Il buon cuore - Anno IX, n. 21 - 21 maggio 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 21 - 21 maggio 1910 Religione

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Piccolo Eroe?...

(Continuazione e fine, v. n. 20).

Fra i sospetti dapprima, e poi senz’altro, fra quelli presi di mira come autentici modernisti ci fu anche Gustavo Ricci, il quale non solo non replicò nei giornali che lo attaccarono violentemente, ma neppure cedè al consiglio di amici di inviare all’autorità ecclesiastica una difesa ed una professione di ortodossia. Il semplice sospetto, o sulla virtù o sulla ortodossia d’un sacerdote, è fatale; anche più che il sospetto sull’onoratezza e sulla virtù della donna.

Subito entrano la diffidenza, la perplessità, l’avversione; e una volta che l’animo dei fedeli non ha più fiducia in lui, non lo stima più, lo evita, il suo ministero è sul fatto colpito di sterilità, maledetto. Non gli resta che rassegnarsi alla sua, così tremenda sventura, se può, cercare altro campo ove recarsi sconosciuto a lavorare.

Gustavo Ricci colpito in pieno petto, sulle prime non si fece un giusto concetto della ferita, che credette un semplice urto villano e nulla più. Ma quando si avvide di essere schivato dagli amici delle ore di fortuna e di aura, quando si vide ritirare la fiducia di molti penitenti, esonerato dall’ufficio di cappellano e di insegnante nel collegio dove era stato tanto ammirato e lodato, allora capì d’essere stato ferito a morte, per quanto la coscienza non gli rimproverasse nulla, e si tenesse pronto, quando richiesto da chi solo n’aveva il diritto, a condannare del suo passato ciò che il superiore credesse di condannare. Il superiore però non fece mai nessun passo in questo senso, nè mai ebbe a comunicargli direttamente, nominatamente o disapprovazioni rimproveri; questo lo assicurava anche più di essere innocente e si tranquillizzò sempre più. Ma era strano che si accusasse di modernismo lui, che credeva un assurdo sopprimere una gerarchia che fu voluta così evidentemente da Cristo; e un altro assurdo pretendere di intendersela direttamente con Dio tagliando fuori l’uomo che Cristo volle suo rappresentante; lui che aveva uno schifo e un ribrezzo istintivo, come d’una corruzione materiale, così della corruzione del dogma; lui che trasaliva di gioia al solo pensiero di sapersi sotto la più sublime e sicura disciplina la — disciplina ecclesiastica.... C’era da smarrirsi innanzi a così stupida accusa....

E allora chi agiva, d’onde partivano gli ordini, chi autorizzava a travolgere in una immane rovina delle persone intemerate che avevano tutto il diritto alla rispettabilità, all’azione feconda nella vigna del Signore? Era difficile dirlo, più difficile sorprendere la mano che seminava la sterilità e la morte civile e religiosa di santi sacerdoti. Chiederne spiegazioni? Nessuno n’aveva da dare, si nascondeva nell’ombra, si rimandava la responsabilità, la paternità di tanta jattura dall’uno all’altro come una palla da giuoco.

Il signor Whiteman che aveva sentito qualche cosa di tutto questo affare, e con in finito dolore aveva notato tra le vittime immeritevoli, Gustavo; non tardò a farsene dare spiegazioni da lui, molto maravigliato che non si difendesse.

― È inutile, non otterrei nulla, per quante proteste io facessi; purtroppo le apparenze sono contro di me, ed è difficile dissiparle. Occorrerebbe che mi potessero leggere in cuore, ma questo non è possibile.

― Ma a certi accusatori non sarebbe male chiedere se il rumore e la gazzarra che fanno contro i modernisti genovesi, non sia piuttosto un mezzo molto comodo per sviare l’attenzione pubblica dalle vergogne di casa loro; di casa loro che diede qualche campione al modernismo. No?....

― Lo si potrebbe — rispose calmo, ma con un sorriso di compassione Gustavo — però sarebbe nulla più che una miserabile rappresaglia.

[p. 162 modifica] ― Ah! io fremo per voi; e al vostro posto, credetemelo, getterei la tonaca alle ortiche.

― Io mai, — rispose subito Gustavo. — E perchè dovrei strapparmi io stesso dal capo la corona gloriosa del sacerdozio, per un breve sfogo di dispetto? Eppoi, farei ben ridere i miei accusatori, dando loro finalmente una prova materiale di colpevolezza che non ho, ma che essi mi attribuiscono. Per disciplina, per l’amore del sacerdozio, per coscienza, io non farò nulla di quello che la passione, un malinteso onore da tutelare, le premure degli amici mi consigliano in queste ore difficili e penose. Sarò forte abbastanza credetemelo, da ricevere la gragnuola serrata, come il ciel la manda.

E realmente si condusse così. Sicuro del buon testimonio della sua coscienza, si allontanò da tutti, dal lavoro, per raccogliersi in se stesso, confidare solo a Dio le sue pene — atroci, malgrado dicesse di non porvi mente — esalare verso il cielo l’affanno che lo stringeva da farlo morire; divorare in segreto le lacrime che avrebbe sparso suo malgrado. Dopo tutto, non aveva nessun diritto di farla da padrone nel campo altrui; era già stata un’infinita degnazione che il Padrone della mistica vigna ve lo avesse chiamato a lavorare. Ora l’istesso Padrone dichiaravagli che il suo lavoro non gli abbisognava più, sospendesse per un po’ o troncasse per sempre concedendosi il riposo; era tutt’uno; il Padrone era lui. Tutto questo però non gli impedì di disilludersi affatto delle cose umane, di disinteressarsene fino quasi al disprezzo. Tali le sue teorie, le sue regole di condotta; e conforme ne era anche la pratica. Ma stupiva di vederlo sempre sereno, gioviale, spiritoso, senza che mai si lasciasse sfuggire una stilla di tanto fiele che la sventura, non la sua volontà, gli andò accumulando nelle più cieche profondità del cuore; senza che andasse mai a riempire di querimonie e di piagnistei il mondo, per mendicare compatimenti o una levata di scudi in suo favore. Gli era permesso soltanto di celebrare, e di aprir bocca in riti di ministero ove l’obbligatorietà della formola liturgica non lasciasse adito a dire del proprio; pel resto c’era il bavaglio alla sua bocca. Chiunque, anche l’ultimo arrivato, benchè bacato di colpe che fecero gemere la Chiesa e mormorare i fedeli, gli era anteposto pur di umiliarlo. E allora, a raccogliersi anche più di prima in se stesso, a ispendere il suo tempo nello studio, in visite alle magnifiche chiese della città dove il cuore e l’intelligenza trovavano degno pascolo di pietà e di arte.

E avrebbe continuato così per anni, se avesse potuto contare a modo suo sulla sua salute. Che terribilmente scossa per contraccolpo dell’urto brutale ricevuto nella parte più delicata e sensibile dell’animo, cominciò man mano a indebolirsi. Un lieve pallore dapprima, indi la sparizione del roseo colore onde erano costantemente soffuse le gote ancor tenere come di bell’adolescente, indi un dimagrare sensibile che faceva spaventosi progressi, un languore, una prostrazione di forze che nulla valeva ad arrestare; e quasi ciò non bastasse, un crescente abbandono, una desolazione intollerabile. Più che tutto oramai Gustavo aveva bisogno di conforto

morale; tanto il corpo non sarebbe guarito più. Ma fu fortuna per lui che qualcuno vegliava, ed era in grado di fargli quest’ultima carità. Quando Abelardo affranto dal dolore si vide duramente respinto anche dal Santo di Chiaravalle, incontrò Pietro il Venerabile per usargli una forma di carità più umana, per essergli il buon Samaritano....

Il signor Whiteman credette di intervenire adunque, portò senz’altro il povero malato alla sua palazzina di Via Assarotti, affidandolo al medico di Casa colle più affannose raccomandazioni di curarlo, di salvarlo. Ma dopo alcuni giorni di ben attenta diagnosi, il responso della scienza condannava quel misero a una prossima fine. La violenza della ripercussione della sventura, sopra una fibra, in origine molto resistente vigorosa a dir vero, ma ora già troppo minata, non lasciava più speranza; tanto più che anche il cuore era molto in disordine.... Si poteva aspettare la catastrofe a breve scadenza.

Edith prese subito il suo posto di Suora in casa, e di infermiera anche per lui; e a tutta prima non seppe dissimulare una segreta soddisfazione di vedere alla sua mercè, suo in certo senso, chi avrebbe voluto suo in altri tempi e per altra ragione. Ma in quale stato, mio Dio! — Ecco un secondo cliente — disse scherzosamente; — si vede che la mia Casa di salute prospera. — E davvero l’assistenza sua era scrupolosa, zelante, più che d’una infermiera di professione, come di una madre.

Un giorno arriva alla palazzina un messo della famiglia vescovile annunciando il desiderio del Prelato di venire a far visita a Gustavo. Il signor Whiteman nel comunicarlo all’ammalato gli si mette al capezzale brusco e acciliato, per sentire da lui ciò che vorrà rispondere a quella che riteneva impudente provocazione, uno scherno crudele.

― Ma venga, anche oggi — risponde premuroso Gustavo. — Qual piacere più gradito di vedermi ufficialmente riconosciuto sempre unito alla Chiesa, benedetto dal mio superiore?....

― Siete ben buono voi; dopo che vi abbandonò alla rabbia della tempesta, quando era dover suo di strapparvi ad essa e proteggervi, difendervi; dopo che non mosse tampoco un dito in vostro aiuto, una cosa solo restava a fare a parer mio; rispondergli che non si incomodasse, al men peggio. Per comto mio quando lui entra in casa, io vado fuori, parola d’onore.

Ma non fu necessario questo affronto ad un uomo che proprio non lo meritava. Perchè, il giorno stabilito per la venuta del Vescovo, il povero ammalato peggiorò repentinamente, il cuore a mala pena compiva le sue funzioni indispensabili alla vita; il respiro e il polso mancarono.

― Assassini, me l’avete ucciso!.... — gridò, il signor Whiteman con gesto tragico verso persone invisibili; — ora sarete contenti della vostra opera; maledizione....

― A nessuno la maledizione, ma solo il perdono — disse con un fil di voce Gustavo; e l’occhio brillò ancora di luce mite; — perdono... sull’esempio di Lui... che in croce invocò perdonò ai suoi carnefici... — A [p. 163 modifica] questo punto, colto da una recrudescenza del male e da un ultimo assalto del disordine di cuore, capì di mancare; strinse nervosamente il Crocifisso, tentando con uno sforzo supremo di appressarlo alle labbra; ma la mano cadde pesante e inerte; fulminato, mandava un gemito e spirò, componendo subito il volto ad un sorriso leggero, dolce, quasi traccia lasciata dallo spirito gioioso del suo incontro faccia faccia con Cristo.

Potete immaginare la costernazione di tutta la casa a questo drammatico per quanto atteso scioglimento. Era morto un santo però.... Ma quasi non bastasse ciò che aveva e detto e fatto, a meritarsi una simpatia che non svanirà così presto, in una lettera da aprirsi dopo la sua morte, Gustavo legava la sua magnifica raccolta di libri a Edith come ricordo, come ringraziamento di tante finezze usategli, come tesoro nascosto dal quale togliere lezioni di sapienza vera e di felicità non mentita, e il segreto di diventar santi; unica cosa che valga la pena di vivere e di patire. E al sig. Whiteman lasciava a ricordo, il suo dono, il calice d’oro, col motto: «vuoto d’amarezze». Esatto; quell’angelo di perdono, quel martire del dovere, non aveva egli nei giorni ultimi della sua vita tribolata, accostato ogni mattina a quel calice, le labbra assetate di patimenti, e trangugiato fin l’ultimo resto della feccia amara?

Questo era tutto il testamento olografo di Gustavo. Ma, rovistando tra le poche carte di nessun interesse che giacevano sotto e sperdute, l’occhio cadde su un quaderno sgualcito, con tracce di lacrime cadutevi, e con tutti i segni d’aver servito a ripetute letture. Era una specie di Diario degli ultimi tempi di vita del povero martire, testè spirato. Con viva curiosità e come rattenendo il fiato, fu aperto e scorso di fuga. Mio Dio, che rivelazione!

In capo, tutta una pagina scritta con caratteri decisi e relativamente calligrafi, che portava l’intestazione «La volontà di Dio» trattava del dovere d’inchinarsi a quella forza suprema; della ragionevolezza, dell’interesse anche, per quanto potesse costare.

Nelle pagine seguenti, c’era un resoconto di quanto Gustavo aveva fatto per tradurre in atto le sue belle teorie. La scrittura incerta, tremante, lasciava indovinare che le note fissate su quel quaderno tutto sciupato, erano cadute da una penna che non obbediva più agli entusiasmi d’un tempo, e che erano destinate a ripetuta lettura per trarne chissà quali lezioni. Trovò infatti questa espressione: «Orsù, povero Gustavo, leggi le tue prodezze, ciò che hai potuto fare da te, e quante volte la carne fu debole, nonostante le baldanze dello spirito».

Stralciamo di qua e di là, certe note caratteristiche:

«Dal 20 al 27 maggio il termometro del coraggio discende sempre e mi prende uno sconforto da cui non riesco a liberarmi....

«30. La munizione del coraggio si esaurisce spaventosamente; la mia cameretta echeggia di gridi strazianti che invocano una tregua o un aiuto.

«31. Giornata disastrosa; tutta Genova è in festa; le campane da cento torri diffondono note giulive per tutti, ma non per me. È orrendo non vedere più

neppur il viso dolce della celeste Madre, sorridermi come prima. Cosa ho fatto perchè mi si tolga anche questo ultimo conforto? Il cuore non regge più, mi si spezza....

«1, giugno. Tornato da una lunga passeggiata a S. Francesco d’Albaro, stanco, niente distratto e sollevato dal peso che mi opprime, tento invano di soffocare una voce interiore, che insistente, maliziosa dice: È inutile, la tua è una di quelle rovine che non ammettono più riparo.

«10. Strano questo abbandono di tutti... come mai la fraternità di anime è intermittente, e la corrente stabilita tra cuore e cuore si interrompe così facilmente sospendendo le comunicazioni tra i diversi membri della Comunione dei Santi? Piango mio malgrado; è una debolezza indegna d’un cristiano; ma non so, non riesco a padroneggiare l’emozione e il bisogno che la natura ha di scaricarsi.

«13. Giornata di tenebre dense, palpabili, che mozzano il respiro; è una giornata di suprema umiliazione!... Con ambo le mani tengo stretto il mio coraggio, e protesto che non la mia, ma la volontà di Dio deve compiersi. Reagisco contro la tentazione, ma lo potrò sempre? non soccomberò? O giorni luminosi e ridenti come la primavera, o primi anni del mio sacerdozio, profumati dagli effluvi di tutta una misteriosa natura in fiore, dove siete andati? Quando baldo del favore degli uomini e del vigor di vita giovanile, correvo fidente incontro all’avvenire sfidando difficoltà, ire e persecuzioni, sognando solo conquiste di anime, beandomi in un miraggio che era così bello a vedersi? Ah! piangi, piangi, sventurato Gustavo; la visione sparì; il bel passato sprofondò nel nulla; ed ora, schiacciato sotto il peso d’una muta ed inesorabile riprovazione, smarrito d’ardire, malconcio e pesto e sciupato come un fiore sotto l’incessante diluviare della pioggia, dai pure il bello spettacolo a te stesso ed agli altri....

«20, novembre. Mi opprime il rimorso di aver forse per amore di castità, violata la castità della carità. Respinsi duramente Edith con acerbo rimbrotto; ella forse vinta dalla pietà e tenerezza di donna e senza malizia mi baciò; le dissi che il sacerdote non bacia che i candidi lini e il gelido marmo dell’altare e non riceve baci che dalla Chiesa e da Dio. Lei confusa, atterrita come di un sacrilegio pianse inconsolabile.

«26, dicembre. Come al solito, ebbi dalla Superiora del Collegio dove fui cappellano e insegnante, gli augurii di Natale e cento proteste di stima e d’amicizia. Stavolta risposi agro e crudele forse. Che maravigliavo d’un tal linguaggio; che il concetto che avevo io della amicizia era ben diverso dal suo; che quando non si ha il coraggio di sostenere e confessare innanzi a tutti un amico che pur si ama e si stima in segreto e quando non c’è pericolo di compromettersi, bisogna aver l’altro coraggio, di non illuderlo invano, di abbandonarlo al suo destino. Ma forse ho agito per uno sfogo di malumore anzichè per amor di giustizia e verità.

«27. Oggi finalmente posso dire di essere davvero rassegnato. Mano divina che pesi dura sul mio capo, e mi percuoti senza pietà, io ti riconosco ai fulgori celesti che traspaiono, ti bacio, ti adoro....» [p. 164 modifica]

E altro ci sarebbe a spigolare che certo rivelerebbe tutto lo scempio che il dolore fece di quell’anima grande. Tuttavia può bastare a darne una pallida idea, che era il nostro intento.

Il signor Jonh Whiteman, dopo tanto caso, non volle più oltre restare in Italia e sull’incantevole sponda del mare di Genova; quella terra, piena di odiose infauste memorie, non era più per lui; e tornò nella sua terra d’origine, in Inghilterra, portando seco la soave immagine di Gustavo Ricci da lui amato come un figlio, e il testimonio d’una buona azione compiuta.

Londra, 25 gennaio 1910.

Augusta Maxwel-Hutton.

UNA FESTA DEL CUORE


Non sapremmo sotto altro titolo ricordare la cara festività che testè allietava la dolce terra natale dell’angelico Luigi Gonzaga, per il fausto Giubileo della contessa Filomena Cantoni, Prelata del nobile Collegio delle Vergini di Gesù in Castiglione delle Stiviere.

Furono infatti i cuori memori e grati dei Castiglionesi che le portarono numerosissimi doni, tra i quali degni di particolare mensione un magnifico quadro di S. Carlo Borromeo regalato dal Clero della città, ed una preziosa croce d’oro offerta dalle signore, insieme ad artistica pergamena recante i nomi gentiii delle donatrici.

E del cuore tessè un ispirato elogio la contessa Rosa di San Marco, con parole commoventi che, applauditissime, strapparono agli astanti soavi lacrime di tenerezza profonda.

Alla nobildonna festeggiata giunsero lettere e telegrammi a fasci. Notevolissimo il lusinghiero messaggio del Console francese, che qui riportiamo.

Comité Central de la Colonie Française de Milan et de la Lombardie.

Milano, 13 aprile 1910.

All’egregio signor

Prof. Sebastiano cav. Battaglia

(Castiglione delle Stiviere)

La Colonia Francese di Milano alla quale son note le benemerenze della nob. Madre Prelata Filomena Cantoni, che con tanta abnegazione e patriottismo si distinse ancora giovane nel soccorrere i feriti nella battaglia di Solferino, aveva l’intenzione di partecipare alla dimostrazione di stima e di affetto che Castiglione prepara, mandando una medaglia ricordo da consegnarle solennemente in nome della Francia.

In questo tempo furono fatte le pratiche necessarie perchè detta medaglia fosse decretata dall’Associazione nazionale «Le Souvenir français» onde dar maggior rilievo alla testimonianza di riconoscenza che la Colonia francese di Milano intende dare alla benemerita festeggiata.

Pur troppo con la persuasione che la Festa in suo onore dovesse aver luogo all’epoca della commemorazione, non avevamo fatta premura e perciò siamo spiacenti di non avere ancora conoscenza della decisione del «Souvenir français» che non dubitiamo sarà favorevole ad una speciale ricompensa per chi si distinse nel lenire le sofferenze dei combattenti feriti per una causa santa.

Sarebbe stato caro al nostro Presidente di poter assistere alla festa in onore della signora Madre-Prelata Cantoni onde esprimerle la riconoscenza, l’ammirazione dei nostri connazionali. Non potendo egli assentarsi in questi giorni, preghiamo la S. V. Illustre di essere l’interprete dei sentimenti della Colonia francese di Milano, ai quali speriamo poter aggiungere prossimamente un ricordo tangibile coll’invio della decretatale distinzione.

Colla massima stima

Dev. mo suo
Gondrand Francesco.


ROSA MISTICA

Rideva aprile; bene un zefiretto
Con le tepenti piume
Del sole al blando lume
Nel mio giardin destava ogni fioretto.


Sbocciò il geranio, il giglio si dischiuse,
Pudica la viola
Vestì la bella stola
E intorno intorno la fragranza effuse.


In quella turba di novelli fiori
Ecco brillar regina
Sul gambo porporina
Una rosa gentil, idol de’ cori.


O meraviglia! i petali lucenti
in note d’ôr Maria
Portavan tutti, e uscìa
Da quegli il nome in amorosi accenti.


Mi fo’ vicino tremebondo il piede
E in petto il core anelo;
Quand’ecco da lo stelo
Senza spine una voce si mi siede;


«Triste rampollo di radice infetta
«Nasce chi d’Eva è figlio:
«Luce di questo esiglio
Senza labe Maria fu sol concetta.

G. B.



Ricordatevi di comperare il 15.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che usci in questa settimana.



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Un viaggio botanico

sui monti di Kai-Chan1

Agosto-Settembre 1909.

Relazione mandata al distinto botanico sig. C. Sprenger di Napoli e da lui comunicata al «Bollettino dell’Associazione Nazionale di soccorso ai Missionari Italiani».

27 Agosto — Fo i preparativi per la partenza. Dovendo andare per vie e in luoghi sprovvisti di ogni cosa, mando a comprare nella città di Fan-tceng alcune scatole di pesci e di latte, un paio di scarpe di pelle e un cappello di paglia alla giapponese. Al vascolo già pronto da un altro fratello per fare delle raccolte più abbondanti.

Con me non può venire il mio erborizzatore ordinario, perchè si trova sui monti dell’Ou-tan-chan: in mancanza di costui e di una persona pratica qualunque, fisso un giovane di buone disposizioni che spero iniziare nell’arte della botanica, e che intanto mi farà un doppio servizio: porterà cioè una parte del bagaglio e, arrivati sul luogo, raccoglierà sotto la mia direzione.

Con lui vengono il mio servo ed il mio cuoco, quest’ultimo più come persona di fatica che come pratico di cucina. Egli, infatti, sa tanto di gastronomia quanto di botanica, ma in compenso ha buone spalle, e nel momento presente farà buon servizio con quelle. Il mio servo invece, avendo più volte assistito me ed i miei erborizzatori, potrà darmi un po’ di rinforzo con una certa competenza. È appunto per lui che ho fatto l’altro vascolo.

Alla sera, quando già tutto è pronto, tra il nuovo giovane e il cuoco si attacca una disputa che va a finire con una dichiarazione di sciopero; e ci vuole tutta la mia autorità e tutto il mio sangue freddo per farli rimpaciare e disporli nuovamente ad affrontare i 150 km. di via che debbono fare con una trentina di kg. sul groppone. Passo più della metà della notte nel terminare i preparativi e nello sbrigare le altre cosette in pendenza e solo al tocco posso andare in braccio a Morfeo. Nelle poche ore di riposo sogno monti, foreste, fiori, lupi, capre selvatiche e.... Lei, accosto a me, tutto occupato nel cercare a destra e a sinistra, tra le selve e i campi, lungo le siepi e le vie.

28 Agosto. — Mi alzo quando ancora il gallo vicino non si è svegliato a salutar l’aurora, e dopo il servizio religioso e la colazione ci mettiamo in viaggio, io a cavallo, e gli altri dietro a piedi. Oggi dovremo fare 40 km. metà dei quali in piano e il resto a traverso colline basse e spoglie di vegetazione.

Dopo 20 km. di via, e circa a mezzogiorno, arriviamo ad una mia cristianità dove si fa un alt ed uno spuntino.

È caldo afoso e soffocante.

Al neo erborista si sono infiammati gli occhi, e non può più seguitare il cammino. Lo rimando perciò indietro dicendogli che mi raggiunga, se sarà guarito, nella città di Nantchang, e in suo luogo invito un coolie (portatore) provvisorio per fare l’altra metà di viaggio fino al paesetto di Ou-kia-ki dove passeremo la notte. All’arrivo in detto paese lo troviamo sottosopra per una notizia recata da alcuni mulattieri di ritorno da Siang-Iang. Si dice che un banchiere di Fan-tceng abbia chiuso bottega per fallimento, e siccome molti sono in possesso di biglietti della sua banca, così quella notizia li ha toccati nel vivo e li mette di cattivo umore. La notizia che l’Imperatore della Cina si fosse suicidato non avrebbe fatto tanto fracasso. Io li rassicuro alla meglio, dicendo che la notizia non è vera o almeno assai sospetta: e il paese rientra lentamente nella calma.

29 Agosto. — Ci riposiamo una giornata per passare la domenica, e siccome il mio cuoco è già stanco parecchio, assoldiamo due portatori nuovi, uno dei quali mi seguirà durante tutta la gita qualora l’ammalato degli occhi non riapparisca.

30 Agosto. — Ci alziamo assai per tempo ma quando siam per partire nasce la questione se per la via ci siano o no locande: chi dice di sì e chi di no, per cui pensiamo bene, oltre una buona colazione, provvederci ancora di qualche panino. La via, appena usciti dal paese, comincia ad internarsi nelle montagne della Sottoprefettura di Nan-Tciang, e debbo fare molta parte del cammino a piedi.

Oggi è caldo fin dal mattino e non spira un alito di vento. Verso le 8 siamo alla sorgente del Long-Wang che io già battezzai come Mosè per fontana della contraddizione.

Infatti, intorno a quella, molto tempo addietro, si litigò e si sparse del sangue tra due famiglie che volevano ciascuna tirar l’acqua al proprio mulino. La questione durò anni ed anni, ma finalmente intervenne il mandarino che ordinò con felice pensiero di fare una cateratta di pietra, praticarvi due fori eguali e di dividere l’acqua contrastata fra i due contendenti. La cateratta è ancora lì ricoperta di alghe e di muschi, dei quali prendo un pizzicotto come ricordo.

Uno dei due portatori mi fa osservare che il pertugio di destra lascia scorrere un ruscello più abbondante dell’altro. Ciò è vero e la ragione di questo potrebbero dirla il mandarino o lo scarpellino, o forse l’uno e l’altro, se a quest’ora non fossero già da qualche secolo in compagnia di Simon Mago e dei suoi miseri seguaci.

Alle nove si trova una locanda ed entriamo per mangiare un boccone, ma fuorchè alcune pere del Hon-nan, che un rivenditore ambulante, che si trova lì per caso, ci dà, non c’è altro. Proprio nel centro dell’albergo la padrona si occupa a far girare la mola da un asino col quale dividiamo la sala da pranzo!

Senza essere salutati e senza salutare ripartiamo, e alle 10 circa siamo ad un paesetto dove è giorno di mercato, e dove possiamo finalmente riposare un po’ e mangiare una scodella di pessima pasta, un panino e qualche Kaki mezzo acerbo.

Il caldo è insoffribile e si gronda sudore, benchè fermi e riparati all’ombra. Verso le due comincia a [p. 166 modifica] formarsi un temporale che per buona sorte va a scaricarsi al di là della via che ci resta da fare. Per timore di essere sorpresi dall’acqua a metà di cammino sollecitiamo il passo e siccome la pioggia caduta ha rinfrescata l’aria, così il resto del viaggio riesce meno incomodo, e prima che il sole tramonti arriviamo in vista delle mura di Nan-tchang.

Quando siamo alla porta orientale per cui si deve entrare, la troviamo ingombra di gente come in occasione di qualche gioco o di una sommossa: uomini, donne e soprattutto ragazzi intenti a guardare alcuni satelliti in uniforme che preparano all’aperto un tovolino e altre cose che io mi immagino debbano servire per le constatazioni formali di qualche omicidio solite a farsi dall’autorità, tantopiù che, entrato in città, sento il rumore dei colpi del tam tam che si avvicinano, e che pare annunzino l’arrivo del mandarino; ma, cosa insolita, ai colpi dello strumento sonoro di ottone fa seguito la musica vispa delle zampogne che non sogliono far parte del corteggio mandarinale. Infatti non è il mandarino, ma l’idolo Tceng-Hoang che viene portato in processione fuori della città sopra una seggiola sghangherata e accompagnato da pochi straccioni portanti delle vecchie bandiere. La cerimonia è officiale, e ciò spiega la presenza della gente di tribunale.

Nan-Tchang (m. 540) o «La bella del mezzodì» è una città di terzo ordine, o sottoprefettizia, posta sulla sinistra del fiume Jen navigabile da piccole barche da qui fino a Tao-kou (110 km.) dove si scarica nel Siang Kiang o Han Kiang. La città non offre nulla di particolare in fatto d’arte, ed il suo commercio è minore del borgo grande di Ou-ngan yen, lontano di qui circa 32 km. Ma per il botanico la Sottoprefettizia di Nant-chang offre delle attrattive singolari, perchè all’occidente della città incominciano alle catene di montagne che, brulle da prima, si vanno a poco a poco coprendo di foreste che la mancanza di vie e la lontananza da grandi centri fecero fino ad oggi sicure dalla terribile roncola del cinese. Dentro a queste montagne nasce e scorre il fiume suddetto che bagna la città, e lungo quello è la via nazionale come dicono qui, o, come diremmo noi, il viottolo che mette in comunicazione il Hupé col Set-choan.

31 Agosto. — Per questo viottolo, ora a cavallo, ora a piedi, cominciando l’ascensione di Kai-cham. Non ci siamo provvisti di nulla perchè il mio uomo, che dice di essere pratico di questi luoghi, ce li descrive come seminati di hôtels pieni zeppi di ogni ben di Dio. Ma presto cominciano a capire che quelle parole furono una santa astuzia per portare qualche libbra di meno addosso. Le locande ci sono, ma piene di vento e di pulci, e al tocco siamo sempre digiuni e quel che è peggio senza speranza di trovare una miserabile focaccia di farina per far cessare i ruggiti terribili del corpo affamato. Visto adunque che la faccenda si fa seria risolviamo di fermarci al primo albergo o capanna che sia, risoluti a mangiare un boccone e a foraggiare il cavallo a qualunque costo.

Che questa gente dei campi di manna caduta dal cielo come gli Ebrei, io non lo credo, e perciò in casa ci deve avere pure qualche cosa. È questo qualche cosa che noi vogliamo assolutamente. Per buona sorte il padrone del nuovo albergo non si fa molto pregare: egli è amico di un nostro amico e volentieri impasta un po’ di farina, fa una grossa scodella di gnocchi per uno, e dà al cavallo una libbra o due di granturco.

Siamo a 550 m. di altezza, e la strada si è già avanzata per una ventina di Km. nell’interno dei monti senza perdere mai di vista il fiume che dobbiamo attraversare continuamente, il cavallo a guado e gli uomini sopra ponti fatti di tavole strette che posano su cavalletti di legno piantati nella rena del fiume. La corrente è assai forte, e già il cavallo è stato trasportato una volta da quella, e si è salvato a nuoto.

Mentre mangiamo, una donna attraversando un ponte cade nel fiume, ma è subito salvata da un giovanotto che le stava dietro.

A pochi passi di qui, mentre vo a vedere un piccolo mian, trovo, per la prima volta, i Long-Tchao-hoa «artigli del dragone» dei quali raccolgo le cipolle.

Passiamo la notte in una casa cristiana a circa la metà di via tra Dan-Tchang e Kai-chan.

Quassù le donne fumano come gli uomini: già ne abbiamo viste altre lungo la via, ed anche qui la padrona di casa una vedova di circa 60 anni, accende la sua lunga pipa e si mette a conversazione con i miei uomini con una certa libertà ignota nel territorio di Siang-Jang. Ci racconta come al tempo in cui in Kai-Chan scoppiò la rivolta contro i cristiani e si proibì a tutti gli alberghi di alloggiarli e di dar loro da mangiare, essa, ancora pagana non si lasciò intimorire e accolse più d’una volta i cristiani perseguitati e diede loro vitto ed alloggio. Passata la bufera, le mori il marito e poichè i suoi parenti la volevano vendere per impossessarsi del poco denaro che aveva, essa si fece cristiana, e così nessuno le diede più fastidio.

Ordinariamente il Missionario di Nan-Tchang si ferma qui nell’andare a far la visita della cristianità di questi monti, e la buona vedova ha sempre pronta una polentina di granturco e qualche altra erba per giunta, e soparttutto un piatto di buon viso.

Il Signore che ha già ricompensato questa nuova Raab della sua ospitalità verso i cristiani perseguitati, le renda anche mercede per il buon cuore e per l’attenzione di cui circondò noi, che altrimenti non avremmo saputo dove andare a passare la notte.

1° Settembre. — Prima di muoverci prometto al piccolo garzone della vedova 5 centesimi per ogni bulbo di giglio che mi avrà trovato al ritorno, e senza far colazione partiamo.

Incomincia la salita del monte Oupan chan, dalla cima del quale (700 m.) si gode un aspetto veramente pittoresco del fiume che abbiamo lasciato e che si mostra come una lunga e tortuosa striscia di argento laggiù.

(Continua).



Il Municipio di Milano ha ordinato 150 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI.



Note

  1. I monti di Kai-chan si trovano a Ovest della città di Siang-Iang. Questa città, poi, può trovarsi su tutte le carte della Cina nel centro del Hupé sul 32° grado di latitudine.