Il campiello/Atto IV

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Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Il Cavaliere esce di locanda senza cappello e senza spada.

Io non ne posso più: confesso il vero,

Non ho goduto mai una giornata
Allegra come questa;
Ma non resisto più, mi duol la testa.
Che gridi! che rumore!
Che brindisi sguaiati!
Credo sian più di mezzi ubbriacati.
Vo’ prendere un po’ d’aria, e vo’ frattanto
Che il zio di Gasparina
Mi venga a render conto
Del trattamento suo, ch’è un mezzo affronto.

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Oggi la testa calda ho anch’io non poco;

Se mi stuzzica niente, io prendo foco.
Oh di casa!

SCENA II.

Gasparina sul poggiuolo, ed il suddetto.

Gasparina. (Viene sul poggiuolo.)

Cavaliere. Signora. (salutandola)
Gasparina. Mo cozza vorlo? el vaga via in bon’ora.
Cavaliere. Domando il signor zio.
Gasparina. Oh ze el zavesse!
Cavaliere. Ditemi, cosa è stato?
Gasparina. No ghe pozzo parlar. Zon zfortunada.
Cavaliere. Dite allo zio, che favorisca in strada.
Gasparina. El m’ha dito cuzzì...
Cavaliere. Non vi esponete
A un insulto novel per causa mia.
Ritiratevi pur.
Gasparina. Oh, vago via. (in atto di ritirarsi, poi torna)
La zenta: voggio dir sta cozza zola.
Zior, el m’ha dito una brutta parola.
Cavaliere. E che cosa vi ha detto?
Gasparina. No vorave
Che el me zentizze. Vago via. (come sopra)
Cavaliere. Sì, brava.
Gasparina. Oe, la zenta, el m’ha dito: ziete ziocca.
Cozza vol dir?
Cavaliere. Stolta vuol dire, alocca.
Ma andate via, che non vi trovi qui.
Gasparina. Oh che caro zior barba! alocca a mi?
I dirà che el ze matto,
Ze a dir zte cozze el ze farà zentir.
Ze de mi tutti no ghe n’ha che dir!
Che el ghe ne trova un’altra

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Zovene in zto paeze,

Che capizza el Tozcano e anca el Franzeze.
Che el ghe ne trova un’altra, co fa mi,
Che ztaga notte e dì coi libri in man,
E che zappia i romanzi a menadeo.
Co zento una canzon, l’imparo zubito;
Co vago a una commedia,
Zubito che l’ho vizta,
Zo giudicar ze la zè bona o trizta;
E quando la me par cattiva a mi,
Bizogna certo che la zia cuzzì!
Cavaliere. Signora, vostro zio.
Gasparina. No zon de quelle,
Che troppo gh’abbia piazzo a laorar;
Ma me piaze ztudiar, e ze vien fora
Zotto el reloggio1 qualche bella iztoria,
Zubito in verità la zo a memoria.

SCENA III.

Fabrizio di casa, e detti.

Fabrizio. (Esce, e saluta il Cavaliere senza parlare.)

Cavaliere. Servitor suo. (salutando Fabrizio)
Gasparina. Zerva, zior Cavalier,
Me lazzelo cuzzì? (credendo esser ella salutata)
Fabrizio. La riverisco. (a Gasparina, facendosi vedere)
Gasparina. Oh poveretta mi! (parte)
Fabrizio. Signor, parmi l’ardire un po’ soverchio.
Cavaliere. Son venuto per voi.
Fabrizio. Che vuol da’ fatti miei?
Cavaliere. Non si tratta così coi pari miei.
Fabrizio. Non vi conosco, ma qualunque siate,
Saprete bene che l’onor consiglia

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Di custodir con gelosia una figlia.

Cavaliere. Io non l’insulto, e poi
Non è una gran signora.
Fabrizio. Chi ella si sia, voi non sapete ancora.
Cavaliere. Chi è sono informato;
So che in misero stato è la famiglia,
E che alla fin di un bottegaio è figlia.
Fabrizio. È ver che mio fratello,
Per ragion d’un duello,
Da Napoli è fuggito,
E in Venezia arrivato.
Con femmina inegual si è maritato;
Misero, fu costretto a far mestiere;
Povero nacque, è ver, ma cavaliere.
Cavaliere. Siete napoletani?
Fabrizio. Sì signore.
Cavaliere. Son di Napoli anch’io;
Noto vi sarà forse il nome mio.
Fabrizio. Dar si potrebbe.
Cavaliere. Io sono
Il cavaliere Astolfi.
Fabrizio. Vi domando perdono,
Se il mio dovere non ho fatto in prima;
Ebbi pel padre vostro della stima.
Cavaliere. Lo saprete, ch’è morto.
Fabrizio. Il so pur troppo;
E so, deh compatitemi.
Se parlovi sincero.
Che voi vi siete rovinato.
Cavaliere. È vero.
Son tre anni che giro per il mondo,
Ed è la borsa mia ridotta al fondo.
Fabrizio. Che pensate di far?
Cavaliere. Non so; l’entrate
Son per altri due anni ipotecate.

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Fabrizio. Compatite, signore,

Questa non è la via.
Cavaliere. Non mi parlate di malinconia.
Per questi quattro giorni
Di carnovale, ho del denar che basta.
Fabrizio. Quando terminerà?
Cavaliere. Non vo’ pensar; quel che sarà, sarà.
Voi come vi chiamate?
Fabrizio. Fabrizio dei Ritorti.
Cavaliere. Oh, oh, aspettate;
Siete voi quel Fabrizio,
Ch’era in paese in povertà ridotto,
E che ricco si è fatto con il lotto?
Fabrizio. Ricco no; ma son quel che ha guadagnato
Tanto, che basta a migliorar lo stato.
Cavaliere. Avrete del denaro.
Fabrizio. Ho una nipote.
Che abbisogna di dote.
Cavaliere. Quanto le destinate?
Fabrizio. Se troverà marito,
Darò più, darò men, giusta al partito.
Cavaliere. Ella lo sa?
Fabrizio. Non ne sa niente ancora.
Conoscerla ho voluto, esaminarla,
Ma presto, se si può, vo’ maritarla.
Cavaliere. (Se avesse buona dote,
Quasi mi esibirei
Per aggiustare gl’interessi miei). (da sè)
Fabrizio. (Tre o quattromila scudi,
E anche più, se conviene.
Io sborserei per collocarla bene). (da sè)
Cavaliere. A chi vorreste darla?
Fabrizio. Le occasioni
Ancor non son venute.

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SCENA IV.

Lucietta, Anzoletto, donna Cate, donna Pasqua, Orsola, Gnese, Zorzetto sulla loggia della locanda, e detti.

Lucietta. Oe, sior compare, alla vostra salute, (beve col bicchiere)

Cavaliere. Evviva.
Fabrizio. Con licenza. (al Cavaliere)
Cavaliere. Dove andate?
Fabrizio. Fuggo da queste donne indiavolate. (parte, e va in casa)
Lucietta. Mo cossa falò, che nol vien dessù?
Cate. Ho magnà tanto, che no posso più.
Cavaliere. Animo, buona gente.
Bevete allegramente.
Pasqua. Via, bevemo.
Lucietta. Sior compare, ghel femo. (col bicchiere in mano)
Cavaliere. Bevete pure, compagnia giuliva.
Pasqua. Alla salute di chi paga.
Tutti. E viva.
Lucietta. Zitto, che voggio far
Un bel prindese in rima.
Co son in allegria, mi no me instizzo:
Alla salute del mio bel novizzo.

Tutti. E viva, e viva.
Orsola. Anca mi, presto presto. (col bicchiere si fa dar da bevere)
Anzoletto. Via, sto poco de resto, (versa col boccale il vino ad Orsola)
Orsola. Co sto gotto de vin, ch’è dolce e bon,
Fazzo un prindese in rima al più minchion.

Tutti. E viva, e viva.
Lucietta. Oe, a chi ghe la dastu?
Orsola. Oh che gonza! No sastu? (accenna il Cavaliere)
Cavaliere. Via, bravi, che si rida e che si beva:
Questo brindesi è mio, nessun mel leva.
Anzoletto. Anca mi, sior compare.
Un prindese ghe fazzo

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Co sto vin che gh’ho in man.

Con patto che el me staga da lontan.
Cavaliere. Vi rispondo ancor io, compare amico,
Di star con voi non me n’importa un fico.

Tutti. E viva, e viva.
Pasqua. Son qua mi, patroni.
Deme da béver. (ad Anzoletto)
Anzoletto. Tolè pur, vecchietta.
Pasqua. No me dir vecchia, razza maledetta.
E se son vecchia, no son el demonio:
Alla salute del bon matrimonio.
Tutti. E viva, e viva.
Cate. Presto, presto a mi. (si fa dar da bere)
Senza mario mi no posso star più:
Alla salute della zoventù.

Tutti. E viva, e viva.
Zorzetto. Un prindese anca mi
Vôi far; ve contenteu?
Orsola. Falo, falo, fio mio.
Zorzetto. Via, me ne deu? (chiede da bevere ad Anzoletto)
Sto vin xe meggio assae dell’acqua riosa:
Alla salute della mia morosa.

Tutti. E viva, e viva.
Pasqua. Via, Gnese, anca ti,
Ghe ti xe cussì brava.
Orsola. Fate onor!
Gnese. Deme da béver. (a Anzoletto)
Orsola. Fàghelo de cuor.
Zorzetto. Voggio darghelo mi. (leva la boccia di mano d’Anzoletto)
Anzoletto. Olà! debotto!
Zorzetto. Vardè che sesti!
Lucietta. Tasi là, pissotto2.
Gnese. Co sto vin, che xe puro e xe dolcetto,

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Mi bevo alla salute...

Pasqua. De Zorzetto.
Gnese. No, de sior Anzoletto.
Zorzetto. Vardè che sesti!
Lucietta. Senti, sa, pettazza3,
Te darò una schiaffazza.
Orsola. Oe, oe, patrona?
Pasqua. Schiaffi a chi, scagazzera4?
Cate. Vecchiazza.
Orsola. Tasè là.
Lucietta. Via, frittolera.
Tutti. Cossa? via, tasè là; farò, dirò;
Lassè star; vegnì qua; zitto, sior no.
(tutti insieme alternativamente dicono tai parole, ed entrano)
Cavaliere. Dai brindesi al gridar passati sono;
Questa è tutta virtù del vino buono.
Un disordine è questo.
Ma se vad’io, li aggiusterò ben presto;
E se non vonno intendere ragione,
Da cavaliere, adopero il bastone. (entra in locanda)

SCENA V.

Gasparina sul poggiuolo, poi Fabrizio di casa.

Gasparina. Mo cozza zè zto ztrepito?

Mo la zè una gran cozza in zto campiello;
Me par che ziemo a caza de colù5.
Fabrizio. Per dispetto lo fan, non posso più.
Gasparina. Dove valo, zior barba?
Fabrizio. A ricercare
Una casa lontana, e vo’ trovarla
Innanzi domattina.
Quando fosse ben anche una cantina.

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Gasparina. Mo zi dazzeno, che anca mi zon ztuffa.

Zempre zuzzurri; zempre i fa baruffa.
Fabrizio. Mi fa stupire il cavaliere Astolfi,
Che di simile gente è il protettor.
Gasparina. Chi zelo zto zignor?
Fabrizio. Quel che ho veduto
Fare a vossignoria più d’un saluto.
Gasparina. Lo cognozzelo?
Fabrizio. Sì, è d’una famiglia
Nobile assai, ma il suo poco giudizio
Ha mandata la casa in precipizio.
Gasparina. La me conta qualcozza.
Fabrizio. In su la strada
Vi parlerò? Si vede ben, che avete
Voi pur poca prudenza. Orsù, andar voglio
A provveder di casa innanzi sera; (fa qualche passo)
Oh, mandatemi giù la tabacchiera.
Gasparina. Subito. (entra)
Fabrizio. In questo loco
Parmi d’esser nel foco. Son dei mesi,
Che ogni giorno si sente del fracasso.
Ma non si è fatto mai così gran chiasso.
E poi, e poi, cospetto!
Perdere a me il rispetto?
Meglio è ch’io vada via di questa casa.
Gasparina. Zon qua. (di casa, colla tabacchiera in mano)
Fabrizio. Ma perchè voi? (irato)
Gasparina. Mo via, che el taza.
El za pur, che la zerva zè amalada.
Fabrizio. Io non voglio che voi venghiate in strada.
Dal balcon si poteva buttar giù.
(prende la tabacchiera con collera)
Gasparina. No ghe vegnirò più.
Fabrizio. La madre vi ha allevata
Vil com’ella era nata, e il padre vostro

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Si è scordato egli pur del sangue nostro.

Gasparina. Zior barba, zemio nobili?
Fabrizio. Partite.
Gasparina. Me zento un no zo che de nobiltà.
Fabrizio. Andate via di qua:
Entrate in quella casa,
E non uscite più.
Gasparina. Mo via, che el taza. (entra)
Fabrizio. Fino che l’ho con me, non sto più bene:
Vo’ maritarla al primo che mi viene. (parte)

SCENA VI.

Il Cavaliere dalla locanda e Sansuga.

Cavaliere. L’abbiamo accomodata.

Sansuga. La xe una baronata;
La ghe doveva metter più spavento.
Cavaliere. Io me la prendo per divertimento.
Or ora scenderanno,
Canteran, balleranno;
E questo è il piacer mio,
Veder ballare, e vo’ ballare anch’io.
Sansuga. Vorla el conto?
Cavaliere. Vediamo.
Sansuga. Eccolo qua. (gli dà il conto)
Cavaliere. Settanta lire! che bestialità!
Sansuga. Ghe ne xe più de trenta
De vin, ghe lo protesto;
Porlo spender de manco in tutto el resto?
Cavaliere. Bastano tre zecchini6?
Sansuga. No vôi gnanca,
Che la sia desgustada.
Cavaliere. Eccoli qui.

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Sansuga. E pò ghe xe la bona man a mi.

Cavaliere. Ecco mezzo ducato7.
Sansuga. Obbligatissimo.
Cavaliere. Siete contento ancor?
Sansuga. Son contentissimo.
Cavaliere. Dite che ponno ritornare a basso.
Sansuga. Me par che i vegna; sèntela che chiasso? (parte)

SCENA VII.

Il Cavaliere, poi Gasparina.

Cavaliere. Oh, se finisco il carnevale in bene,

È un prodigio davvero.
La borsa va calando; se Fabrizio
Mi facesse il servizio
Di darmi sua nipote,
Oh, mi accomoderebbe un po’ di dote!
Finalmente è di sangue
Nobile, e se sua madre
Era d’altra genia,
Una dama non fu ne men la mia.
Gasparina. El cavalier Aztolfi.
Cavaliere. Oh mia signora,
Or che so il grado vostro,
Di donarvi il mio cor mi son prefisso.
Nobile siete, il so.
Gasparina. La reverizzo. (sostenuta)
Cavaliere. Lo zio mi ha confidato,
Ch’ambi siam d’una patria, e che ambi siamo
Poco più, poco men....
Gasparina. Già lo zappiamo.
Cavaliere. Egli vuol maritarvi.
Gasparina. Cuzzì è.

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Cavaliere. Volesse il ciel, che voi toccaste a me.

Gasparina. La diga: èlo zelenza?
Cavaliere. Me la sogliono dare in qualche loco.
Gasparina. Che i me diga luztrizzima zè poco.
Cavaliere. Titolata sarete.
Gasparina. Zì dazzeno? (si sente strepito nella locanda)
Cozza zè zto fracazzo?
Cavaliere. Ecco la compagnia; ci ho un gusto pazzo.
Gasparina. Ztar qui no ze convien a una par mio.
La reverizzo.
Cavaliere. Vi son servo.
Gasparina. Addio. (parte)

SCENA VIII.

Lucietta, Orsola, Gnese, donna Cate, donna Pasqua, Anzoletto e Zorzetto.

Orbi, che vengono colla compagnia suonando.

Tutti escono dalla locanda; alcuna delle donne suona il zimbano alla veneziana; donna Pasqua canta alla villotta; ballano alcune furlane, ed anco le vecchie. Vengono altri di strada; si uniscono, e ballano con un ballo in tutti; poi come segue.

Lucietta. No posso più; vien via con mi, Anzoletto.

Cate. Presto, che vaga a collegarme8 in letto.
(parte, ed entra in casa)
Anzoletto. Seu stracca? v’averè cavà la pizza.9 (a Lucietta)
Lucietta. Oe, no volè che balla? son novizza.
(parte, ed entra in casa)
Anzoletto. Eh, co son so mario,
Sangue de diana, che la gh’ha fenio.
(parte, ed entra con Lucietta)
Pasqua. Putti, mi no ghe vedo.

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Gnese. Vegnì via.

Pasqua. Dame man, che no casca, cara fia.
Gnese. Andemo, vegnì qua. (dà mano a donna Pasqua)
Zorzetto. Gnanca un saludo? (a Qnese)
Gnese. Oh matto inspirità!
(a Zorzetto, ed entra in casa con donna ’Pasqua)
Orsola. Tasi, tasi, fio mio: no la xe usa.
Ma da resto, de drento la se brusa. (entra in casa)
Zorzetto. So che la me vol ben;
Per questo no me togo certi affanni;
Ma me despiase sto aspettar do anni. (entra in casa)
Cavaliere. Schiavo di lor signori;
Or che ciascuno è sazio,
Non mi han detto nemmeno: vi ringrazio.
(entra in locanda)

Fine dell’Atto Quarto.

Note

  1. Intendesi la Torre dell’Orologio, allo sbocco delle Mercerie, nella piazza di S. Marco.
  2. Piscialetto.
  3. Gran pettegola. Voce assai comune nelle commedie di Goldoni.
  4. «Pisciacchera»; vol. VIII, p. 168, n. a.
  5. A casa del diavolo: v. Boerio.
  6. Tre zecchini, o ducati d’oro, corrispondevano a lire venete sessantasei (lire italiane 36,04).
  7. Mezzo ducato d’argento conispondeva a quattro lire venete (lire italiane 2.28).
  8. Coricarmi: v. Boerio.
  9. Prurito: v. Boerio.