Il buon cuore - Anno IX, n. 06 - 5 febbraio 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 06 - 5 febbraio 1910 Religione

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LE SACRE MISSIONI IN DUOMO

nel Centenario della canonizzazione di S. Carlo

Un’onda di religiosità è passata negli scorsi giorni sopra Milano. Sua Eminenza il Cardinal Arcivescovo pensò che opportuno preparamento alla celebrazione del terzo centenario della Canonizzazione di S. Carlo, che ricorre quest’anno, fosse un corso di religiose Missioni nelle Chiese della città e Diocesi, ma specialmente in Duomo, che conserva sotto la sua cupola la tomba del Santo Patrono.

Le Missioni per la festa di un Arcivescovo, nella Cattedrale, non potevano essere meglio tenute che da Vescovi; e i vescovi furono trovati, monsignor Giuseppe Batignani, vescovo di Montepulciano, mons. Giovanni Cazzani, vescovo di Cesena, mons. Angelo Giacinto Scapardini, dell’Ordine dei Predicatori, vesc. di Nusco. Tre prediche dovevano essere tenute al giorno, pel corso di una settimana, l’una alle 7 della mattina, per meditazione, l’altra alle 11, di carattere apologetico, l’altra alle ore 16, per gli esami pratici; e furono distribuite fra i tre Monsignori Vescovi, in corrispondenza alle loro particolari attitudini, le meditazioni a monsignor Cazzani, il discorso apologetico a mons. Scapardini, gli esami pratici a mons. Batignani.

Il pubblico, già numeroso nel primo giorno, andò sempre aumentando, da raggiungere negli ultimi giorni l’aspetto di vera folla, che si stipava sul sancta sanctorum, nel grande spazio sotto la cupola e nelle braccia laterali, e fino alla seconda colonna della navata centrale, fin dove era possibile che la voce si sentisse. Tutte le classi erano rappresentate, e fu marcata in alcuni giorni feriali la presenza di molti preti delle varie parti della Diocesi, dando alle Missioni un carattere più che cittadino.

Il frutto religioso di queste Missioni fu palese la domenica di chiusa, per l’affluenza ai Sacramenti, non solo nella Cattedrale, ma in molte delle principali Chiese della città.

E impossibile riferire quanto venne detto dai singoli oratori. Ci accontentiamo di accennare il carattere e il merito particolare di ciascuno. Monsignor Cazzani, che faceva il corso delle meditazioni alla mattina, fu principalmente rimarchevole per profondità di dottrina e sobrietà di forma, qualità che rifulsero anche in altri discorsi, fatti fuori dalle Missioni, cioè un discorso pel giorno di ritiro del Clero, nella Capella Arcivescovile, e un altro in commemorazione di don Bosco, a Santa Maria Segreta. Fu segnalato in modo particolare, come discorso di particolare efficacia, quello sulla morte.

Mons. Batignani, senese, incaricato degli esami pratici, era principalmente distinto per l’armonia dell’idioma gentile, per la serenità dell’animo, per la semplicità della forma, che lo facevano ascoltare dal pubblico, con un senso di particolare compiacenza. Sono ricordati come capolavori del genere la predica sulla famiglia, e l’Omelia sul Vangelo di Sessagesima, relativa alla semente caduta nei diversi terreni.

L’enfant terrible fu mons. Scapardini, con un misto di eloquenza irruente, frammezzato da tocchi di umorismo, che lo resero in breve tempo popolare. Il suo genere di predicazione è discutibile, e non andrebbe bene l’imitarlo: ma in lui era così corrispondente alla sua indole, era così sincero, da farsi perdonare, da farsi amare, anche in certe uscite, condite di molto, di troppo pepe. Il fondo della dottrina era però sempre forte, e la sua forma raggiunse alcune volte una efficacia così singolare, da produrre nel pubblico la più profonda impressione. Nella predica della superbia, del vizio esagerato di indipendenza da ogni persona e da ogni autorità, domestica e sociale, vizio caratteristico dell’epoca nostra, ricordiamo il brano, col quale faceva conoscere la gravità del vizio dalla enormità delle conseguenze. Ricordo una mattina, egli disse, che una ferale notizia si diffuse improvvisamente in tutta l’Italia, nel mondo. Io sento qui ancora nell’animo l’angoscia profonda provata in quel momento, quando si udì: fu assassinato Re Umberto; fu assassinato da un anarchico, il Bresci. Fu un senso di orrore, fu una riprovazione generale, anche da parte del partiti estremi, anche da parte dei giornalisti radicali: tutti cercavano di scuotersi di dosso, col riprovarlo, l’odiosità dell’atto. Ah, esclamava altamente conturbato l’oratore, io vorrei chiamare qui tutti i giornalisti, tutti i propalatori delle teorie sovversive, anarchiche, tutti gli apostoli di un principio esagerato di indipendenza e di libertà, e dir loro: guardate quel cadavere, guardate quella ferita che spense proditoriamente il più buono dei Re; metta ciascuno una mano alla [p. 42 modifica]coscienza, e poi dica: posso io affermare di non essere responsabile di quella morte, colle false teorie di malsana libertà che ho continuato a divulgare nel pubblico?... Io, io sì, posso proclamarmi, altamente proclamarmi innocente di quel sangue, io seguace, io apostolo della dottrina di Cristo, che predica il rispetto alla vita umana, l’ubbedienza alle autorità costituite, che considera la persona del Re, come rivestita di una autorità divina.

Fu uno squarcio di eloquenza vibrata, che produsse, per l’attualità e la verità dell’applicazione, un’impressione quasi terrificante.

Quando dopo l’ultima predica, nel vespero della domenica, essendo il Duomo straordinariamente affollato, Sua Eminenza intuonò il Te Deum, seguito dal coro unissono di più migliaia di voci, parve di sentire come la voce dell’umanità che si elevava al cielo per ringraziar Dio della verità e del perdono che per mezzo dei suoi eloquenti e santi pastori aveva fatto discendere sulla terra.

Complemento solenne alle Missioni in Duomo fu l’accademia tenutasi la sera di domenica nella Chiesa di S. Alessandro, organizzata dal Circolo di coltura, emanazione del Circolo di S. Stanislao.

Merita che se ne faccia un cenno. Ecco il Programma.

PROGRAMMA.

1.º G. RamellaRespice de cœlo — Coro a tre voci uguali.
2.º Parole del Presidente del Circolo di cultura.
3.º Discorso del Dottor Lodovico Necchi, Presidente
della Direzione Diocesana.
4.º WagnerCoro dei pellegrini (Tannhäuser).
5.º Monsignor Angelo G. Scapardini, Vescovo di Nusco
San Carlo (Conferenza).
6.º GounodI martiri — Scena corale a quattro voci d’uomo.
7.º Parole di chiusura di S. E. il Card. Arcivescovo.

La parte corale era sostenuta dalla Schola Cantorum del Seminario Teologico, la quale si prestò gentilmente sotto la direzione del Maestro Canonico Ascanio Andreoni.

Alle ore 21 il grandioso Tempio era ripieno di un pubblico composto di persone appartenenti a tutte le classi sociali. Posti distinti verso l’altare erano preparati per tutte le autorità, i Monsignori del Duomo, i Monsignori del Capitolo di S. Ambrogio, il Corpo dei Paroci. L’altare, da cui era stato asportato il S.S. Sacramento, ornato di verdi piante, sosteneva nel mezzo un busto in grandi dimensioni di S. Carlo Borromeo. Sul ripiano dell’altare presero posto, il Cardinale Arcivescovo nel mezzo, a destra i Vescovi Batignani e Scapardini, a sinistra i Vescovi Cazzani, Viganò, e l’Arciprete della Metropolitana.

Della musica diremo solo che fu pari alla circostanza, religiosa, solenne, imponente, eseguita alla perfezione dal Coro dei Seminaristi, sotto la intelligente e forte direzione del Canonico Andreoni.

Il signor Carlo Meda salì primo sul palco, preparato sotto il pulpito, e lesse brevi e opportune parole, alla fine vivamente applaudite, colle quali dava conto del perchè e del modo della Accademia. Seguì il dott. Necchi, il quale con parola forbita, concisa, convinta, richiamò la memoria di Carlo, mostrandone la eccezionale grandezza in mezzo alla Chiesa ed alla Società, e manifestando che il segreto e il culmine di questa grandezza, che dopo di avere tanto influito sull’epoca sua, si prolunga co’ suoi salutari effetti anche nei secoli successivi, si deve, più che ad ogni altra cosa, alla santità di Carlo. Carlo è grande, ma più che grande è santo, grande perchè Santo. Fu vivamente applaudito.

Nel programma, era segnata dopo una Conferenza su San Carlo di mons. Scapardini. Ma dal contegno di Monsignore si capiva che l’indicazione era stata fatta senza il suo consenso, anzi contro il suo consenso. Nulla di meno aderì, e salì sul palco. Vi era la candela accesa, che aveva servito, per la lettura, ai due oratori precedenti. Egli, per prima cosa, soffiò sulla candela, e la spense. Questo atto di famigliarità, sollevò l’ilarità del pubblico, e predispose a sentire qualche cosa di vivace e di interessante.

E l’aspettativa non fu delusa.

Egli prese nelle mani il foglio del programma, e agitandolo, e battendovi sopra la mano disse: guardate: io sono notato per fare una Conferenza: ma io l’ho detto, l’ho ripetuto, che di conferenze non ne faccio, non son buono di farne. Ma, via; sono quì, bisogna pur dir qualche cosa. Dirò quattro parole; ma invece di dirle su San Carlo, le dirò su San Carlone. Voi certo conoscete il S. Carlone, la statua gigantesca di S. Carlo, posta sopra la collina di Arona, sul Lago Maggiore.

Io avevo otto anni quando la vidi la prima volta. Io sono nato in una regione vicina. Mio padre mi diceva: se farai il buono — ero un po’ biricchino — ti menerò a vedere il San Carlone. Venne finalmente il giorno desiderato. Quel sentire a parlare del San Carlone come di qualche cosa di gigantesco, di straordinario, m’aveva così ingrandito nella mente l’aspettativa, che quando giunsi dinnanzi al basamento ed alla statua, mio padre che si aspettava che io dicessi: oh, come è grande; vide invece che io era li imminchionito, quasi a dire: è tutto quì?

Mio padre, contrariato da questa impressione in senso inverso, aggiunse: vedrai fra poco se non è grande, quando lo vedrai dentro. Allora non c’era la bella scala a chiocciola, di ferro, che c’è adesso: c’era una scala a pioli, alta, alta.... Il padre mi mette sulla scala, e lui dietro a spingermi. A metà, la scala oscillava, un po’ a destra, a sinistra.... Io aveva una paura.... Ma il padre mi confortava; finchè arriviamo ai piedi della statua, si entra per una porticina nell’interno della statua; il padre mi dice: guarda su... Guardo, mi pareva di trovarmi in un campanile.

Vedi lì, mi dice il padre, quelle due piccole caverne? Sono i piedi.

Montiamo su una scala interna. A un certo punto il padre mi dice: vedi lì quel vuoto? Sembrava un armadio aperto. Sai che cos’è? Il libro che San Carlo tiene in mano. Montiamo ancora. Vedi lì quel foro lungo, lungo, che sembra una galleria? Io guardavo estatico. E’ il braccio di San Carlo. Finalmente arriviamo in cima. Ci troviamo in una bella cameretta rotonda. Sai cos’è questa? E’ la testa di San Carlo... E adesso ti pare ancora che la statua sia piccola?... Io non parlavo più.

E quel che avviene della statua di San Carlo al di fuori in confronto del di dentro, che di fuori è grande, ma di dentro par più grande ancora, avviene di San Carlo considerato nella sua vita: S. Carlo considerato in blocco, al di fuori, è grande; ma considerato al di dentro, nell’animo suo, nelle sue idee, nei suoi propositi, nelle opere sue, oh quanto è più grande ancora!

E con questa impostazione, giusta e vera, che San Carlo, grande al di fuori, lo è più al di dentro, all’oratore, rimanendo sempre sul punto di partenza della statua, e delle sue varie parti, si aprì il campo ad un magnifico e grandioso squarcio di eloquenza, riassumendo tutta quanta la vita di Carlo nelle sue opere molteplici e meravigliose.

Quei piedi? Condussero Carlo in tutte le parti del suo operosissimo apostolato, a Pavia, a Roma, a Trento, a Torino, in tutte le città e i villaggi della sua vasta diocesi, sui dirupi delle valli più alpestri....

Quel libro? Raccoglie tutti i saggi della sua grande sapienza, i suoi discorsi innumerevoli al popolo, al Clero, alle case religiose, raccoglie tutte le deliberazioni dei [p. 43 modifica]suoi sinodi diocesani e provinciali, che divennero il codice pratico del governo di tutte le diocesi cattoliche del mondo, ancora pieni di attualità dopo tre secoli che furono scritti.

Quel braccio? Rappresenta tutte le opere d’azione di S. Carlo, quel braccio che compì vigorosamente la riforma degli uomini e dei costumi, quel braccio che vinse la riottosità di religiosi degenerati, l’assalto degli eretici, le prepotenze dei governatori che rappresenta. vano la grande Spagna.... Alto là, egli diceva, quando si offendevano i diritti della Chiesa; alto là, e la prepotenza era vinta.

Quella testa? Rappresenta tutto il suo complesso delle sue idee, quel guardo intellettuale, alto, largo, col quale Carlo vedeva tutta la Chiesa e la Società nei loro rapporti, discerneva quali fossero i punti che più importava combattere, quali fossero le iniziative che più importasse prendere, per frenare l’opera del male, per ridestare le iniziative del bene....

Il suo cuore, non si vedeva. Era al di dentro, era al posto dove noi ci eravamo trovati salendo, ma quel cuore qual parte grande occupava nella vita operosa e caritatevole di Carlo, la sua generosità coi poveri, la sua carità cogli appestati, quel cuore, che nel punto in cui tutte le autorità civili impaurite erano fuggite, lo portò a sostituirsi ad esse, ed esser pel popolo milanese, il padre, il buon pastore che dà la vita per le sue pecorelle.

Con tutto quello che Carlo ha fatto egli è divenuto l’onore deira sua famiglia, del suo Lago Maggiore, di Milano, dell’Italia, della Chiesa; è qui un altro magnifico squarcio di eloquenza nello sviluppo di tutte queste singoli parti.

La statua di S. Carlo è grande, aggiunse poi l’oratore; ma non basta osservarla, inchinarsi dinnanzi ad essa; bisogna dall’ammirazione passare all’imitazione.

Un giovine romano vide un giorno la statua di Alessandro il Grande; la guardò, e pensando a quanto di grande aveva fatto Alessandro, fece un proposito: anch’io voglio essere grande come Alessandro. E tenne la parola. Quel giovane era Giulio Cesare.

Così dovete far voi guardando San Carlo: dovete dire: anch’io voglio imitare, anch’io voglio essere grande come lui.

C’è qui qualcuno in mezzo di noi che ha fatto questo proposito. Sapete chi è? Sua Eminenza il vostro Cardinale Arcivescovo. Quando qui venne Arcivescovo, nella Diocesi di Carlo, aveva nome Andrea Ferrari. Disse: voglio imitare San Carlo; e si chiamò: Andrea Carlo Ferrari. Se egli abbia mantenuto il suo proposito lo potete dir voi, o Milanesi....

A questa uscita inaspettata e felice, si può immaginare come il pubblico sorgesse come un sol uomo, e con uno scatto unanime prorompesse in una doppia salve di applausi, all’indirizzo di Sua Eminenza l’Arcivescovo, che, confuso e sorridente, s’era levato a ringraziare.

Eravamo oramai al termine della Conferenza. L’Oratore conchiuse invitando tutti ad ascoltare le Conferenze che intorno a San Carlo distinti oratori terranno presto nel salone dell’Arcivescovado. Essi vi faranno conoscere, egli disse, in modo dettagliato, il di dentro di S. Carlo, facilitandovi la sua imitazione.

Ma i giovani del Circolo di Coltura, che hanno organizzate queste manifestazioni di onore a San Carlo, hanno bisogno di mezzi per attuarle: ajutateli: l’appello per aiutare le opere buone non è mai fatto indarno ai milanesi.

Gli applausi generali, vivissimi, e continuati, fecero comprendere a mons. Scapardini quanto fossero tornate gradite le sue parole.

A compiere il programma non mancava più che una parola di chiusa da parte dell’Arcivescovo. Questa parola venne, e fu semplice, famigliare.

Noi siamo qui, egli disse, ad onorare S. Carlo; San Carlo grande principalmente perchè fu santo. I santi fanno i miracoli, e S. Carlo ne ha fatto anche in questi giorni; ne ha fatto uno anche questa sera.

Io avevo invitato i tre eccellentissimi Vescovi a fare le Missioni: era sicuro che mi dicessero di sì; invece chi per una ragione, chi per un’altra, tutti mi risposero di no. Quella sera andai a letto di mala voglia. Non c’è che San Carlo che mi possa liberare dall’imbroglio: mi raccomandai a San Carlo, e tornai a riscrivere. Li prego a venire non per me, ma per San Carlo; è San Carlo che li prega. — Che volete? San Carlo mutò il i iliuto in consenso. E il consenso di uno dei tre Vescovi, non era facile: non dipendeva da lui; dipendeva dal Papa. Il Vescovo doveva andare dal Papa in questi giorni: il convegno era già fissato: come si fa a mancar di parola al Papa? Io scrivo al Papa; espongo il mio bisogno, pregando che concedesse al Vescovo di differire la sua venuta a Roma: Santo Padre, scrivo, chiedo questa grazia, non in mio nome, ma in nome di S. Carlo. — Che cosa risponde il Papa? Non è nelle consuetudini dare simili permessi: ma la grazia è chiesta in nome di S. Carlo: come si fa a dir di no a S. Carlo nel centenario della sua canonizzazione?

E i tre Vescovi son qui. Non ho ragione di dire che San Carlo fa ancor dei miracoli? E l’ultimo qui, questa sera. Monsignor Scapardini non voleva far la Conferenza; l’ha ripetuto più volte in questi giorni, l’ha ripetuto in carrozza nel venir qui; l’ha ripetuto qui... e avete sentito che cosa ha fatto? Altro che una conferenza!... Chi ha prodotto il mutamento? Permettete che lo creda, San Carlo.

Una cosa sola io devo rilevare. Con forma graziosa, gentile, se volete, egli mi ha lodato; ma in fondo egli mi ha ricordato Un dovere, il dovere che io ho di imitare San Carlo. Prego tutti voi perchè colle vostre preghiere mi aiutiate a non venir meno a questa imitazione.

Il modo delicato, industrioso, e pur sincero, col quale l’Arcivescovo aveva saputo volgere una lode pel dovere compiuto, in un avvertimento del dovere da compiersi, impressionò tutto l’uditorio, e un applauso, che assunse la forma di vera ovazione, coronò le parole di Sua Eminenza.

La sua benedizione a tutti pose fine alla bella e importante accademia. Era durata più di due ore, senza che nessuno provasse segno di stanchezza.

Il giorno dopo monsignor Cazzani teneva nella chiesa di S. Maria Segreta, ai Cooperatori Salesiani, un discorso su Don Giovanni Bosco, presentato come uomo provvidenziale nell’epoca contemporanea. Vorremmo poter dare un riassunto di quel discorso. Esso tornerebbe opportunissimo complemento ai discorsi delle Missioni. Nelle Missioni si ricordò quello che un cristiano deve credere e operare, per rispondere alla sua vocazione; in Don Giovanni Bosco si sarebbe presentato quanto in adempimento di questo programma egli ha fatto: nelle Missioni fu esposta la teoria, in Don Giovanni Bosco si trova la pratica. Ma l’articolo è già troppo lungo così com’è. Rimandiamo quel riassunto al numero venturo.

Chiudiamo col dire che le passate Missioni ci hanno lasciato la più grata impressione, e una speranza indefinita di bene per l’avvenire.

Il grande concorso di popolo ci è piaciuto non solo come fatto, lodevole in sè, ma più come sintomo di una nuova orientazione che vanno prendendo gli spiriti. Il fatto religioso richiama ancora l’interesse del pubblico, malgrado la guerra aperta usata per denigrarlo, per seppellirlo. Abbiamo veduta l’idea religiosa presentata con una franchezza inusitata, con una grande [p. 44 modifica]fiducia di vicino trionfo. Le nuove condizioni fatte alla Chiesa di una libertà tutta spirituale, il ravvicinamento del Clero alla gran massa del popolo, che rappresenta la parte più viva e numerosa della società, la corrispondenza larga, spontanea di questo popolo, che, avvicinandosi alla Chiesa sente che non deve più rinunciare a nessuno dei sentimenti ai quali più vivamente tiene, i sentimenti della libertà e dell’unità del paese, quel sentire dal pulpito ripetere con accento convinto, che non ammette sottintesi e secondi fini, patria e religione, fa all’anima un gran bene.

In modo così esplicito e assoluto è un programma nuovo: per noi si è sempre presentato come il programma divino; e come tale, accettato e realizzato in modo sincero, prepara al paese giorni ben migliori dei passati.

La religione tornata popolare e patriotica, farà che la patria ritorni religiosa.

All’ingresso del nuovo Proposto di Alzate


30 GENNAIO 1910


....e partimmo da Milano con un tempo sempre imbronciato, ma già promettente. Infatti, come ci affacciammo, dopo Arosio, all’incantevole vallata del Lambro, e l’occhio trepidante esplorava lontano nel cupo cielo, ecco attenuarsi, rompersi le nubi lasciando scoprire squarci di azzurro; il sole prese a svolgersi libero. Discesi a Lambrugo un corteo di carrozze, di cui la più signorile è mandata dal Sindaco d’Alzate, venuto ad incontrare il nuovo Proposto egli stesso ci accoglie, e smaniosi si corre, si vola in mezzo alla deserta squallida campagna, tutta biancheggiante di neve, e silenziosa e solenne. Si svolta per Fabbrica, rasentando la Villa S. Giuseppe, che si erge in sua lenta mole su un colle, tutta chiusa, rigida, e cinta da un silenzio di morte; ben strano contrasto coll’animazione festosa dei mesi estivi, quando l’Istituto Villoresi vi passa le vacanze autunnali.

A Fabbrica, i primi segni di esseri viventi; la gente si è riversata tutta alle porte delle case per vedere; sorride, saluta riverente. Ma qui cerco invano la caratteristica figura di don Giosuè che ero solito trovare in questo caro ambiente figura principale, vita del suo villaggio, gradito come un raggio di sole animatore. Ahimè, laggiù nel basso cimitero, tutto nereggiante fra cipressi, da quasi tre anni riposa il sonno del giusto; e rasentando quel modesto camposanto, un impeto di lacrime irresistibile mi prende alla gola.

E avanti, colla morte nel cuore per la scena mesta che mi circonda, e i tristi pensieri che mi salgono al cervello rivedendo, dopo tanto tempo, questi luoghi pittoreschi e tanto amati, pur andando incontro ad una festa, pur sedendo al fianco del novello Prevosto che veggo raggiante, impaziente di trovarsi fra le braccia dei nuovi figli, lui il padre ansiosamente aspettato, lui lo sposo, ma io soltanto l’amico, un pezzo decorativo....

Giunti all’ingresso di Alzate, alla Cappella gentilizia Realini, una fiumana di gente ci attende in fremito di gioia, luminosa di felicità, ed esplode un’ovazione formidabile di saluto, di benvenuto, alle prime battute della banda.

E qui, un primo complimento di bambina bianco vestita.

Si ordina il corteo che attraversa il borgo tutto pavesato di sandaline e orifiammi tra due ale di popolo festante, che commenta, che tradisce l’ottima impressione ricevuta alla vista nel nuovo Prevosto, il quale a dir vero, è un bel pezzo d’uomo che appaga. Ma avanti in un’atmosfera di schietta festosità e carezzata dai timidi raggi del sole ormai sprigionatosi e fatto sovrano della festa. All’entrata della magnifica chiesa altri complimenti di bimbe, lettura di Decreto dell’Autorità ecclesiastica; poi entrati, il nuovo Proposto prende possesso canonico della sua Cura, quindi Messa accompagnata da ben eseguita musica, e discorso d’occasione. Il popolo l’aspettava con ansia, e ne fu contento; perchè dopo d’essersi fatto conoscere al suo Pastore e nelle varie referenze a lui giunte da cento parti, e nella dimostrazione entusiastica dell’ingresso, voleva bene conoscere alla sua volta cosa valeva il nuovo Prevosto. E l’impressione riportata fu felicissima; bell’uomo, maestà di portamento, magnifica voce, e prontezza di parola; circostanza quest’ultima che a don Giovanni Bosetti dava un incalcolabile vantaggio sul suo antecessore, di nessuna comunicativa, pur avendo un talento straordinario e un tesoro di cognizioni. Ma il Proposto Bellini vivrà nel cuore della popolazione di Alzate, specialmente per l’esimia sua pietà, e per l’austerità d’antico asceta che nolente, questa volta, irradiava intorno a sè e tradiva in cento modi.

Un pranzo luculliano (ahi povero Sinodo!); e ancora bambine a recitar complimenti; il Parroco di Alserio lesse un suo lavoro vernacolo, il Proposto di S. Calimero di Milano rievocò una pagina dolorosa del nuovo Pastore che credette arra sicura del felice avvenire del ministero sacro che inaugurava ad Alzate. Finalmente io lessi quanto segue:

«Rappresentante e interprete del Capitolo di S. Ambrogio — di più — casuale sostituto del compianto monsignor Comi che, con infinito piacere, sarebbe venuto ad accompagnare alla sede destinatagli, un suo Canonico, se la morte non lo avesse prevenuto, troppo tardi — per declinarlo in tempo — mi scopro impari a tanto ufficio. Ci voleva ben altro per stare all’altezza d’un tal compito in tanta circostanza, per figurar bene tra tante cospicue persone che festeggiano e ricolmano dei più bei voti il neo-Prevosto di Alzate.

Pure confido che l’animo bono del novello Pastore, e l’antica amicizia che mi lega a lui, e la gentile condiscendenza dei commensali daranno un facile passaporto alle parole che sono per dire:

E anzitutto il Capitolo di S. Ambrogio, per mezzo mio, rinnova al Festeggiato l’espressione di immenso compiacimento che dal suo seno fu tolto il Pastore della Propositurale di Alzate. Tanto più lusingato dell’onore che da tal nomina riverbera su di esso, in quanto il Concorso per Alzate ha una storia affatto singolare; in quanto è nota la lista gloriosa dei Proposti che precedettero don Giovanni Bosetti, ultimi il Proposto [p. 45 modifica]Staurenghi ex-Rettore di Seminario e il Proposto Bellini ex-Rettore di Collegio, entrambi, uomini d’una intellettualità eccezionale, cui mando un riverente e mesto pensiero di ammirazione e rimpianto.

Poi il Capitolo di S. Ambrogio rinnova al neo-Proposto le congratulazioni perchè gli sia toccata da coltivare una porzione della Vigna del Padre di famiglia, troppo bella! Un borgo lindo e civile che mai; una posizione naturale incantevole, fra i colli briantei, allietati da un perpetuo sorriso, e innanzi ad uno scenario immenso di bellezze d’una varietà stupefacente; una Chiesa splendida e degna di città; è una popolazione religiosissima. Mettere in evidenza codeste caratteristiche di Alzate è un debito da sciogliere alla realtà delle cose; è un bisogno d’un cuore straziato dalla nostalgia d’un passato che non tornerà più, ma che rievoca sempre con voluttà, e non senza un sospiro segreto, una lacrima furtiva.... Poichè io qui, dal 1877, per un lungo corso d’anni venni a passare le mie belle vacanze autunnali; qui gustai una felicità indimenticabile in mezzo alla pace dei campi, alla riverente civile ospitalità di questi abitanti e in un lusso di sane luminose aure, tutte investite di luce e di profumi confortatori, tra bellezze di natura che strappano gridi d’ammirazione....

Finalmerite il Capitolo di S. Ambrogio per mezzo mio rinnova i più caldi voti al neo-Prevosto di lungo ministero in bene di tanti figli spirituali a cui oggi divenne Padre; e che il bon Dio dall’alto e gli uomini dal basso lo ricolmino delle pure e nobili soddisfazioni che sono il premio terreno e immediato della sublime paternità dello spirito!...».

Dunque, tutto sommato, il bilancio della festa fu soddisfacentissimo. Il festeggiato può consolarsi di aver corrisposto felicemente all’aspettativa; la popolazione può star contenta di essersi portata nei termini più lodevoli, in una perfetta intesa e fusione d’animo coi propri superiori del Municipio, guidati da quel perfetto gentiluomo e cavaliere che è il sindaco Baragiola. Caso raro, non d’ogni giorno nè d’ogni paese....