Il buon cuore - Anno XI, n. 05 - 3 febbraio 1912/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
Come si fa la tratta degli schiavi
in Tripolitania e in Cirenaica
Quando mi han condotto in una sala linda e spaziosa, tutta piena di aria e di luce, e mi han pregato di attendere il padre Apolloni, io che mi andavo figurando nella fantasia questo tipo di missionario e di educatore non me lo immaginavo molto differente da quello che egli è in realtà. Non sbaglio dicendo che egli è la simpatia personificata: non molto alto, fisonomia aperta e piacevole, occhi di un celeste chiaro, mobili e specchio sincero di tutto quello che si agita nell’anima di questo uomo, barba castana, folta e fluente fino al sommo del petto. Egli mi viene incontro, tendendomi la mano sorridente e subito mi domanda se abbiamo notizie dei suoi confratelli e dei suoi figlioli — com’egli chiama i suoi schiavi riscattati — dai nostri corrispondenti. Alla mia risposta negativa, leva sospirando gli occhi al cielo, esclamando: — Speriamo in Dio! — e poi mi domanda a che debba ascrivere la mia visita.
— Ecco: io desidero saper da lei che da ben otto anni esercita il suo apostolato d’amore a Bengasi, qualche cosa circa la schiavitù che si dice regni ancora in quelle regioni.
- La piaga della Tripolitania.
— Altro che regnare, signor mio! E’ la piaga di quelle regioni: là si esercita la schiavitù con quella stessa forma con cui si esercitava secoli fa. Non è pubblica, è vero, ma appunto perchè clandestina i poveri schiavi vanno soggetti ad ogni sorta di rigori, i più eccezionali, ad ogni specie di sorveglianza anche e il più delle volte armata.
— E chi è che esercita questo commercio infame?
— Sono i mercanti arabi della Cirenaica e in ispecial modo di Bengasi che guidano le carovane che si recano nel Wadai, nel Sudan, portando cotoni, chincaglierie, zucchero, vetri, fil di ferro che poi scambiano con avorio, penne di struzzo... e schiavi.
— Ma le autorità permettono un simile commercio?
— Le autorità? Ma le autorità sono le prime a vendere e a comprare schiavi e non solo permettono, ma esercitano il mestiere e ci guadagnano sopra. Vede? uno dei più forti incettatori di negri è il sultano del Wadai il quale è andato al potere per gl’intrighi e per le mene dei mercanti arabi che naturalmente vogliono in quei posti delle persone che siano d’accordo con loro e che non disturbino la loro professione.
— E di che religione sono questi incettatori di carne umana?
— Son musulmani: tutti musulmani, senza distinzione.
— E sono molti gli schiavi che vengono normalmente scambiati?
— Un’infinità. Il mercato di Abeker, la capitale del Wadai è sempre rigurgitante di schiavi. In massima parte sono ragazzi e fanciulli: uomini e donne in età già avanzata non s’incontrano che raramente. Essi sono legati gli uni agli altri con delle lunghe catene, anche i piccolini che non sono davvero in grado di fuggire e così sono esposti in vendita al migliore offerente. Ed è straziante vedere questi mercati di carne umana! vedere quei poveri esseri, anche loro creature di Dio ammonticchiati gli uni sugli altri, accoccollati in terra, i più con tracce di lividure su per la vita; vederli contrattare così freddamente, cinicamente come si trattasse di pecore o di buoi, vederli passare rassegnati dalle mani di uno a quelle di un’altro padrone, senza una parola di ribellione, senza un lamento, ma solo con un lampo di ferocia negli occhi mobilissimi e lucenti. Creda pure che è uno spettacolo che stringe il cuore e che commuove anche il più duro degli uomini: non quelle belve sotto aspetto umano. E talvolta accadono delle scene dolorosamente tragiche. Mentre la mercanzia umana è così allineata sulla piazza del mercato, lei vede in un certo punto un ondeggiar di gente, un trambusto insolito, ode delle grida rauche, minacciose. Non ha tempo di domandarsi che cosa è mai, che un uomo o una donna, lacero, affaticato, affannato, con su tutta la persona adusta la traccia del lungo cammino fatto si scaglia, si avventa contro uno della fila lo abbraccia, lo bacia, lo stringe ripetutamente al seno, carezzandolo e chiamandolo con i più dolci nomi. Forse è il padre, la madre, il fratello; certo uno della famiglia. Tutta la fila non si scompone: è abituata a questa scena che così spesso e sempre così dolorosamente si ripete. I mercanti arabi accorrono, afferrano il nuovo arrivato, gli domandano che cos’ha. — Rendetemi mio figlio, mio fratello! — esso grida — Voi me l’avete rubato! Rendetemelo! — Uno non pratico aspetterebbe chissà quali proteste, chissà quali minacce da parte degli arabi: invece essi freddi senza scomporsi, con una sola parola, agghiacciano ogni grido di ribellione nella gola del disperato parente.
— Noi l’abbiamo comperato!
E’ inutile ogni recriminazione: essi l’hanno comperato: essi perciò hanno l’appoggio dell’autorità: e l’autorità difende le proprietà altrui. Allora non resta al mal capitato che contrattare il proprio sangue: dare buoi, vacche, pecore se li ha, in cambio del figlio o del fratello che vuole riscattare. Se però costui nulla possiede e se il capo di mercanzia promette una buona vendita allora è inutile scongiurare: gli arabi non cedono: al poveretto non resta che dare allo schiavo il bacio dell’addio e lasciarlo proseguire per il suo destino.
- Episodî pietosi.
— E mi dica, padre, questa tratta di schiavi come viene esercitata?
— Ci sono diversi sistemi che ora le descriverò. Il più comune è questo. I capi delle carovane si fermano in una data regione per qualche tempo ed essi stessi formano le razzie: hanno a tal uopo assoldata ai loro ordini una carovana speciale di manigoldi pronti a tutto, che, per quei pochi denari e quella manciata di doura che hanno in cambio dei loro servizî, spargono lutto e desolazione dovunque. Questi carovanieri rubano appena gli si presenta il destro: per le vie, pei campi, lungo le rive dei fiumi: se incontrano resistenza, ricorrono alle armi con la massima indifferenza. Inoltre questi capi di carovane hanno degli agenti locali che sono dei mori stessi i quali esclusivamente rubano ragazzi e ragazze e li portano al mercante che dà in cambio di questo lavoro una molto tenue ricompensa. Queste nuove prede vengon rinchiuse nei fonduchi o magazzeni per cotoni, zuccheri, fucili ed altro, vengon divise in due recinti separati, uno pei maschi ed uno per le femmine e così attendono il giorno in cui la carovana si muoverà verso il deserto. Ma non solo alla forza ricorrono per fare nuovi acquisti: si giovano anche e molto dell’astuzia. So che mentre alcuni di questi mercanti stavan sulla piazza del mercato passò una ragazza alta e robusta che poteva essere venduta per un buon prezzo. Un mercante allora le fece sdrucciolar nelle mani una moneta pregandola di andare nel fonduco a prendere certi oggetti che diceva di aver lasciati. La disgraziata andò senza accorgersi che un brutto ceffo la seguiva: entrò nel magazzino ma non ne riuscì più: era stata messa a far parte della carne umana che si doveva vendere. Un bambino moro che noi abbiamo ora a Bengasi nel nostro istituto antischiavista della missione dei Giuseppini faceva, senza volerlo, il mediatore di schiavi: egli veniva trattato molto bene dal padrone ed era stato istruito ad invitare i bambini che incontrava e seguirli presso il suo signore: naturalmente quei bimbi non rivedevano più le loro case.
Altro sistema d’incettazione di schiavi è basato sull’assalto a mano armata che i carovanieri danno ai villaggi designati. E’ questa una vera distruzione: quei pirati brucian le capanne, uccidono non solo chi oppone resistenza ma anche chi non è, per la età, adatto ai loro scopi e rubano a man salva quanto gli può riuscire utile. Così soltanto si spiega la sparizione repentina di alcuni villaggi, oggi fiorenti e popolosi, domani ridotti ad un cumulo di cenere fumante. Nella nostra missione dei Giuseppini a Bengasi noi abbiamo due ragazze e due ragazzi che furono così tolti ai loro parenti ed alle loro capanne sudicie, è vero, ma che essi rimpiangono sempre e sempre ricercano con una vana nostalgia nel cuore.
Il più grande razziere di tutta la regione è il Sultano del Wadai, di religione mussulmana. Esso fa addirittura delle spedizioni militari per avere gli schiavi e, una volta ottenutili, prima sceglie i migliori per sè e poi vende gli altri ai carovanieri. Se questa razzia militare si svolge nell’interno del sultanato non c’è mai spargimento di sangue, poichè i negri non vedono in questo che la materializzazione del dominio che il Sultano esercita su di loro: essi piegano il capo taciturni e seguono i loro rapitori, senza neppur lontanamente pensare alla ribellione: se poi la razzia si svolge fuori del sultanato allora lo spargimento di sangue è inevitabile. I negri che sanno di non aver nulla a che fare col sultano che li vuol rapire, si ribellano: ma i soldati sono armati di tutto punto e non ascoltano ragioni: fanno fuoco e ottengono così con le cattive quello che non si vuol loro cedere con le buone. La maggior parte degli schiavi sono presi così. Vengono anche costoro messi nei recinti e quivi attendono la partenza della carovana. Il viaggio pel deserto è una via Crucis per questi poveri esseri: nessuno di loro, anche se preso piccolino, ha dimenticato gli spasimi della sete e le scudisciate di quegli aguzzini. I più piccoli, quelli cioè che proprio non sono in grado di camminare, vengono rinchiusi a due o a tre insieme in alcuni sacchi e disposti sui cammelli oppure vengono affidati alle cure delle donne. Essi procedono per il deserto in lunga fila silenziosa e triste, a passo lentissimo, bagnando la strada di sudore e di sangue. Vanno sempre legati gli uni agli altri e solo dopo nove o dieci giorni di cammino, quando cioè sono tanto lontani dalle terre abitate da dover lasciare ogni speranza di riguadagnarle, vengono disciolti per poi essere nuovamente legati quando cominciano ad entrare nelle oasi di Couffra, la sede del gran capo dei Senussi. Il loro cibo è composto di poca doura e di ancor più pochi datteri: pochissima acqua deve loro bastare per dissettarsi. Ed appunto in causa di questo straziante martirio essi soffrono quanto a corpo umano è dato soffrire. Spesso alle loro richieste di acqua si risponde con le scudisciate e se, affranti dalla stanchezza e dalle sofferenze, qualcuno si piega e cade contorcendosi e invocando soccorso, costui viene disciolto dalla catena e abbandonato a se stesso in quello sterminato deserto di sabbie infuocate dove rimarrà certo vittima dei propri mali o delle unghie del leone. Una giovine che abbiamo nel nostro istituto racconta spesso l’avventura toccata ad una sua compagna di viaggio: ma, raccontando, i suoi occhi par che riveggano la scena macabra ed un tremito nervoso le percorre tutto il corpo come inorridita e chiude gli occhi come se più non volesse vedere quell’opera nefanda di umana malvagità. Essa dunque racconta che la sua compagna di viaggio, fiaccata dalla stanchezza e dalla sete, implorò una stilla d’acqua: ebbe in risposta delle scudisciate che lasciarono dei solchi sanguigni sul suo gramo corpicino. Si sforzò a tacere e a camminare ma, non potendone proprio più, si abbandonò a se stessa e si lasciò cadere sulle roventi arene. Un arabo inferocito accorse: la fustigò ed essa non si muoveva come se fosse morta: l’incitava con le percosse e con le bestemmie a proseguire ed ella, per tutta risposta, chiedeva da bere. Allora il carovaniere la prende per una mano, trae un coltellaccio, e taglia il povero braccino stecchito fin sotto l’omero. Un grido lacerante rispose al ghigno di demone dell’aguzzino: tutta la catena inorridì ma, doveva far finta di non essersi accorta di nulla. Il corpicino mutilato rimase là, sotto la sferza del cocente sole africano, sulle sabbie che si arrossavano allo spicciar del sangue. E la carovana continuò mentre quella belva, d’ogni belva più feroce, lasciato da parte lo scudiscio, minacciava e picchiava gli schiavi con il braccino della misera creatura.
Il padre Apolloni tace, commosso da questo ricordo ed io mi sento dei brividi di freddo serpeggiarmi per tutto il corpo. Dopo un poco io interrompo il silenzio.
– Ed una volta rientrati nelle terre abitate, che cosa avviene di questi schiavi?
– Vengono rinchiusi nelle Zanie, che sarebbero i recinti dei Senussi, a due chilometri da Bengasi, e di qui, travestiti, nottetempo, alla spicciolata, sono mandati a Bengasi. Fra le tribù beduine la compera e la vendita degli schiavi è fatta pubblicamente: in città, clandestinamente.
– E le autorità?
– Le autorità stanno quiete perchè adoperano anche esse gli schiavi o per i loro servizi o per mandarli in regalo. Moltissimi sono inviati a Smirne e a Costantinopoli dove prestano servizi di guatteri, contadini, bambinai, presso le più ragguardevoli famiglie. Abbiamo noi parecchi negri che sono stati schiavi di famiglie ricchissime e che poi sono fuggiti e sono stati da noi ricoverati. Venendo da Bengasi ne ho portati con me otto che sono sparsi un po’ per tutta Italia. Uno solo è rimasto con me.
– E sta qui in casa?
– Sì.
La curiosità e più che la curiosità un sentimento buono, un desiderio di conoscere qualcuno di questi sventurati mi fa dire:
– Perchè, padre, non lo fa venire un po’ qui?
– Volentieri!
- Il piccolo Abdallah.
Esce dalla sala e dopo un po’ ritorna seguito da un bellissimo negro del Sudan con tanto di colletto e di cravatta bianca che con un fare di persona abituata in società si presenta, mettendo in mostra nel sorriso largo da fanciullo, una chiostra di denti forti e bianchissimi, facendomi un beli’ inchino e stendendomi la mano.
– Come ti chiami? — gli domando io, salutandolo.
– Abdallah Michele — mi risponde franco con una bella voce maschia e sonora.
– E di’ un po’ al signore che significa il tuo nome?
– Lo schiavo di Dio!
– Vede? — mi dice il padre Apolloni — è così vero che negro e schiavo per gli arabi è la stessa cosa che in arabo abd significa nel medesimo tempo negro e schiavo.
Intanto il padre Apolloni viene chiamato fuori per un momento ed io rimango solo a solo con il negro.
– Dunque tu ti chiami Abdallah Michele? — dico tanto per riattaccare il discorso.
– Sì.
– E di dove sei?
– Di giù, molto di giù.
– Del Sudan?
– Sì — mi risponde non so se convinto della sua affermazione.
– E che ti ricordi della tua schiavitù?
– Molta sete, molte battiture e la perdita di un paio di ciabatte.
– Un paio di ciabatte?
– Sì. Quando stavo a Bengasi facevo il bambinaio: un giorno fuggii e andai dal console italiano — mi narrò, parlando benissimo la nostra lingua — che mi fece un biglietto di presentazione al governatore turco per essere dichiarato libero ma suddito ottomano. Così sono andato da padre Girolamo e facevo dei servizi a lui tanto per non dare nell’occhio al governatore turco. Un giorno che stavo con un compagno facendo la spesa, vidi tra la folla il mio padrone che, appena mi riconobbe, mi si mise a correr dietro per riprendermi. lo fuggii, ma siccome le ciabatte m’impedivano un po’ la corsa, io le buttai via e mi sono rifugiato presso il console francese che mi ha riconsegnato a padre Girolamo.
– E tuo padre e tua madre li ricordi?
– No.
– E a padre Girolamo vuoi molto bene? Non mi risponde, ma stringe le labbra e spalanca gli occhi per cui passa uno strano guizzo di luce. Mi è bastato: io sono pronto a giurare che quel giovinotto lì, per padre Girolamo sarebbe pronto a farsi trucidare.
— Ed ora che fai?
— Un po’ di tutto: lavoro, studio, vado a spasso e.... suono.
— E che cosa suoni?
— L’harmonium e il pianoforte.
— E chi ti ha insegnato?
— Nessuno: ma padre Girolamo mi ha promesso che mi farà dare scuola.
— Bravo — e vedendo lì presso un harmonium, lo invito a farmi ascoltare un pezzo. Da prima si schermisce ma poi finisce col cedere. Si siede con molta gravità e comincia. Sono rimasto incantato: su di un semplice tema che ha qualche rassomiglianza coi canti dei nostri mietitori, compone una melodia facile, affettuosa, tutta piena di tenui sonorità e di dolce mestizia.
— Bravo! — gli dico di cuore dopo che ha finito; ed egli, sorridendo felice, mi ringrazia.
— Dimmi un po’: tornerai a Bengasi?
— Ora che ci sono gl’italiani sì, ci tornerò. Ma io sto molto meglio qui a Roma.
- Le astuzie della carità.
Intanto è rientrato il padre Apolloni col quale ho ripreso il discorso interrotto.
— E questi giovinotti, padre, come ha fatto a farli venire in Italia?
— Astuzia, astuzia, mio caro! Ne ho vestiti alcuni da mietitori, altri da conducenti di cavalli e li ho imbrancati con i veri mietitori e con i veri conducenti. Così han passato la dogana turca.
— Si, si — interrompe Abdallah — io ho passato la dogana che tenevo ancora il cavallo per mano.
— E le autorità turche non dicevan loro nulla perchè tenevano questi negri?
— Non potevan dir nulla perchè essi figuravano come nostri servi e così non incappavamo in nessuna legge turca. A un frate francescano furon tolti due bambini che egli aveva preso in consegna da una madre moribonda: e questo solo perchè i due bambini stavano presso il frate senza nessuna attribuzione speciale.
— Ed i ragazzi che cosa fanno nel loro istituto?
— Studiano e lavorano: chi fa il falegname, chi il fabbro, chi il muratore, però tutti indistintamente sono dei buoni contadini.
— Ed ora, padre, sono finite tutte le ansie e tutti i timori, nevvero? Ora potranno lavorare tranquillamente.
— Ah si l finalmente l’Italia fa valere i suoi diritti! Ha un largo campo da sfruttare in Cirenaica e tanto, tanto bene da fare dovunque. Soltanto con la repressione della tratta degli schiavi farà un’opera bellissima di grande umanità.
— E lei tornerà a Bengasi?
— Certamente. Non posso lasciare il mio istituto che io ho tirato su dal nulla e a cui sono affezionato come una donna alla sua casa. E poi là ho tutti i miei figliuoli che mi vogliono tanto bene!
Abdallah sorride e accenna di sì col capo.
Io mi congedo: saluto Abdallah ed il padre Apolloni che gentilmente mi accompagna fino all’uscio di strada. Salutando nuovamente esco: però, appena chiusa la porta, mi rivolto e non vedo più il bel volto sereno di padre Apolloni. Non nego: ho provato lo stesso dolore che si prova quando ci si divide da un amico a cui si voglia molto bene e da molto tempo.
Guglielmo Ferri.
La villa dalle cento fontane
Come una fantastica sultana cui piace effondere le gemme, dimenticarle talora entro gli scrigni preziosi, ma pronta sempre ad adornarsene, quando le prenda vaghezza di sfoggiar or l’uno or l’altro tesoro, la città nostra leva il suo sguardo appassionato sovra le stesse sue ricchezze, solo quando qualche cosa le rammenti che non son più tutte sue, che altri le ammira, che altri ha ormai il diritto di trarne vanto.
Quanti romani conoscono bene; quanti fra i nostri hanno più volte visitato e ammirato la storica villa dalle cento fontane di cui tutti parlano oggi? Oggi si levano le voci di ammirazione, talune perfino di rimpianto benchè in realtà vi sia più ragione di compiacimento che di rammarico per la nuova destinazione della villa secentesca.
Essa appartiene per diritto di eredità all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, erede al trono. Fu portata in dote da Beatrice d’Este, ultima erede di Ercole III d’Este, e sposa ad un Absburgo.
Per molti anni vi risiedette il Cardinale Hohenlohe; ed ora il legittimo proprietario Arciduca Ferdinando permette che lo Stato ne faccia la sede di un’accademia di Belle Arti per gli studenti austriaci ed ungheresi. Come e quando tale accademia sarà costituita non è ancora noto; ma quello che noi possiamo prevedere con certezza, si è che presto quell’angolo paradisiaco tutto cinto di spume argentee, come una fata di veli, tutto sonante di voci, di fruscii di acque cadenti, si animerà presto di nuova vita. Se la villa d’Este, come il Palazzo Farnese avesse potuto facilmente tornare nostra, se come il palazzo Farnese ci fosse stato pressochè offerto — e nondimeno lasciato passare in mani straniere — avremmo diritto di dolerci. Ma il gesto dell’arciduca Francesco Ferdinando non può non apparire degnissimo, sì verso il suo Stato, che verso l’insigne opera artistica italiana, cui mostra di saper dare tutto il valore facendone una scuola d’arte; che volere o no, sarà scuola d’arte italiana. Roma — ospite divina dei pellegrini del sogno — degli innamorati della bellezza, non può che sentirsi materna verso le sitibonde anime che vogliono fare dell’arte unico oggetto della loro vita.
Le sue gallerie, i suoi musei sono in qualche modo un dominio universale, che, non vi sono barriere nei regni della bellezza! Gli studenti della nuova accademia austriaca sentiranno in Villa d’Este palpitare l’anima italica più che in qualunque altro angolo della sublime campagna romana pallida di vegetazione, e radiosa di sole. La bellezza antica e la fastosità della rinascenza, si uniscono mirabilmente, talora, artifiziosamente, nella costruzione mirabile del palazzo, nella disposizione fantastica dei giardini, nella profusione maliosa delle innumeri fonti, che mormorano sommesse con voce varia e canora le laudi del genio latino; e gemono talora della latina incuranza. Poichè Villa d’Este anche prima che passasse in mani straniere era già molto minore di quel che la volle il figlio di Lucrezia Borgia. E il silenzio, quasi l’abbandono è fino a ieri passato con sandali di muschio per i viali un po’ scapigliati dei giardini deserti. La cessione della Villa allo Stato e la fondazione dell’accademia, ritorneranno senza dubbio alla loro primitiva bellezza molte cose che ora si vanno sciupando. Quelle che non potranno interamente risorgere a vita novella, saranno per lo meno allontanate da una rapida morte. Villa d’Este racchiude entro la fuga delle sue sale frescate da Taddeo Zuccari e dal Muziano come entro i suoi lunghi viali i suoi folti giardini vigilati dai cipressi giganti i meravigliosi segreti dell’antica fastosità romana. V’è nella sua armoniosa bellezza come un diffuso senso di regalità, attenuato appena dalla leggiadria dei cento specchi d’acqua che giuocano i loro lievi, eterni giuochi d’argento.
La Villa fu iniziata per desiderio di un Cardinale spagnuolo, ma fu Ippolito d’Este, che la volle condotta a termine e adornata con tutta la ricchezza e il buon gusto tradizionale nella sua casa.
Noi non possiamo avere che una languida idea di quel che potesse essere quella residenza pittoresca ai tempi d’Ippolito nel 1550. Un inventario scoperto nel 1878, in cui erano catalogati i lavori di scultura contenuti nel palazzo, enumera ottantre statue, venticinque busti, sette figure marmoree di animali, sette tazze di marmo, tre sarcofagi e una pianta di Roma ad alto rilievo. Non è fatta menzione dei lavori di pittura, ma il fatto stesso che Ippolito fece dono ai monaci tivolani di Santa Chiara, di un Arcangelo Michele del Buonarroti, può darci indizio delle ricchezze pittoriche che il Cardinale doveva possedere, e serbare per sè, visto che poteva concedei si il lusso di simili doni. L’architetto fu, com’è noto, il napolitano Pirro Ligorio; l’animatore del parco fu l’ingegnere tivolano Olivieri, che derivò dal Teverone i mille rivoli d’acqua che irrigano tutta la villa, come vede pulsanti di un corpo giovane. Il bolognese Paolo Candrino curò l’ornamentazione delle varie fontane, Giacomo della Porta scolpì molte statue, ed altri innumeri artisti, i quali erano sotente accolti dal Cardinale, memore delle tradizioni ospitali di Ferrara gareggiarono in opere d’ingegno e di fantasia per accrescere la vaghezza della superba dimora.
Villa d’Este è forse uno dei luoghi in cui il visitatore, di qualunque condizione, nazionalità esso sia, trova facilmente il modo di accordare lo stato del suo animo con l’aspetto delle cose.
Quegli cui è dolce perdersi con lo sguardo nelle immensità luminose dell’orizzonte potrà salire sulla terrazza del palazzo e contemplare lo sfondo sempre mirabile dell’Agro romano, solcato da due grandi nastri; l’uno argenteo e fremente: l’Aniene che sogna il salto clamoroso e meraviglioso nel Tevere; l’altro pallidamente biondo, quasi bianco, la via Tiburtina che va ad affondarsi nell’orizzonte d’onde emerge, nitidamente visibile la cupola di San Pietro. A destra e a sinistra di chi contempla, la chiostra dei colli tiburtini, cornicolani ed albani, vari di fisonomia, cangianti di colore, s’intagliano in capricciose file e gruppi nel cielo sempre un poco caliginoso, quasi qualcuno dei veli della precipite Aniene si fosse tennemente diffuso nell’aria. Ai piedi oltre il lucente verde del parco s’intrecciano si distendono le pergole dai pampini precoci, che maturano nella prima estate i dolci aguzzi chicchi di pizzutello.
A chi voglia andare a Villa d’Este io consiglio di socchiudere gli occhi durante tutta l’ascesa, per riaprirli davanti al panorama superbo cui ora accennavo, poi gustare con vigile attenzione fantasiosa le dolcezze della discesa. Si ha l’impressione che vi traggano al basso quelle mille vene d’acqua che vanno in cerca di riposo. Le curve degli scaloni scendenti a destra e a sinistra con larga voluta, che abbraccia nel suo semicerchio interno altre fontane, tutte ombrate di foglie, intricate di rami quasi selvaggi, appare più larga e più molle nel suo digradare. E ad ogni ripiano v’è una sorpresa; altre onde che sfuggono qua e là mormorando; piccole grotte misteriose, vasi di fiori e giuochi di corimbi striscianti, come serpentelli assetati, in cerca delle acque. E le voci delle fontane dopo la visione ampia dell’orizzonte tivolano, sembrano più eloquenti e più ricche quando lo sguardo e il pensiero si sono purificati nella visione del cielo, nella contemplazione dei colli. Udendo chiacchierare i piccoli rivi vi pare cogliere meglio il segreto delle loro peregrinazioni montane, delle loro impazienze di sgorgare a fiocchi, a bioccoli, a sprazzi dalle tenebre verso la luce.
E quando si è — come dire? — saturi di quell’atmosfera di bellezze, di quei capricci inestinguibili di artisti esemplari che vollero giocare con le acque come una ricamatrice con i suoi fili di seta, il viale delle cento fontane che corre parallelo al fronte del palazzo, vi chiama con le ombre misteriose delle vaschette allineate e sormontate da bizzarri simboli di deità favolose. Sembra davvero che ognuna di quelle piccole cannelle ormai quasi aride, abbia una sua voce particolare; si crede fermamente che un giorno debba avere ognuna di esse parlato con parole canore.
V’ha una di quelle fonti detta dell’organo. Si dice che, cadendo, l’acqua traeva veri accenti musicali.... Ma chi pensa a quel che possa essere Villa d’Este, in una notte d’estate, per esempio, fra il fremere delle foglie, il palpitare vario dei piccoli flutti e le note degli usignuoli, non rimpiangerà forse che l’organo della piccola fonte non suoni più, esso non è certo indispensabile alla sinfonia del parco malioso.
Ora questo mirifico luogo è destinato ad artisti. Si ha, pensando a questo quasi invidia e timore per loro.... Poichè se in quel regno di bellezza molteplice, la giovane arte non riuscisse a qualche cosa di degno, scommetto che tutte le cento fontane del celebre viale, e le altre mille sparse per tutta la villa, memore dei fasti dell’ultimo Cinquecento, sarebbero capaci di accordarsi nel più allegro chioccolio di garrulo riso.
L’origine degli Umiliati
A noi milanesi che, attraverso a parecchi secoli, risentiamo ancora un po’ della benefica influenza industriale — se non spirituale — di quei frati famosi per la confezione dei panni di lana, che chiamiamo gli Umiliati, potrà interessare di sapere, tra due diverse esposizioni della loro origine, quale sia la vera.
Fino ad ieri, studenti e maestri e libri di testo, salve le debite eccezioni, ritenevano tutti che «un imperatore di Germania, Enrico II, sull’inizio del secolo XI, nella lunga lotta sostenuta con Arduino re d’Italia, fatti prigionieri parecchi nobili cospiratori milanesi e comaschi, li avrebbe condotti oltr’Alpe in qualità di ostaggi. Qui, perduta ogni speranza di ritorno, tocchi della grazia di Dio, avrebbero deciso di dedicarsi ad una vita di penitenza per gli anni che loro restavano, e gettate le ricche vesti, indossati poveri abiti, si sarebbero dati agli umili lavori del lanificio. L’imperatore risaputa la cosa, li avrebbe chiamati al suo cospetto e in un pomposo discorso avrebbe loro detto fra l’altro: «Eccovi finalmente umiliati!»; e non avendo ormai più ragione di temere, li avrebbe rimandati liberi in patria. Non per questo mutarono essi proposito, che anzi avrebbero guadagnato a quel tenore di vita le loro stesse famiglie.
Cambiato il primo nome dovuto alla foggia del copri capo di «Berrettini della penitenza» in quello imperiale di «Umiliati», perdurando in gran santità, si moltiplicarono per tutta l’alta Italia, partendosi in tre Ordini: il primo di soli chierici; il secondo di laici e di laiche viventi sotto una regola religiosa in una casa comune; il terzo di uomini e di donne che pur essendosi dati ad una vita di perfezione rimanevano nello stato coniugale vivendo colle proprie famiglie».
Tale la vecchia versione così compendiata dallo storico Tiraboschi (1766, Milano), che a vero dire, ebbe vita lunga e fortunata. Quando nel 1886, Carlo Muller nel suo libro sul movimento religioso dei Poveri Lombardi nel secolo XII, cominciò a far balenare un’altra versione, meno romantica, più lenta, più vicina a noi, niente affatto determinata neppure materialmente, da un imperatore tedesco.
Qua e là si mette mano a ricerche, a studii, a verifiche; e subito comincia a constare che di Umiliati non si parla in nessun documento antico se non un cinquantennio dopo che Enrico II avrebbe condotto in Germania i nobili milanesi e comaschi di cui parla la leggenda sopra riportata. Poi la leggenda non compare nei documenti antichi se non nel secolo XIV, mentre il nome di «Umiliati» aveva già qualche secolo di vita.
Proseguendo nelle ricerche verso i secoli XII e XIII gli studiosi s’imbatterono nel famoso movimento religioso che tutti conoscono e dal quale originarono una infinità di sêtte ed i celebri Ordini francescano e domenicano. Nella effervescenza di quel movimento, venuto principalmente dal popolo per assurgere con nobilissime aspirazioni alla perfezione evangelica, nulla fu risparmiato per raggiungere la sublime follia che arrideva a tanti. Una forma di tanto delirio stava per es. nei nuovi nomi di battesimo assunti: umili, umiliati, poveri, peccatori, minori, minimi, etc., si faceva a chi più abbassavasi; e in armonia col nome stava la foggia del vestire, la qualità scadente della stoffa, la quantità e qualità del cibo.
Ora, è appunto da tanto groviglio di piante novelle che prende le mosse una confraternita che si chiamava degli Umiliati, e del III Ordine, che in progresso di tempo, si sviluppi nel grand’albero religioso che tutti conosciamo. Più che per regola speciale, si distingueranno per ragione di territorio; quindi in Umiliati che vivono una vita comune e in Terziarii, poi in tre Ordini; il primo, costituito da frati e da suore consacrati a Dio, quelli pel sacerdozio, queste pei voti religiosi; il secondo da frati e da suore che, pur avendo una regola, rimangono laici; il terzo, da quelli che continuano a vivere nelle loro case e nelle loro famiglie.
Hanno una caratteristica speciale, il lavoro manuale; non solo per ottenerne il pane, ma anche per ottemperare al precetto di operosità, per sottomettersi volontariamente alla pena del peccato fulminato nella Bibbia contro tutti gli umani; anche, finalmente, per sottrarsi a mezzo del sistema di frateria, al capitale tiranno e rendersi indipendenti dai grossi industriali poco scropolosi e niente sentimentali.
Gli Umiliati si applicarono alla fabbrica del panno di lana. Provvedutisi delle materie greggie in grosse partite o all’estero o anche fra noi, essi pensavano ai lavaggi, alla cardatura, alla filatura per mano delle Umiliate, alla tessitura, alla tintura, alle ultime operazioni di stiratura per poi gettarla sul mercato. Fu questa certamente una benemerenza di carattere sociale che non andrebbe dimenticata. E bisogna che gli Umiliati nel commercio della lana, fossero bene esperti, se riuscirono a fronteggiare trionfalmente la concorrenza delle Ditte laiche. Bisogna aggiungere che devono aver brillato di un’onestà a tutta prova se le Signorie di diverse città affidarono a loro anche la riscossione delle gabelle, i dazii, la dogana.
Il commercio però, dal più al meno, è fatale per tutti, anche per i frati; anzi, per i frati più che per gli altri. Le ricchezze ammassate, che dapprima servirono egregiamente per tenere ospedali, erigere monasteri e chiese (Cf. il Carrobiolo di Monza e Brera a Milano che poi lasciò il posto all’attuale palazzo), in seguito contribuirono alla rilassatezza, alla mondanità, alla prepotenza, cosicchè resisi intollerabili coll’ultimo loro atto del genere — l’attentato fortunatamente fallito, alla vita di S. Carlo Borromeo, vennero soppressi per sempre, Avevano cominciato con fervori intemperanti di riforma e di aspirazione alla perfezione evangelica, col dividere le stravaganze e gli errori dei Càtari, dei Patarini, Valdesi e Albigesi, per finire in delitto sacrilego.
Orbene l’origine degli Umiliati che noi accennammo appena, ormai non può essere che questa; e lo dimostra a luce meridiana il giovane dottor Luigi Zanoni in un magnifico volume edito dalla Casa Hoepli 1911 per conto della Società Storica Lombarda, e coi tipi della rinomata Casa L. F. Cogliati. E a cotal volume rimandiamo chiunque volesse conoscere appieno il nascere degli Umiliati in Italia.