Il buon cuore - Anno XI, n. 21 - 25 maggio 1912/Educazione ed Istruzione

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Il fondo del Vesuvio

esplorato da un vulcanologo

Il coraggioso vulcanologo è il prof. Alessandro Malladra, nostro amico, assai noto per i suoi lavori di precisione sul traforo del Sempione e, più ancora, per i suoi importanti commenti a nuove edizioni delle principali opere dell’abate Stoppani, il Corso di Geologia, Aria e Acqua e il Bel Paese.

Molti vulcanologhi avevano più volte tentato di raggiungere il fondo del cratere del Vesuvio, senza però riuscirvi. Il prof. Alessandro Malladra, coadiutore del R. Osservatorio Vesuviano, ripetè il tentativo e vi riuscì. Dall’ultima eruzione del 1906 l’immensa voragine è tutta formata da pareti a picco, dalle quali si sprigionano abbondantissimi fumaiuoli di vapore acqueo misti ad acido cloridrico e anidride solforosa. Per la maggiore abbondanza di questi vapori a misura che si scende nel fondo, dal quale si partono poi densissimi, tutti coloro che avevano tentato la discesa non vi erano riusciti, ostacolati principalmente dagli strapiombi che incontravano.

Il prof. Malladra, dopo un accurato esame della parete sud-est, riscontrò che era questa la più adatta. E giorni sono, accompagnato dall’inserviente dell’Osservatorio Andrea Varvazze, un esperto di studi vulcanologi per la grande pratica acquistata, alle ore 9 mosse dall’orlo del cratere, che è verso Pompei.

Fu lanciata nel fondo del vulcano una prima fune lunga 140 metri, e così il prof. Malladra discese per questa lunghezza, riscontrando come una gigantesca scalea di tratti a picco alternati con ripidissimi pendii.

A circa 120 metri fu raggiunta una larga e molto inclinata cornice di lava, che strapiombava nel fondo per più di cento metri. Il professore e l’inserviente girarono verso sud e camminando su quella cornice rag. giunsero una specie di ammasso di detriti a grossi elementi, del pendio dell’80-90%. Su di esso svolsero una corda di circa cento metri, che permise ai due intrepidi esploratori di raggiungere la enorme frana prodotta dallo scoscendimento del 12 marzo 1911 e che si stende fino al fondo del cratere, che fu toccato alle ore 11.

Il prof. Malladra restò nel fondo circa due ore, percorrendolo in ogni senso per compere numerose osservazioni, per fare le livellazioni barometriche e misure termometriche delle fumarole. La temperatura costante dei diversi punti nei quali essa fu misurata era dai 90 ai 98 gradi. La profondità del cratere è di circa trecento metri, e il prof. Malladra la determinerà esattamente appena avrà controllato i dati avuti con la vellazione barometrica.

Prima di andar via, il prof. Malladra piantò nel mezzo del cratere una bandiera rossa, che potrà servire come punto di livellazione. Per risalire, i due esploratori percorsero, mediante una ginnastica acrobatica, veramente mirabile, la stessa strada segna a dalle corde. Le maggiori difficoltà incontrate furono appunto per le emanazioni degli acidi delle furnarole, che soffocavano il respiro e irritavano gli organi polmonari.

Ogni momento intorno ai due precipitavano frane, che si staccavano in massi isolati e piombavano nel fondo di balza in balza, riempiendo l’aria di cenere fittissima. È questo il più grave ostacolo e il più forte pericolo che si incontri nella discesa.

Il prof. Malladra ebbe agio di fare delle istantanee di alcune di queste frane e anche del fondo del cratere e delle pareti sono state ritratte fotografie, mentre una preziosa raccolta è stata fatta di minerali presi nelle fumarole.

Per risalire i due esploratori impiegarono due ore e mezzo.

UNA GIORNATA CON GLI ASCARI FERITI

all’ospedale militare di Palermo


(Dal Corriere d’Italia).

L’ospedale militare vive le sue prime giornate di vita indigena. Nel grande cortile, ove è chiara la vigile ed illuminata previdenza dei sanitari dell’esercito tanto appare lindo e luminoso l’asilo dei nostri soldati infermi, scorrono le ore di quiete della convalescenza gli ascari del 6.° battaglione indigeni che fu a Bu-Chemez.

Nello spianato, accoccolati alla moda orientale presso i pilastri o eretti nella svelta, asciutta, alta figura si notano questi gagliardi soldati italiani dell’Okulè Kusai, del Tigre, dello Scimensana, del Bogos. Gli alti berettoni chiazzano di scarlatto la sfavillante chiarità del meriggio. I piccoli quadri di genere abissino si moltiplicano. I nuovi soldati della Patria hanno i puri occhi mobilissimi soffusi di un colore ambrato scuro come le rocce delle loro ambe guerriere, come le tende d, i loro villaggi trincerati, come il dorso dei loro scudi di combattimento. Sono dei soldati, vi narrano la loro ferita atroce con un rapido fiammeggiare di fierezza e voi chiedete:

— Molto dolore?

— Niente dolore....

Sotto la mitraglia, sotto la lancia, sotto il kurbasc questi ascari non fanno rinuncia di orgoglio e non di. chiarano la sofferenza a nessun costo.

Date libri agli ascari!

Stringiamo la mano ai valorosi del 6.° indigeni e cogliamo in essi un gesto di saluto cordiale, aperto, en bon enfant. Un capitano ci è vicino, ma questi vien salutato con altra espressione negli occhi, con gesto di alto rispetto, di ossequio, di riconoscenza per l’onore ricevuto dalla stretta del superiore. E chiediamo:

— Tu non salutare me come capitano, tu non sapere....

— Capitano è soldato, ufficiale, tu borghese.

Se il ministro della guerra visitasse l’ospedale ed i. suoi ospiti eritrei chiusi borghesemente nella redingote parlamentare, l’ascaro tradurrebbe in dialetto amarico l’ellica! palermitano picchiando dei piccoli colpi confidenziali sulla spalla del generale presentatosi come un borghese qualunque.

Le rapide interviste continuano:

[p. 167 modifica] — Come nome tuo?

— Tacchiè Agos.

— Dove ferito?

— Torace: passata palla di qui, uscita di qui....

— Come stare?

— Bene!

— Sapete scrivere?

— Sì, italiano, leggere italiano.

— Dove libro?

Vediamo il libro: è stato regalato con dedica da un nostro soldato «al prode Tacchiè Agos» E’ il Bandito parigino di Saverio Montépin.

Pare però che il genere di letteratura romantica passionale non sia gradito ai bravi ascari: niente guerra... niente battaglia; essi dicono, è poco bono.

— Poco buono?

— Come teatro italiano....

A Siracusa gli ascari furono condotti a teatro ove si dava Manon. La prima donna aveva naturalmente due duetti sentimentali col tenore, e ciò, diceva Tacchiè Agos, con tanta gente poco bono....

Moniépin, Carolina Invernizio e il romanzo passionale in genere sconvolgono questi guerrieri più che non sconvolgono le sartine. Se qualche lettore o qualche libraio volesse pensare alle ore di noia dei soldati eritrei che, feriti, non gemono affatto nei candidi letti dell’ospedale militare, mandino qualche cosa di genere semplice, con molte guerre e molte battaglie e molte avventure e senza drammi di anime appassionate.

I nostri ascari sono tanto bravi, tanto intelligenti, tanto civili da non ammettere che si possa stampare la Farfalla di Massaua e la Colomba dell’Asmara.

Sogliono andare scalzi e ciò sarà barbaro, ma essi mostrano di non ragionare coi piedi. I cervelli non sono barbari.

Un ex suddito del Negus Neghesti.

Un altro infermo dei 27 che l’ospedale ha accolto nelle belle camerate bianchissime ci accoglie sorridendo.

Fu colpito all’alba della giornata di Bu-Chemez pel primo: il combattimento era appena iniziato. Per la prima volta il bravo Ailomohel era chiamato al fuoco per l’Italia e volle continuare a combattere fino al tramonto. La ferita si fece grave, infetta. Oggi egli è in tristi condizioni, il più sofferente fra i suoi compagni che lo assistono, coi medici, e con gli infermieri dell’ospedale, amorosamente. Al letto tiene sventolante una piccola bandiera tricolore di seta insieme coi simboli della sua fede cristiana.

Ciò non impedisce al suo maresciallo, busbascì, mussulmano, di vigilare e aiutarlo nei dolorosi disagi delle medicazioni.

La diversa religione dei colpiti non toglie nulla alla fraternità dei rapporti; tutti hanno combattuto per l’Italia e all’Italia sono devoti.

Uno ve ne è che ha lasciato Menelik per arruolarsi con gli italiani.

— Molta giustizia per noi, più buoni con noi italiani...

Così dice l’ex suddito del Negus Neghesti.

Il maresciallo Mohamed Adun, da diciotto anni appartiene ai nostri battaglioni indigeni. Le sue benemerenze militari sono grandi. Fu ad Adua, nella colonna Albertone, a Cowit, ad Amba Alagi, ha combattuto al fianco di Ameglio che era maggiore.

— Sai diciamo, Ameglio grande ufficiale....

— So, egli ha occupato Rodi....

— Molto bravo!

— Anche in Eritrea, sempre, molto bravo!

Mohamed Adum parla bene l’italiano e racconta, con date ed episodi, la campagna africana cui ha partecipato da valoroso.

Un capitano lo saluta e insieme rievocano gli episodi delle giornate maggiori della guerra abissina.

— Ferito a Bu-Chemez?

— Sì.

— E, maresciallo, dopo guarito tornerà in Africa?

— Subito.... subito....

— E dove, in Eritrea, dove ha i suoi figli e sua moglie?...

— No, a Bu-Chemez ancora per restituire la mia ferita.

Il maresciallo appare molto intelligente, orgoglioso del suo grado, del suo valore di ufficiale italiano. Ha guidato una centuria di ascari al combattimento del 23 aprile.

Ci dice che tutti i soldati al suo comando, come lui, vogliono tornare a Tripoli, che tutti sono smaniosi di conoscere la lingua italiana.

Alcuni sono usciti per la campagna di Palermo, alle Falde, ma non appaiono soddisfatti di queste passeggiate.

Devesien Minel deplora altamente queste scampagnate.

— Noi tutto dovere vedere.... tutta Palermo, città, non montagna; montagna tanta nostro paese.... Montagna vanno pastori: noi non pastori, noi soldati.... Vedere città....

Ci è subito spiegato perchè codesti ascari non sono condotti facilmente fuori, in città. Il popolino e i ragazzetti nello scorgere la foggia strana del vestire, la tunica bianca e il berrettone rosso col fiocco verde credono di avere fra loro un turco,, un arabo, un nemico insomma e fischiano. Il povero ascaro ne soffre forse di più di quel che non abbia sofferto per la ferita ricevuta nel combattere per l’Italia. Insieme quando li interroghiamo su ciò dichiarano:

— Noi soldati italiani, non turchi, niente fischiare, noi uccisi turchi.... molti turchi.

· · · · · · · · · · ·

Gli ascari in posa!

Il maresciallo chiama a raccolta per i gruppi fotografici. Il camerone è in moto ma solo i convalescenti sono gli eletti. Molti vestono la divisa, tutti s’impennacchiano con l’enorme fez purpureo, i graduati si affannano, con le braccia intorpidite dal male per le lacerazioni dei Mauser arabi, a mettere in mostra i segni del loro grado. Gli ascari sfilano e si mettono in posa. Un mussulmano fra i più ligi al Corano rifiuta vivacemente col gesto energico della mano di posare innanzi l’obbiettivo. Allah proibisce!

Nessun commento, nè protesta. Tacciono i cristiani come i mussulmani.

Nessuna intolleranza, dunque, fra gli ascari. I cristiani passeggiano fieri della grossa croce di Cristo che tengono, non coperta dalla divisa militare, ma sopra di essa in vista. Il segno della fede è rispettato. La massoneria non ha creato triangoli e legge sugli altipiani dell’Asmara e di Cheren. Si può parlare dunque di libertà nell’Asmara ed a Cheren!

Non uniti dalla fede, sono uniti dal dovere di soldato. I riti reciproci sono serenamente osservati. I mussulmani non mangiano certi cibi, i copti-cristiani non ne mangiano altri; gli animali pel pasto dei primi devono essere uccisi dalle mani di un massulmano.... Di conseguenza vi hanno ascari macellai delle due religioni che preparano il rancio diviso per gli uni e per gli altri. Essi sanno però di morire insieme!

Promettiamo a tutti dei libri adatti e delle cartoline illustrate di Palermo.

Ci avviamo verso l’uscita.

— Buon giorno, valorosi! — Bono giorno, signore! Bono giorno! — Evviva gli ascari! Niente fischiare bravi ascari!

Siculo.