Il buon cuore - Anno XI, n. 17 - 27 aprile 1912/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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La più grande medaglia



La più grande medaglia coniata è quella che lo Stabilimento Johnson di Milano apprestò come suo speciale contributo alle feste Cinquantenarie del Risorgimento Italiano. Essa misura un diametro di 120 millimetri, diametro che non è raggiunto da nessun’altra [p. 130 modifica]medaglia coniata. Il famoso conio del Pistrucci misura è vero un diametro superiore; ma, eseguito il conio, non si ebbe’ il coraggio di metterlo in azione, pel timore di spezzarlo e noi non lo conosciamo che per le riproduzioni in galvanoplastica. Il medaglione del Johnson segna quindi, per dirla con termine moderno, il record della dimensione delle medaglie coniate.

Al diritto sono rappresentate le due effigi di Vittorio Emanuele II e di Vittorio Emanuele III, colla seguente leggenda:

il regno d’italia sogno di martiri
per volere di popolo e per lealtà di re
in torino proclamato
con roma capitale
nelle feste di progresso di pace
il primo cinqvantenario
celebra

Occupa il centro del rovescio l’Aquila Sabauda circondata da una allegoria del risorgimento composta di moltissime figure e illustrata dai versi danteschi:

                              secol si rinnova
torna giustizia e primo tempo umano
e progenie discende dal ciel nuova.

La medaglia è modellata da G. Castiglioni e incisa dal Cappuccio.



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LE ORME DI ROMA




I giornali parigini ne hanno dato l’annuncio: uno degli ultimi monumenti romani di Parigi rivedrà la luce. Pei primi di giugno, liberate dai detriti che ancora le ingombrano, le Arene di Lutezia accoglieranno una folla di spettatori, che andrà ad applaudire un dramma di Luca de Vos sull’imperatore Giuliano.

È una storia malinconica, quella delle Arene romane di Parigi. Vennero costruite al tempo di Adriano: ma la barbarie passò come una raffica distruggitrice anche sulle loro pietre, le quali servirono ad elevare un muro di cinta intorno all’isola della Cité. Un governatore imperiale le ricostruì ancora e sotto Chilperico vi si davano ancora delle rappresentazioni popolari. I Normanni, invasori di Parigi, tornarono a distruggerle. Per lunghi secoli, sul luogo passò l’aratro: i monaci del tempo di Pascal vi coltivavano la vigna. Quando, nel 1869, aprendo la Rue Monge, il barone Haussmann, prefetto di Parigi, ritrovò le tracce delle Arene, egli propose all’imperatore di farle rinascere a nuova vita. Ma Napoleone III, assorto in ben diversi pensieri, trascurò la proposta: e la via incominciata venne prolungata attraverso le ruine. Una diecina d’anni più tardi, quando, per il crollo di una casa moderna, un altro angolo dell’antico anfiteatro venne alla luce, Victor Hugo diresse al Consiglio municipale di Parigi una lettera, scongiurando gli edili a salvare quell’ultima memoria di Roma. La voce del poeta trovò ascolto. La parte scoperta e ancora libera venne salvata: è la parte che esiste oggi ancora trasformata in giardino; è la parte stessa che gli architetti municipali restaurano in questo momento per lo spettacolo estivo.

Così Parigi avrà aggiunto anche il suo contributo alla rinascita romana che s’afferma con lo sforzo di tutta una falange di archeologi e di eruditi, da un capo all’altro della Francia. La cronaca quotidiana, sommersa sotto la banalità dei fatti di sangue, o sotto i piccoli fenomeni della vita politica, non ha dato a questa rinascita tutta l’importanza ch’essa presenta. Nel Nord, nel centro, al Sud, si scava, si fruga, s’indaga. Sull’altipiano di Perpignano sono apparse le vestigia di templi e di archi romani. A Bordeaux, due archeologi della Facoltà di lettere hanno ritrovato un vecchio cimitero. Nella Drôme, gli scavi operati al Teatro di Vaison hanno messo alla luce tutto un macchinismo preparato dai Romani pei lavori idraulici. A Lione, su in alto, accanto alla basilica moderna di Fourvières, altre ricerche hanno permesso di scoprire un mosaico magnifico, rappresentante un trionfo di Bacco e delle sale dall’aspetto arcano, ch’eran forse degli antichi serbatoi. Più al Nord, in Normandia, nell’Eure, uno studioso, il Contil, scopre delle ville romane. Nel paese di Lingua d’Oca, a Montlaur, un profano risuscita tutto un villaggio, tutta una piccola Pompei francese. Una venere primitiva è apparsa da un ricercatore che frugava presso Eyzies, nella Dordogna, come l’indizio di altre scoperte prossime. D’altra parte, la serie degli scavi delle dire Alesie, che si disputano l’onore di avere avuto tra le [p. 131 modifica]sue mura Vercingetorige, sembra debba chiudersi, questa volta ancora, con un gruppo di tesori della civiltà romana: là, come altrove, la civiltà gallica ha lasciato poche tracce, appena. E le orme di Roma si moltiplicano ad ogni colpo di piccone.

A questo modo Roma sembra voglia ricordare al popolo, che ci ospita, i suoi benefici e la sua gloria. Roma aperse alla Gallia gli orizzonti angusti della civiltà e dell’arte. Invadendo il suolo d’un paese lacerato dalle lotte intestine, le aquile di Cesare lasciarono qui un ferniento di civiltà, di cui la Francia risentirà in eterno l’influenza. Su tutta l’ampia zona che corre tra le Alpi ed i Pirenei, non esiste una sola città che variti memorie antiche, diverse dalle romane, Roma ha arricchito tutta la Francia meridionrle di teatri, di templi, di terme, di tombe. Pianure e colline sono solcate oggi ancora dai testimoni degli acquedotti interminabili e giganteschi, sorti al cenno d’un prefetto dell’impero. Chiunque viaggia e scruta ciò che resta di venerabile in tanta parte della Francia, ritrova largamente giustificata la parola famosa di Plinio: «È un’altra Italia, questa, piuttosto che una provincia!» Sono i monumenti di Lione e dei dintorni, che ricordano Augusto, Claudio, Nerone, Trajano, Antonino il Pio. Son le ruine costantiniane ad Arles; i resti del tempio d’Augusto e di Livia, i portici del foro, il teatro a Vienna. E le vie di mosaici e l’imponente torre magna, e la porta d’Augusto e la fontana di Diana e le Arene di Nimes, ed il teatro atletico d’Orange. Il flutto della civiltà e dell’érte di Roma non s’arrestò nemmeno innanzi alle resistenze del clima e degli uomini del nord. La guerra, il saccheggio, le fiamme non riuscirono a compiere la loro opera di morte. Oggi il vento spazza i detriti e la roccia romana ricompare, granitica, immortale.

Domenico Russo.


La protezione italiana
ai Missionari in Cina.


I giornali replicatamente riportarono accenni rassicuranti sulle vicende attraversate dalle Missioni Cattoliche Italiane nelle convulsioni che funestarono e tuttora funestano la Cime Ncn sarà discaro ai nostri di rilevare la situazione quale è delineata da S. E. Mons. Fabiano Landi Vescovo, Vicario Apostolico del Flupé Occidentale e Settentrionale, in una lettera sua del 6 marzo u. s. al Presidente Generale dell’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari Cattolici Italiani.

«La Cina sta attraversando una grande crisi. I Cinesi di tutte te Provincie sono tutti insorti contro il Governo Mancese. In questo generale sconvolgimento, in varie provincie dell’interno ha regnato irta ve a anarchia. Le Missioni hanno corso dappertutto st rio pericolo. È vero che il movimento rivoluzionario è antidinastico. Pure nella generale confusione, gli aggregati alle sette segrete, delle quali è piena la Cina, avevano campo libero per darsi al s3ccheggio e al brigantaggio, come pur troppo hanno fatto in vari luoghi.

«Noi siamo infinitamente grati al nostro Console e specialmente al nostro Ministro a Pekino, signor conte Sforza, per l’aiuto prestatoci in queste critiche circostanze. Il contegno, del ministro Sforza è stato energico, prudente e pieno di sollecitudine per le nostre Missioni. Grazie alle sue replicate istanze presso i capi dei due partiti — imperiale e repubblicano — noi abbiamo goduto di una relativa sicurezza; in tutto il Vicariato avemmo a deplorare soltanto il saccheggio di una Cappella — e questo affare fu subito regolato con completa nostra soddisfazione.

«Sono lieto poi di constatare. che la nostra Bandi-era è stata rispettata non solo dai repubblicani, ma anche dai partiti sovversivi. Vari Mandarini e personaggi ragguardevoli, partiti da Hankow, hanno voluto da noi la bandiera italiana, per innalzarla sulle loro barche; anche in città varie famiglie, invece della bandiera repubblicana, esponevano la bandiera italiana. Alcuni depositarono i loro oggetti più preziosi nelle nostre case ed altri avevano domandato di ritirarsi presso di noi in caso di una sommossa, o di assalto della città da parte dei briganti».

S. E. R.ma Mons. E. Massi, Vicario Apostolico dello Shansi, parimenti scriveva:

«Riguardo a notizie Le posso assicurare che ora si sta meno in pericolo, anzi in pace, e ciò in seguito all’energica attività del ministro Sforza, che ha fatto prendere all’Italia grande nome e prestigio in questa provincia».

È proprio il caso, pare a noi, di proclamare che non tutto male vien per nuocere.

Il direttore dei lavori del Loetschberg a Mons. Bonomelli.


Col principio di quest’anno sono terminati i lavori del traforo del Loetschberg (Goppenstein Kandersteg) almeno per quanto si riferisce alla grande galleria. In t de occasione ai direttori dei lavori sui due versanti venivano conferite onorificenze italiane e’ francesi. L’ing. Carlo Moreau, direttore dei lavori del tunnel lato Sud, decorato della Legion d’Onore dal Goxerno francese e nominato cav. uff. della Corona d’Italia, inviava in questi giorni a Mons. Geremia Bonomelli una lettera commovente, di cui ecco i brani principali:

«....Mi faccio un dovere di inviare all’E. V. i miei più sinceri ringraziamenti e di rinnovarLe i migliori sentimenti di ammirazione e venerazione profonda.

«S. M. il Re ha voluto prendere in considerazione l’interessamento mio a favore degli operai lavoranti al Loetschberg: V. E. sa che per quanto io feci a pro degli emigranti italiani, venni già compensato ad usura, perchè i «bravi minatori, muratori e tutti gli operai del Loetschberg» furono coraggiosi, docili, devoti e degni dei loro antichi compagni del Frejus, del Gottardo e del Sempione.

«Ed è per Me fonte di legittimo orgoglio poter dire che mai ombra di malcontento regnò a Goppestein.

«Io non dimenticherò mai la benefica e salutare [p. 132 modifica]influenza dei buoni Missionari dell’Opera di Assistenza! ed io già dissi allo zelante cav. rev. De Vita, che sarei ben lieto di ritrovare tutti questi bravi operai ai lavori della seconda galleria del Sempione....

«Chiudo, Monsignore Reverendissimo, rinnovando di cuore i miei ringraziamenti, augurando a V. E. buona salute e pregando il Cielo che vi conservi per lungo tempo ai vostri figli riconoscenti.

«La mia famigliuola invia i suoi migliori auguri così a V. E. come a Mons. Lombardi, ed io vi prego, Monsignore Reverendissimo, di gradire i migliori sentimenti di chi è felicissimo ed orgoglioso di chiamarsi vostro devoto e riconoscente amico.

Firmato: Ing. G. Moreau»

Villa Marie — Arles (Francia).

Gemme e fantasie d’Oriente


L’Oriente va man mano perdendo gran parte del suo fascino. Là dove, per lunga consuetudine ci abituammo a immaginare paesaggi di féerie, o strane persone avvolte quasi in un’atmosfera di sogno, smagliante di ori e di colori, la realtà ci ha svelato, invece, ambienti e uomini ben diversi.

E pure qualcosa sussiste, nonostante ciò, nella nostra fantasia. V’hanno ancora per noi nell’Oriente denso di barbarie guizzi abbaglianti! Non importa se a poco a poco apprendiamo che le straordinarie ricchezze levantine sono in gran parte ipotetiche, e che quei supposti personaggi da operetta, uomini possenti e feroci, donne ingemmate e misteriose, rappresentano invece un’orda cenciosa e sudicia. Chi può dispogliare completamente il nostro pensiero da quell’esuberanza fastosa e favolosa, a traverso la quale ci è sempre apparso l’Oriente? Chi può dissociarvi l’idea degli inverosimili tesori delle gemme rare, principalmente delle gemme?

Ecco Cleopatra con le sue perle famose, le più belle dell’antichità — tanto che i romani chiamarono poi a cleopatrine «le perle di primissima scelta. Ecco l’antica Bisanzio ove la moda delle gemme e particolarmente delle perle raggiunse il delirio, e se ne adornarono gli abiti in tal copia che non era più possibile vederne il tessuto; ecco i fantastici templi del lontanissimo Oriente, impenetrabili agli europei, ove la leggenda narra di inauditi sacrifizi umani e di favolose raccolte di pietre preziose.

E la fantasia vola, spazia, si sfrena in corse vertiginose!

Certo il commercio delle gemme fu commercio essenzialmente orientale, e fu tenuto in tale considerazione che moltissimi codici sorsero ad illustrare le pietre preziose e a disciplinarne la vendita. Tra questi codici, specialmente degni di nota, furono gli arabici, ove però — a parte il grande valore di curiosità — sarebbe vano ricercare un serio fondamento scientifico, non accogliendo essi, il più delle volte, che un’immaginosa fioritura di fantasie e di leggende, alcune delle quali degne di essere rilevate.

Sappiamo già che Plinio attribuiva la nascita delle perle ad una rugiada che si forma sul mare, e che secondo un’opera attribuita dagli antichi ad Aristotile, le perle si formerebbero dalla schiuma prodotta in mare nell’infuriar del vento e delle onde. Ma il dotto El Masudi è ancor più ingegnoso, e narra invece che allorquando nel mese di marzo la pioggia cade sul mare la conchiglia sale alla superficie delle acque, e aprendo le valve inghiotte due o tre stille di pioggia: ciò che basta per assicurare la formazione della perla.

Giovanni Ebn Masuyah, autore di un trattato sulle pietre preziose, riferisce curiosi particolari circa la pesca delle perle. Egli racconta, ad esempio, come i pescatori usassero farsi un largo taglio tra la gola e le orecchie, il quale doveva poi rimanere sempre aperto e permettere la respirazione sott’acqua: qualcosa come le branchie del pesce! Ebn Masuyah soggiunge che con tale «opportuna» preparazione i pescatori possono rimanere in fondo al mare circa una mezz’ora. Ciò che è assolutamente fantastico.

È noto infatti in qual modo la pesca delle perle avvenga da secoli. Il sistema è generalmente quello tradizionale nella baia di Condatchy, ove famosissimi sono i marangoni di Colang.

Le barche che esplorano i banchi perliferi sono montate da dieci rematori e dieci pescatori. Questi si alternano cinque per cinque nel rude lavoro a cui sono abituati fin dall’infanzia, e che, del resto, dura soltanto poche settimane dell’anno.

Per accelerare la discesa in mare i pescatori usano legarsi una pietra al collo del piede destro. Al momento di tuffarsi il marangone si tappa le narici con la mano sinistra, e sparisce a una profondità di quindici o venti metri, tenendo ben stretta nella destra l’estremità della corda che gli servirà per tornare a bordo. Giunto in fondo depone in un sacco di rete che porta appeso al collo quante ostriche -gli è dato di avere a portata di mano, quindi dà una strappata alla corda, e quei della barca lo tirano su e lo issano a bordo. La permanenza sott’acqua non dura più di un minuto e mezzo, al massimo.

Questo lavoro è così faticoso che spesso, al risalire nella barca, i pescatori fanno sangue dalla bocca, dalle narici e dalle orecchie. Ma essi non vi badano troppo, e ripetono l’immersione fino a quaranta e cinquanta volte al giorno.

In generale i pescatori di perle muoiono giovani. Il loro corpo si ricopre di piaghe, il cuore e i polmoni subiscono alterazioni profonde. Talvolta una sincope li coglie all’uscita dall’acqua, ed essi — poveri e sfiniti — muoiono nella barca stessa nel cui fondo si vanno intanto accumulando i tesori contesi e strappati a prezzo di sangue al mare, per la ricchezza e per il lusso altrui.

Innumerevoli buone qualità aveva la perla secondo gli antichi popoli dell’Oriente. Si diceva che, ingoiata, giovasse in special modo contro la palpitazione di cuore, e che pestata e ridotta in polvere costituisce un insuperabile dentifricio. Il che — dato l’attuale costo delle perle — è raccomandabilissimo!

[p. 133 modifica]Né meno caratteristiche erano le leggende riguardanti le virtù delle pietre presiose.

Si credeva, infatti, che il rubino, posto sotto la lingua, togliesse la sete, e che incastonato in un anello scampasse dall'annegamento e impedisse i cattivi sogni; che il topazio avesse virtù di schiarire la vista, l'ametista di arrestare l'emorragia del naso se applicata sulla fronte del sofferente, la turchina di preservare chi se ne adornava da morte violenta. Alla corniola si attribuiva un poco dell'efficacia dei bromuri, quella cioè di calmare i nervi eccitati — oh impareggiabile corniola! Ed ancora: i lapislazzuli era ritenuto miracoloso per far crescere le sopracciglia, e il modesto corallo offriva un potente rimedio contro la gotta.

Quanto all'agata, se polverizzata in un mortaio e impastata con muschio, semi di cavolo e fegato di avvoltoio, e poi applicata a mo' di unguento sul occhi, avrebbe avuto, nientemeno, il magico potere di rendere la vista di un miope più acuta di quella dell'aquila.

C'è inoltre una pietra, poco nota, ma graziosissima, che merita tutta la nostra attenzione: l'occhio di gatto. Basti dire che portando in dosso questa piccola ed originale pietra — è sempre la leggenda che dice — non si è mai a corto di denari, e si tengono lontane tutte le afflizioni e tutte le disgrazie. Chi non vorrà procurarsi subito un così prezioso amuleto?

Ahmed Teifascite, il quale fu il più autorevole tra i dotti arabi che scrissero intorno alle gemme, e la sui opera famosa «Fior di pensieri sulle pietra preziose» ebbe l'onore di esser tradotta in lingua italiana da un grande poliglotta nostro ingiustamente dimenticato, il conte Antonio Raineri Biscia, vissuto alla fine del secolo XVIII e al principio del XIX, insegna un curioso metodo per riconoscere lo smeraldo buono da quello falso.

Narra Ahmed che lo smeraldo vero ha la proprietà di far scoppiare gli occhi alle vipere, cosa di cui egli stesso fece esperimento. Procuratesi alcune vipere il Teifascite le fece mettere in una conca, e presentò loro una freccia di legno in punta alla quale aveva fissato con un poco di cera uno smeraldo di primo colore, o zababi. «Dapprima esse se l'avventarono contro — racconta egli — e fecero un movimento ed uno sforzo onde tentar d'uscire dall'indicata conca; ma quando ebbi ben accostato il surriferito smeraldo ai loro occhi udii un leggero scoppio, e quindi osservai che i medesimi discioglievansi in umori, e sporgevano potentemente all'infuori, Dopo un tal fatto rimasero le suddette vipere così sbalordite e confuse, che girando qua e là nella conca non sapevano ove s'andare, né cercavano più di fuggire.»

Ugualmente ricca d'interesse e di... colore, è la descrizione che lo stesso Ahmed Teifascite fa del modo con cui i mercanti riescono ad impossessarsi del giacinto — nome generale sotto il quale gli arabi comprendeva il rubino, il zaffiro e parecchie altre qualità di pietre.

Afferma il nostro autore che le varie specie di giacinto nell'Isola di Serandib (Ceylan) sul monte Rahun, quello che i portoghesi battezzarono «Pico d'Adam» in omaggio alle generali tradizioni degli orientali che indicano quella montagna come il luogo ove è sepolto il primo uomo.

Durante i periodi della pioggie, il giacinto vien trascinato dai torrenti, e si può raccogliere con una certa facilità, ma in tempo di siccità occorre procedere in altro modo.

Siccome il monte, inaccessibile all'uomo, è abitato da innumerevoli aquile affamate, i mercanti ucciso un grosso capo di bestiame lo fanno in pezzi, che depongono poi alla base della montagna. Subito le aquile si slanciano, s'impossessano della preda, e tornano verso i loro nidi sulla vetta. Ma, come durante il tragitto sono costrette a toccare terra, parecchie pietre preziose onde la montagna è ricoperta come d'un manto abbagliante, si attaccano alla carne.

E lasciamo senz'altro la parola di Ahmed, servendoci ancora della efficacissima traduzione del Biscia: «In seguito ripigliando le aquile stesse il volo coi rispettivi pezzi di carne, e venendo tra loro a contesa per rapporto ai medesimi, si dà la combinazione che nella mischia ne cadono alcuni fuori del mpredetto monte; lo che veduto dalle persone ivi a bella posta concorse vanno subito a raccogliere da tali pezzi tutta quella copia di giacinto che vi è rimasta attaccata. La parte inferiore dell'indicato monte è ingombrata da folti boschi, da larghi e profondi fossi e burroni, non che da alberi di largo fusto, ove trovansi vari serpenti che inghiottiscono un uomo intero. Per tal cagione niuno può salire su quel mondo e vedere le meraviglie che in esso contengonsi».

È grazioso tutto ciò, non è vero?

Evidentemente quando si trattava di sballarle grosse gli arabi non stavano a pensarsi su.

E questo dimostra che, anche allora, essi dovevano coltivare l'amicizia dei turchi.

Enrico Boni.

Enryk Sienkiewicz

e la nuova Polonia

Quando fui introdotto nella sala d'ingresso di Casa Sienkiewicz, modesta e chiara, non potei difendermi, nell'attesa, di quel senso leggero di pena che prende noi piccoli ed umili mortali dinnanzi a coloro che si sono già assicurati l'immortalità.

Pochi giorni prima, attraversando in treno la sconfinata pianura della Mazovia, avevo finito di leggere i Cavalieri della Croce, e l'alta figura immaginaria dell'evocatore m'era apparsa più volte, nel mio desiderio ansioso di rappresentarmela, sull'ondeggiar del grano, e per entro le oscure foreste di betulle e di faggi, e sui riflessi perlacei delle acque morte, tra il gracchiare dei corvi innumerevoli. ora, avrei visto, finalmente, l'uomo, dopo aver conosciuto il poeta della vecchia Polonia, e la sua parola viva m'avrebbe fatto più certo, quasi, della passata esistenza di tutto quel popolo di sogni eroici, di cui si nutrì e s'allietò la nostra giovinezza...

[p. 134 modifica]Il servo grave e jeratico, con un sommesso «proszen pana: — prego signore», che sonava più assai l'ossequio pel padrone che l'ospite, mi mostrò l'uscio dello studio, aperto. Nella penombra, libri, carte, fotografie, stampe d'arte s'accumunavano attorno, in ordine, in una quiete raccolta.

Attesi un poco, in piedi, guardando all'uscio dal quale immaginavo dovesse uscire il grande uomo: e lo vidi entrare poco dopo, non alto come me lo ero figurato, ma smilzo ed eretto, con una bella testa grigia a cui il pizzo alla moschettiera prestava la fierezza dei suoi eroi.

Il colloquio fu breve. Si parlò innanzitutto e sopratutto, di lui, dei suoi romanzi, delle loro infedeli traduzioni italiane; della Polonia, poi — e lo fece in termini recisi e brevi, quasi pauroso a dir troppo — e dell'Italia, dove il romanziere ha abitato un anno e mezzo.

Quando io volli portare il discorso sulla moderna letteratura polacca, il grande romanziere se ne uscì con poche frasi, evasive e severe, — tanto che io non ebbi più il coraggio di rientrare quell'argomento — e ritornò a parlarmi di sè, con una strana insistenza, con una passione non scevra d'asprezza, e a domandarmi in quale stima egli fosse tenuto in Italia, ancor oggi, con una certa avidità di particolari...

In ultimo, come io domandavo al romanziere qualche notizia sul suo romanzo, che veniva pubblicando, il Kurjer Warszawski, egli me ne accennò con soddisfazione la trama: le avventure di due fanciulli nell'Africa del Sud...

(Continua).