esteri, e per questo pagava senza contare. Il giornale, amministrato bene, sarebbe stato una fonte di guadagno, ma amministrato con i criterî e con le tradizioni delle case principesche romane, era invece un pozzo senza fondo che inghiottiva nella sua immensa bocca capitali su capitali. Un amministratore generale, tre sotto-amministratori della tipografia, della pubblicità e del giornale, prendevano laute paghe e avevano ai loro ordini uno stuolo d’impiegati. La redazione pure costava un occhio. Ubaldo non aveva meno di dodici redattori e una ventina di corrispondenti stipendiati; poi c’era la parte letteraria che si pagava salata, poi gli avvenimenti straordinari che chiamavano da un capo all’altro d’Italia e talvolta d’Europa il Rosati, il quale sapeva farsi rimunerare, c’erano i regali agli abbonati che costavano più del prezzo complessivo annuo del giornale e così gli associati lo avevano per niente; c’erano i romanzi d’appendice, c’era tutta una rete di calcoli sbagliati a bella posta e che empivano le tasche di tutti, mentre vuotavano quelle del proprietario, che non sapeva neppur trarre dal giornale quel partito che avrebbe potuto.
In tutte le grandi operazioni finanziarie che si compirono nel primo anno che ebbe vita La Stampa don Pio non ebbe alcuna parte; era troppo gran signore per andare nelle anticamere dei ministri e nei gabinetti dei capi di grandi stabilimenti di credito a far valere l’appoggio del suo giornale o mercanteggiare almeno il silenzio di esso. Ubaldo invece, del quale era stato dimenticato il passato con quella facilità con che a Roma si dimentica tutto, aveva saputo guadagnare in molti affari e ora non era più l’uomo che non possiede nulla, che non sa come vivrà domani. Egli aveva titoli di rendita e calcolando abilmente si permetteva il lusso di speculare alla Borsa, valendosi delle notizie che aveva prima di molti altri, e siccome ritirava i titoli invece di pagare le differenze, oppure col credito che aveva acquistato li depositava alle Banche, così non perdeva mai, e sempre aumentava il suo capitale. Inoltre speculava anch’egli in terreni, ma comprando per rivendere subito, perchè l’istinto commerciale dicevagli che qui, come prima a Vienna e poi a Berlino, il giorno del krach doveva venire, e che era impossibile che su tutti i terreni che si levavano all’agricoltura per farne terreni fabbricativi, sorgessero case, e quelle case dessero un guadagno.
L’attitudine alla speculazione che può non rivelarsi in gioventù nei figli e nipoti di mercanti, si manifesta sempre in essi con l’andar degli anni, speculazione meschina se le condizioni dell’esistenza assegnano loro un campo ristretto, speculazione vasta se il campo che possono esplorare ha grandiose proporzioni.
Ora che Ubaldo aveva sentito tutti gli strazi della miseria, tutte le punture continue e dolorose dei sacrifizi, si era fatto accorto, non sprecava più, non sacrificava nulla alle apparenze. Maria viveva comodamente, ma viveva come il giorno che da Milano era venuta a Roma, quasi le sole risorse della famiglia consistessero nella paga di Ubaldo. Per questo nessuno, nè quelli che erano addentro alle cose della Stampa, nè i curiosi che facevano parte degli altri giornali e di tutto quel mondo della politica, dell’arte, della Borsa che forma attorno ai giornali una vasta rete, poteva dire che il principe della Marsiliana era l’amante di Maria e le faceva doni costosi. Quello che ella spendeva per la sua toilette era compatibile con i guadagni palesi del marito; gli occulti erano ignorati dal pubblico e dagli amici di Ubaldo.
Maria non aveva neppure un coupé per fare le visite o per andare a Villa Borghese e soleva accettare l’offerta che le faceva ogni tanto la signora Adriana Mariani di condurla seco. Questo modesto contegno di Maria, che il mondo sapeva adorata dal principe, le aveva accaparrato le simpatie e la stima generale, perchè il mondo, che è composto d’individui che ogni giorno per conto proprio si burlano della morale, la vuole rispettata e grida e sbraita quando qualcuno la offende.
La principessa della Marsiliana, rôsa dalla gelosia, dimenticata dal marito, non credeva alla onestà della sua rivale. Quel teatro, che ella vedeva ogni giorno inalzarsi maggiormente, le diceva che Maria non avrebbe accettato dal principe un paio di orecchini di brillanti, nè un paio di cavalli, ma che aveva tanto potere su di lui da ottenere, con una parola sola, che egli facesse spese che neppure un re si permette. Questa convinzione di avere nella bella Veneziana non una rivale avida, una rivale che non si contenta con l’oro, la rendeva pazza dalla disperazione. Finchè ella non aveva veduto don Pio correr dietro altro che a donne che s’incontrano oggi per abbandonarle domani, senza rincrescimento, e che non considerano l’uomo altro che come mezzo per appagare le loro brame di lusso, non era stata gelosa e aveva dato prova di quella tolleranza che sanno avere tutte le signore di nascita illustre per i peccatucci degli uomini.
Ma appena aveva capito che don Pio era innamorato seriamente di Maria, e che quello non era un amore che svanisse tanto presto, si era attaccata al marito con quella insistenza propria di chi vede sfuggirsi un bene al quale ha diritto, e aveva provato tutti gli strazi, tutte le angustie della gelosia. L’orgoglio di razza rendeva anche più acuti quei tormenti; ella vedevasi preferita una plebea, e, conscia della propria inferiorità dinanzi alla rivale, inferiorità che non era soltanto fisica, ma anche intellettuale, non vedeva nessuno scampo e non sperava altro sfogo che nella vendetta.
Quando la mattina ella usciva per andare ai conventi o alle associazioni di beneficenza, dove la chiamava l’abitudine, e vedeva gli operai lavorare al teatro: quando verso sera tornava dalla passeggiata o dalle visite e vedeva che neppure la notte il lavoro cessava in quell’edifizio inalzato da suo marito per appagare il desiderio di Maria, provava una rabbia sorda, e stringeva nelle piccole mani nervose i nastri del cappellino, si metteva fra i denti il fazzoletto di batista, strappava le rose che ornavano il davanti del coupé e fremeva come una fiera rinchiusa in una gabbia. Col viso sconvolto, con le ciglia aggrottate ella si presentava a colazione e a pranzo, e, se don Pio si faceva aspettare, se invece di pranzare in famiglia passava già vestito dalla sala da pranzo per dire che era invitato, ella non mangiava nulla, trangugiava grandi bicchieri di acqua fredda e non rispondeva neppure con monosillabi ai discorsi della suocera, la quale non sapeva rassegnarsi al silenzio, e la lasciava appena terminato il pranzo per salire nel suo quartiere, dove sempre era visitata dalle amiche e dai conoscenti di gioventù, e dove trovava modo di dare sfogo alla sua loquacità, raddoppiata ora che il figlio faceva cose così insolite per un patrizio, e che davano agli amici della duchessa argomento a frequenti domande e ad osservazioni.
E mentre don Pio passava le serate alla Camera, dava una capatina nei teatri o nei ritrovi eleganti, e fluiva per andare alla Stampa, dove si vegliava molto tardi e dove era sicuro d’incontrare Maria, la signora Carrani e Adriana Mariani, e ogni sera più s’invaghiva della bella donna, la principessa della Marsiliana stava sola nel suo salotto a rodersi dalla gelosia. Ogni tanto, desolata, si gettava bocconi davanti a un grande Cristo d’argento, dono di suo padre, e gli parlava con voce interrotta dai singhiozzi dolorosi, gli domandava perchè le aveva dato un gran nome, le aveva dato le ricchezze e le aveva negato tutte le attrattive della donna, non l’aveva fatta nè bella di volto, nè bella di corpo, non le aveva dato i vizii, che pure hanno il loro fascino, nulla, nulla; e, senza accorgersene, ella passava dalla preghiera al rimprovero. E quando donna Camilla rientrava per un momento in sè stessa, era pentita di quello che aveva detto, e umilmente con la faccia appoggiata ai piedi inchiodati del Cristo, la schiena curva, supplicava la santa immagine di perdonarla, di aver pietà del suo dolore.
Poi, dopo quegli sfoghi ai rialzava da terra, ricomponeva il volto, ricomponeva le vesti e sedeva dinanzi al tavolino coperto di lavori incominciati e destinati ai poveri, con le piccole mani scarne si dava a lavorare frettolosamente, mentre il cervello anch’esso lavorava, lavorava a cercare un mezzo per vendicarsi doppiamente del marito, coprendolo di vergogna; e staccandolo per sempre da Maria.
Dopo ognuna di quelle serate angosciose, donna Camilla trovava un pretesto per scrivere a Fabio, per invitarlo a andare da lei la mattina seguente. Ora il pretesto glielo forniva l’invito a una adunanza da spedire alle patronesse dell’opera pia delle Madri Lattanti, ora un’informazione da assumere, ora un sussidio da elargire. E quando Fabio la mattina dopo era da lei, ella lo interrogava su quello che facevano alla Stampa, sui lavori del teatro e per ultimo su Maria. Fabio Rosati era troppo accorto per far vedere alla principessa che capiva la sua gelosia e i suoi strazii, e fingeva sempre di credere che quella premura di lei per sapere notizie della signora Caruso fosse frutto della curiosità pura e semplice, e le parlava dei trionfi che riportava in ogni festa al Circolo dei Cittadini e al Circolo degli Artisti la bella Veneziana, e come d’intorno a lei si formasse una cerchia di ammiratori, che ogni sera popolavano le sale della Stampa per il solo piacere di vederla e di sentirla parlare.
Come tutte le donne gelose, la principessa desiderava di veder Fabio per udir parlare di Maria, e dopo che lo aveva veduto era più che mai straniata dai tormenti che impone quella malattia del cuore, più che mai era desiderosa di sapere.
Intanto in anticamera, negli ozii della guardia, i servitori parlavano molto delle attenzioni che don Pio usava alla famiglia Caruso col mandare la caccia che giungeva dai possessi di Maremma, le piante e i fiori delle serre della villa a porta Salaria, i latticini che arrivavano dalla Sabina e i vini dell’Umbria, ma non parlavano meno dei biglietti che la principessa scriveva a Fabio Rosati, e ogni volta che lo vedevano salir le scale del palazzo, mentre uno dei servi lo accompagnava alle stanze della signora, gli altri, rimasti in anticamera, ridevano e dicevano nel loro linguaggio triviale:
— Il principe e la principessa fanno il comodo loro.
Due o tre volte don Pio aveva incontrato Fabio nella galleria, mentre si avviava al quartiere della principessa, e sempre lo aveva salutato con molta freddezza, con una freddezza che faceva morire al Rosati il bonario sorriso sulle labbra, e dopo, quando lo rivedeva in redazione, fingeva di non accorgersi di lui, e non c’era caso che gli rivolgesse per un pezzo la parola.
Il principe non aveva nessun sospetto ingiurioso per la principessa, ma credeva Fabio il cronista particolare di lei, alla quale, non riconosceva attrattiva di sorta, e la relegava nel numero di quelle donne che, quando non destano repulsione, lasciano freddi e indifferenti quanti le avvicinano.
La freddezza del principe per Fabio non influiva sulla posizione di lui alla Stampa, poichè don Pio non s’ingeriva mai dei particolari e lasciava piena indipendenza ad Ubaldo, il quale, sapendo che in certe occasioni il Rosati era un eccellente corrispondente e un cronista prezioso, gli dava spesso degli incarichi, che Fabio accettava volentieri, perchè gli procuravano conoscenze, e guadagni superiori a quelli ordinari.
Don Pio si sarebbe consolato facilmente della vita triste che menava in famiglia, del risentimento di cui dava prova la principessa ogni volta che gli dirigeva la parola, delle preoccupazioni economiche che non gli accordavano tregua, dopo che aveva seppellito tanti milioni nell’acquisto di terreni che non riusciva a rivendere e per i quali sborsava un forte interesse agli istituti di credito, che gli avevano prestati quei milioni; si sarebbe anche consolato nel vedere che La Stampa non gli dava i lauti guadagni che aveva sperato, purchè Maria lo amasse, purchè Maria fosse sua. Ma di fronte a lei, egli, così ardito, non aveva volontà, non aveva ardimento di sorta. Il vederla sempre in mezzo a gente, il non poter sfogare mai con lei la tenerezza che gl’ispirava, faceva del suo amore un tormento continuo, un supplizio da dannato. Le attenzioni, le premure più delicate, che sono un lusso dei ricchi, egli le aveva tutte per Maria. Non c’era sera in cui ella non trovasse nel cantuccio del salone della Stampa dove soleva sedersi, una quantità di fiori e i dolci che ella preferiva.
Maria lo ringraziava con effusione, era cortesissima con lui, ma nulla più, e le stesse parole le usava con tutti quelli che ad imitazione del principe, offrivano a lei i loro omaggi.
Una seconda estate era trascorsa e la principessa non si era mossa da Roma per assistere il proprio fratello, che, cadendo da cavallo, si era piuttosto gravemente ferito, e in quella estate ella si era fatta vedere così spesso fuori col Rosati, lo aveva così spesso ricevuto, che la ciarla che ella lo amasse dal palazzo Urbani era giunta nella redazione della Stampa e anche alle orecchie di Maria, la quale aveva risposto al Suardi, che la informava di quel fatto:
— Io non ci credo; la principessa è una santa donna!
— Se è una santa lei, Fabio non è un santo, e quando la santità manca da un lato c’è sempre pericolo che la parte peccaminosa guasti l’altra. Voi non sapete che il peccato, secondo la scienza moderna, è di natura infettiva e ha il suo bacillo?
— Con la vostra strana maniera d’argomentare avete in certo modo ragione, — disse Maria. — Quando un uomo si mette a far la corte a una donna fa sempre con lei la parte del corruttore, ed ella si lascia corrompere se non ha il sentimento del dovere, che è il più potente antisettico, per esprimermi come voi fate, che si conosca.
— Ben detto! — esclamò il Suardi ridendo. — M’indicate dove si vende quell’antisettico, del quale pare che voi possediate tanta copia?
— In nessun luogo disgraziatamente — rispose Maria cui non era sfuggita l’allusione. — Alcuni sono tanto fortunati da averne scoperta una sorgente e finchè quella non si esaurisce, sono al coperto dalla infezione; se la sorgente diviene sterile si ammalano subito.
— E voi siete sicura che la vostra non si esaurirà mai?
— Sì — rispose ella arditamente. — Sì, perchè la mia sgorga in un terreno che, date certe circostanze speciali, l’alimenta sempre.
— Come si chiama di grazia questo terreno?
— Il giardino della riconoscenza.
— Mia bella signora, voi parlate come una pastorella di Arcadia.
— E voi come un pastore, che navighi di continuo sul fiume del Tenero.
— Se ci sentissero, riderebbero per bene alle nostre spalle, — osservò il Suardi che passava per lo sguaiato e il cinico della redazione, ed era in fondo il più ingenuo e il più illuso fra i suoi colleghi.
La principessa voleva che parlassero male di lei, voleva compromettersi, voleva incanagliarsi, come diceva a sè stessa nelle sere di spasimo, affinchè il marito lo sapesse, affinchè al marito parlassero di quel fatto, ma in quest’intento non riusciva. La duchessa madre, che poteva essere la sola che riferisse quelle voci a don Pio, era assente da Roma, e gli altri non avevano col principe della Marsiliana tanta confidenza per permettersi uno scherzo; essi attaccavano piuttosto Fabio, ridevano con lui dell’amore che aveva ispirato, ma al principe non dicevano nulla, e il principe pensava il meno possibile alla moglie.