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Il buon cuore - Anno IX, n. 12 - 19 marzo 1910/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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PANEGIRICO

del Sacerdote Adalberto Catena

NELLA METROPOLITANA DI MILANO

il 4 Novembre 1853.

Chi avesse veduto quelle giovanili sembianze, irradiate dall’infula gemmata, alto levate in quell’agitarsi di popolo infinito intorno all’eletto, doveva dire: “Levati di qui, angelo di Dio. Tu solo non basti a salvare questa città”. Pure quella era l’ora di Dio! Benchè la riforma fosse un bisogno sentito, non era invocata dal voto comune; ed era ardua cosa — di bisogni non definiti, di vaghe aspirazioni, di incerti consigli — comporre un sistema; ardua operarla allora che non era più possibile differirla. Se Carlo tutto ciò non cura, se non vince l’aspetto dello zio pontefice, già già chino alla tomba, se non l’accorrergli intorno dei porporati... se qui arriva è una di quelle risoluzioni, in cui si chiude infallibilmente il futuro. Non dite immaturi i suoi ventisei anni: l’urto di potenti realtà ei l’ha provato, quando poc’anzi sedeva al regime di tutta la Chiesa. La riforma l’aveva già operata alla luce del mondo, in Roma stessa, che piegava all’alto esempio di sua austerità. — Egli, cardinale, nipote al Pontefice; autorevole per parenti e congiunti in tutt’Italia e per lo stesso prestigio delle patrizie ricchezze, egli, legato a latere di Bologna e Ravenna, poi di tutta Italia; egli, abate e commendatore di almeno dodici Chiese in varii stati, penitenziere supremo della Santa Chiesa, conte d’Arona, principe d’Oria, protettore del Regno di Portogallo, dei Cantoni svizzeri cattolici, della Germania inferiore, degli ordini francescano e umiliato, degli ordini militari di Malta e del Cristo..., comprendete come da tutto ciò derivasse una sensibile autorità alle sue doti penetranti, sovrane. Oh quante volte la magnanimità del principe e quella più nobile del santo s’incontrarono in lui di mezzo alle contradizioni del ministero! Ma i principi non sono mai tanto utili alla Chiesa, come quando le si umiliano innanzi; e crebbe appunto ogni autorità al Santo, allorchè spogliossi di tutti questi onori, e, solo fidente in Dio, cadde avanti gli altari e pianse sull’infelice sua patria. Era da qui che il riformatore cattolico inauspicava l’opera sua. E il tempio pareva allora animare ogni ara, ogni imagine intorno a quello spirito orante, che anelava e trasfiguravasi in Dio. E polche questo inganno della vita così ne circonda, che, a poco a poco, le si ha fede ed amore, ascende ascende quasi a spiccarsi dalla vita e dal mondo alle montane solitudini; — meglio se il sito è selvaggio per quell’anima severa, meglio i silenzi e l’ombre notturne, ch’egli fendeva di povero lume, augusto pellegrino sulle balze tortuose di Varallo e dell’Alvernia a trovarvi le aure di Francesco.

E altra volta uscire dalla città — i pii consorzii, e via procedere ai simulacri venerati della cristianità, e con essi il santo Arcivescovo — a Torino, a Vercelli, [p. 93 modifica]nella Valtellina; e nella città stessa, scoperchiate le tombe, evocare le salme dei nostri martiri, dei nostri Arcivescovi, quasi a consiglio — elevarle sulle accorse moltitudini, nobile presentazione al corrotto popolo delle antiche virtù, bell’offerta a Dio d’una generazione migliore, e in ogni tempo e in ogni giorno tornargli sulle labbra l’invito alla preghiera. Poi, egli, il Pastore: “La salute a questo popolo deve venire da Voi, o Signore della vita e della morte. Ecco — io mi tolgo dalle labbra questo pane; mi sciolgo intorno questa porpora: ecco io sono cenere e peccato.... Perdonerete Voi al mio popolo? Vi ricorderete Voi delle vostre misericordie, o Redentore degli uomini?”.

Quale apparato di rinnovazione! Come visibilmente discende Iddio su questa città! A così maestosi auspicii ardirò io avvicinare, paragonare gli inizii delle riforme acattoliche, discorrendo i principii onde mossero e il furore di vili passioni, e l’orgoglio e il fastidio delle cose antiche, e la vertigine di indipendenza e l’ingegno indisciplinato, e la sapienza umana falsamente applicata agli arcani di Dio e una vita non illibata?!

Mettano un solo passo nella loro vita questi falsi riformatori e avranno chiariti i principii da cui partivano. Eglino, gridando riforma, hanno stesa la mano sul dogma, alterarono i fatti primitivi, scambiarono il male dei figli colla santità della madre. Se il cristianesimo è la tradizione della parola di Cristo, della parola di verità — di secolo in secolo ei non può rimanere che uno sempre e il medesimo. Che se da questa parola, da quest’opera di Cristo nella sua unione col mondo e col tempo, si può svolgere alcuna nuova applicazione, col giudizio della Chiesa, sarà sempre lo svolgimento di un principio per sè immutabile e dentro i limiti presignati dalla Chiesa stessa: se Ella ammette un nuovo grado di profondità a mano a mano che si penetri l’ineffabile dottrina, non è però bisogno di riforma, ma solo di promulgazione. E a questa intendeva il Santo colla diffusione dei libri scritturali, coi suoi catechismi, colle frequenti omelie, con quella istituzione tanto salutare della dottrina cristiana cattolica. È specialmente sovra il costume, che deve scendere l’azione innovatrice, e qui è l’opera della religione, e qui inoltra l’opera energica, indesinente, occulta dei ministri di Dio. A questa s’affrettava il Santo in capo a pochi del suo clero, mentre gli eretici novatori non curavano la menda dei vizii e, destituendo l’uomo di sacerdozio e di sacramenti, nudo ed inerme, lo lasciavano nell’ora del pericolo.

Ora, in nome di chi sorgessero costoro maestri delle genti, chi lo saprebbe dire? Hanno intronizzata la ragione, che, vergognosa dei suoi errori, lamentava un mandato, che non poteva compire. O non domandavano essi che fosse mai questa potente sovrana della terra, da cui viene la luce del mondo? Essa è l’uomo, la pupilla dei suoi occhi, indebolita dal fallo primo, non infallibile, come la vorrebbero alcuni, non defettibile così come la dicono altri. Ella vi è bensì l’autorità, che non isbaglia mai e che sola regge e ragione e fede e costume: la Chiesa cattolica, apostolica, Romana.

E l’umanità di ciascuna epoca in via di ritorno verso la giustizia, sotto il suo Cristo visibile quaggiù, il Papa, e una fede, una speranza, un battesimo, una Eucaristia, la Chiesa; e abbracciati a Lei tutti gli antichi, che hanno creduto al Dio venturo e quelli della nuova alleanza, che credono al Venuto, ossia tutto il senno umano, liberato dagl’istinti, dall’errore, dall’orgoglio, — e profezie e miracoli e martirio, — e intorno intorno quant’è riverbero di questa verità altissima sulla vita, e scienze e lettere e ogni eroismo ed elevazione del genio umano, — la Chiesa, che bisogna aver sentita una volta nella gioia o nel dolore per crederla sempre. Vuolsi una esaltazione prodigiosa di spirito, una follia senza nome, per rinunciare al passato, togliersi alla verità cattolica e andarne soli al mondo con poche verità prese dal grande deposito e gridare alla emancipazione del pensiero! Pure il grande tentativo di quel secolo era questo appunto di togliere la Chiesa dalla umanità, e Carlo invece statuiva questo principio vivificatore, lo stringeva meglio questo amplesso eterno della Chiesa e della umanità, ragione prima di una vera e legittima riforma. Quando la corruzione e lo scandalo entrano nella Chiesa, si determina spesso una reazione isolata, dispettosa, nè par vero che la Chiesa possa redimersi da sè. Ma no, Dio buono! chè solo la Chiesa può redimere la Chiesa. Solo la Chiesa; l’ha detto anche colui, il Vescovo di Dio, che leggeva, genuflesso, le lettere del Pontefice che ne invocò ogni giorno i divini responsi.

Talora questo moto di riforma può sorgere di tra il popolo dei fedeli, crescere nell’opinione, ma la parola ultima, l’inerranza, il diritto, l’obbligazione morale non possono derivare che dalla Chiesa. Parlare, attendere, soffrire se bisogni; ma non staccarsi dall’albero da cui rescisso, il povero virgulto ingiallisce e muore. Alla Chiesa, alla sua parte divina ed eterna emendare la parte materiale e terrena.

Solo la Chiesa: e Clemente e Paolo e Pio hanno cominciata la riforma intorno a sè prima che oltremonte si levasse il grido disperato. Ora, perchè le difese sorgano ad un punto concordi, ecco il Concilio. Interessi nazionali, municipali, religiosi ne combattevano il modo, il fine, il luogo stesso: gli sarebbero state dattorno le vicine e lontane nazioni per averne un brano a profitto di una meschina politica. La verità uscita da quello tutta intera, colla sua necessaria intolleranza, coll’apparato di una disciplina allora redintegrata, doveva spiacere a molti anche de’ cattolici. Pure il Concilio! Vengano, vengano dai quattro venti i Padri della Chiesa e, pei suoi legati, proceda lui, il Pontefice Sommo.

E là nelle Alpi, in Trento, veramente a cavaliere delle due terre dissidenti, sono raccolte potenti intelligenze, santità consumate, provette esperienze, che vi portano la loro storia intima e quella dei loro paesi, unificazione della sapienza e della virtù disperse nel mondo cristiano. La croce altolevata, aperto il Vangelo e il nume di Dio librato in mezzo all’augusta assemblea: “Ti saluto, o Chiesa di Dio, o santa Gerusalemme! Dicevano che tu non avresti trovato le vie per riunirti; e tu ti stai maestosa come nei giorni che i tuoi Pastori si adunavano colle lividure delle catene di Cristo, colle cicatrici di un martirio recente. Or pure hai vinto i principi e le podestà; e il fremito della guerra [p. 94 modifica]portato fin sulle tue porte ti ha dispersa; ma tu ti sei raccolta ancora sul tuo campo”.

Cominciato a Vicenza, interrotto, proseguito a Trento, il Concilio, traslato da Trento a Bologna, ricondotto da Bologna a Trento. Carlo l’ha riunito per una di quelle volontà instancate a cui tutto si concede. Da Roma tutto dirige: nomina i presidenti, manda il programma, insiste sulle questioni più importanti, rivede le decisioni prima di sottoporle al Pontefice; i corrieri che giungevan da Trento ammessi a qualunque ora di notte. Mirabile l’ultimo periodo in cui, compilati gl’immortali decreti sull’Eucaristia, sul Sacrificio, sull’Ordine, quegl’Infulati s’abbracciarono piangendo. Erano gridi di gioia della salva umanità cristiana.... La riforma propagavasi dai Pirenei all’Irlanda, dalla Filandia all’Alpi. Forsechè ella poteva tanto invadere se non si abbracciava ad un principio di forza che fu potente ausiliare?... Chè Carlo non solo non assunse alla sua riforma, ma spesso gli toccò di combattere e di vincere, trovatolo sulla sua via.... Tendere l’orecchio ai gridi che rivelavano o la coscienza o la corruzione di un popolo; unire tutti i partiti con una idea comune per metta della parte più degradata del cuore umano; così si feconda di strania forza una sterile idea. Se questa è costituita come prezzo di brillanti risultati, come solo il sublime pericolo di un bene atteso, desiderato, la causa è vinta per l’errore. Rivalità con una terra ove si era decisa la contesa fra la Chiesa e l’impero; — nimistà all’impero nei principi; tendenza nel popolo a sdossarsi una moltitudine di servitù, furono gli elementi di forza ch’ella venne man mano raccogliendo entro al mescersi delle idee e delle passioni popolari, e dispotismo e ogni modo di una potenza tirannica quando non le idee solo di quel tempo funesto, ma si aggiunse, — la riforma, — le persone, e vestì elmo e corazza. Le violenze nell’Inghilterra erano riuscite allo scisma.

(Continua).




Nel 12.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI vi sono le vite dei più famosi Santi.




Le Esposizioni di Torino e Roma nel 1911

E IL BRASILE

Da mano gentile e amica abbiamo ricevuto il Corriere Italiano che esce a Rio de Janeiro ed è diffusissimo nelle numerosissime colonie dei nostri connazionali sparsi nel Brasile. Il numero del 13 febbrajo contiene il ritratto del Commissario generale del Brasile per le Esposizioni di Torino e Roma nel 1911, il dott. Padua de Rezende, di distintissima famiglia brasiliana, alla quale siamo amichevolmente legati dai fili d’oro dei Missionari Salesiani.

Nell’inviare il nostro saluto all’onorevole Commissario, che in Italia troverà le più cordiali accoglienze, ne diamo il ritratto morale, pubblicato dal Corriere Italiano.

“Fregiando le nostre colonne della effigie del dottore Padua de Rezende, assunto all’arduo compito di rappresentare il Brasile alle Esposizioni di Torino e Roma nel 1911, intendiamo, oltre che fare cosa egualmente gradita ai nostri connazionali di quì e d’oltre Atlantico, porre in luce quale affidamento di seria competenza e quale pegno di civili risultati offra tal nomina.

“Il dott. Padua de Rezende, ingegnere di grido e amico di lunga data degli Italiani, ebbe infatti l’onore di rappresentare il proprio paese nella Esposizione mondiale di St. Louis, e di far parte, in qualità di vicepresidente, del Comitato ordinatore dell’ultima Esposizione Nazionale di Rio de Janeiro.

“Ai suoi pregi di carattere e al suo valore, si aggiunge l’autorità che gli proviene dall’esser egli a capo di molte fra le più importanti Compagnie industriali del proprio paese. Ad ogni iniziativa, ad ogni impresa ove attraverso l’utile privato traspaia una possibilità di incremento alle industrie, ai commerci, alla economia della Nazione, egli volentieri apporta il contributo della propria vigorosa pratica di organizzatore e del proprio alto intelletto. E gli incarichi, onde la fiducia degli Enti o del Paese lo investe, trovano sempre nella sua rettitudine, competenza e amor patrio, la miglior garanzia di un degnissimo assolvimento.

“Il Brasile dunque, più che la persona del dott. De Rezende, è da felicitare per la scelta auspicata”.





Dopo un’alternativa penosa, confortato dalle speranze della Fede e dalla tenerezza de’ suoi cari, il commendatore Giuseppe Candiani è spirato mercoledì mattina nel suo palazzo in via Cesare da Sesto, ove da mesi i visitatori si affollavano per avere notizie del patriota benefattore che, forte come quercia, aveva piegato alle ultime tempeste d’una vita operosa e travagliata, e andava lentamente spegnendosi.

Giuseppe Candiani nacque l’8 aprile 1830 e dal padre patriota ebbe instillato un odio profondo all’occupazione straniera. Col padre fu tra i primi a scendere armato sulle strade all’alba del 18 marzo 1848, e finita la rivoluzione, si arruolò nel battaglione studenti, combattendo al blocco di Mantova ed a Piacenza. Fu ferito alla battaglia della Bicocca e, pagato così il tributo di sangue alla Patria, ritornava agli studi interrotti conquistandosi in mezzo a difficoltà la laurea in farmacia all’Università di Pavia. Nel 1856 cominciò la sua carriera di industriale colla collaborazione di un solo operaio, gettando allora le basi della grande industria chimica in Italia e riuscendo ad affermarsi in breve, tanto da essere nel 1862 mandato dalla Deputazione provinciale di Milano in Inghilterra a studiarvi l’industria chimica. Quella visita fu una grande scuola per lui, poichè suscitò i più ardimentosi propositi che si trassero in atto coll’ampliamento della fabbrica di San Calocero. Nel 1873 fu giurato all’Esposizione internazionale di Vienna, stringendovi amicizia colle più distinte personalità della scienza e dell’industria chimica europea, e pubblicando [p. 95 modifica]una pregevole relazione che costituisce ancora oggi una preziosa monografia storica sullo stato dell’industria chimica d’allora. Nel 1882 fondava la grandiosa fabbrica di Bovisa e quando essa ebbe raggiunto un cospicuo sviluppo e grande rinomanza, intuendo tra i primi l’importanza del problema meridionale, altra grande fabbrica istituiva a Barletta. Raggiunta così una cospicua posizione, ormai prossimo alla vecchiaia sebbene ancora robustissimo, nel 1897 costituiva una Società della quale lasciava la gerenza ai figli, illudendosi di potere concedersi un pò di riposo. Ma, innamoratosi di un’idea, quella di fondare una Casa per veterani ed invalidi, alla nuova impresa dedicava tutto sè stesso.

Il Candiani, coi patrioti Amati e Bruzzesi, costituì il così detto A. B. C. della patriottica istituzione e recentemente, col suo volume intitolato: Dieci anni di vita della Casa di Turate, ha fatto un’altra opera buona ed un ricordo duraturo e parlante della sua generosità e del suo amore ai martiri del risorgimento italiano.

Nella prefazione a quel volume, la signora Ernestina Viganò Dal-Co presenta il Candiani con queste parole: “E’ un bel vecchio, quasi ottantenne, piantato ritto su due lunghe gambe che sembrano due antenne, dai capelli e baffi bianchissimi, che con umorismo egli dice scoloriti anzi tempo per le esalazioni del cloro che doveva preparare; un vecchio dall’ossatura zigomatica forte, dagli occhi piccoli, penetranti, dal sorriso bonariamente meneghino, da cui, attraverso la barzelletta, traspare la fermezza e la sicurezza dell’animo. E’ una di quelle figure, è una di quelle esistenze la sua, che lo Smiles avrebbe voluto avere per modello, per farne un tipo di self help man”.

Chi scrive ricorda con viva compiacenza la festa alla quale ebbe la ventura di partecipare, col Candiani e la sua famiglia, per la inaugurazione della Cappella eretta a Turate all’uopo di avere nell’interno dell’Ospizio il servizio religioso. Ora è da notarsi che il benemerito fondatore della Casa, compreso dell’importanza di quella cerimonia, volle raccoglierne tutti i particolari per esporli come degno complemento nelle ultime pagine del suo volume.

Così il Candiani compiva la sua opera, rivelando apertamente il suo sentimento religioso, non sopito mai nel suo cuore leale, malgrado le battaglie sostenute contro chi non avrebbe voluto l’unificazione italiana.

Poco tempo era trascorso, quando noi vedemmo il Candiani manifestare ancora schiettamente i suoi buoni sentimenti e la sua fede nelle speranze immortali. Era malato, gravemente malato e, quantunque affezionatissimo alla famiglia ed a’ suoi veterani, non dissimulava il desiderio di uscire da una vita divenuta troppo tormentosa; ma nei ricordi di tempi tranquilli, nelle memorie delle sue opere buone, nella visione de’ suoi figli che lo avevano preceduto, trovava la pace e la rassegnazione; l’uomo forte diveniva dolcissimo, si chinava a Dio, trovando in Lui il conforto supremo.

Nei giorni più tristi noi ebbimo un momento di preziosa intimità con quel caro uomo, che ci parlava di tutta l’epopea nazionale. Un accenno solo, un solo motto come per accidens sull’argomento da molti erroneamente temuto dei conforti religiosi, bastò a commovere quell’anima generosa. Da’ suoi occhi spuntarono due lacrime eloquenti e le sue labbra tutto ci dissero con un bacio amichevole; poi... ecco le sue parole: “Siamo intesi: mi mandi un sacerdote che mi dia una bella benedizione religiosa e patriottica”.

Fu una rinnovazione di tradizioni famigliari nel compimento dei religiosi doveri; questa memoria costituisca il più grande conforto dei superstiti in lacrime.

Angelo Maria Cornelio.






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