Il figlio di Grazia/VI

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VI.

Alla fine dell’autunno, una mattina Grazia comparve alla porta dell’asilo col suo bimbone per mano.

«Ah, ecco che arriva il diavolo! Avrò la rivoluzione in scuola!» pensò la maestra molto noiata. Proprio il giorno prima, Marianna de’ Capretti le aveva mandato, insieme a Nocente, la piccola Raffaella, e a maestra non potò a meno di dare un’occhiata a quella povera vittima, quando vide sulla soglia dell’uscio il suo persecutore. Egli aveva nel visone bianco e rosa un’espressione grave, da uomo che sa di intraprendere un serio affare da cui dipenderà forse il destino della sua vita.

Andava a scuola! dunque lasciava la mamma.... dunque si sarebbe trovato con tutti i ragazzi del paese.... Non aveva paura lui, che! la mamma le aveva detto che tutti gli altri bambini, perchè erano più pic[p. 40 modifica]coli di lui e magrini temevano ch’egli potesse far loro del male.... Aveva dunque paura di far del male e provava una gran soggezione della sua robustezza, della sua forza. A volte diceva con gran desolazione: Ma perchè sono così grosso? e se ne vergognava come di una mostruosità. Egli non era di quei soliti bambini robusti dei quali si dice: non par vero che abbia cinque anni, ne dimostra otto. No, il suo viso grassoccio, le sue manotte corte, tutto il suo corpo era da bimbo di cinque anni, ma visto attraverso a una lente che lo ingrandiva: pareva uno di quei puttini più grandi del vero che si vedono scolpiti in certe chiese.

«E poi se faccio male agli altri bambini?» diceva quella mattina prima d’uscire.

«Abbi riguardo quando li pigli per mano, quando li carezzi, quando passi loro vicino, e vedrai che tutti ti verranno intorno senza paura,» rispose Grazia.

«Ma, loro mi vedono forse una faccia da lupo?»

«Ma no, no, caro, vedono bene il tuo caro faccione da bimbo buono! Non pensarci più; vedrai che il tuo vicino di banco ti vorrà subito bene.»

Ma Grazia ci pensava lei più del bambino e si sentiva così nervosa quella mattina, che le fu impossibile di mangiare.

«Signora maestra» disse colla sua vocetta gentile inchinandosi, «le porto mio figlio: io spero che saprà farsi voler bene e ch’ella sarà contenta di lui. A vederlo pare un bambino di scuola elementare, ma ha appena compiti i cinque anni. Finora però la sua robustezza non gli ha portato fortuna. È troppo grosso e forte per poter stare coi bambini della sua età, e troppo bambino per saper stare coi ragazzi. [p. 41 modifica]Ma io spero che lei, così brava, saprà far capire a tutti questi bambini....»

Sul viso della maestra passò come un lampo d’ironia. «Sì, spero di riuscire a far capire al suo Natale che chi è più forte deve essere più buono.»

«Oh se lo sa! non è vero, Natale?» disse Grazia posando la mano sulla testa del suo figliolo. «Ho tanto pregato Dio per questo, fin dal giorno che è nato.»

«Bene, bene,» disse un po’ bruscamente la maestra, e i suoi occhi cercarono di nuovo la piccola Raffaella e fu stupita di vederla col visetto tutto rosso, illuminato da una gran gioia. Ella fissava Natale come per dirgli: «Oh che piacere! sei arrivato! staremo sempre insieme ancora!»

Ma Natale le aveva lanciato un’occhiata seria per farle intendere che non bisognava far sciocchezze.

Grazia si congedò e uscì, dopo avergli accarezzato di nuovo la testa, ed egli rimase ritto in mezzo alla stanza, col suo panierino in mano e gli occhi fissi, attenti sulla signora maestra.

«Va laggiù; nell’ultimo banco» disse lei, «in quello vuoto.»

Quello vuoto! solo! anche a scuola! ma perchè?

Tutti i bambini e tutte le bambine si erano voltati a guardarlo ed egli non guardava nessuno, ma il suo viso era diventato pavonazzo e qualche cosa lo strozzava in gola.

«Ma perchè si sono voltati? io non faccio niente! ma io non ho mai fatto male a nessuno!... Perchè nessuno viene nel banco con me? ma io non mordo, io non sono una bestia cattiva!» pensava, e intanto dal fondo della sua anima tranquilla e buona ribolliva, si gonfiava qualche cosa come una schiuma [p. 42 modifica]amara che gli faceva digrignare i denti e gli metteva nei grandi occhi azzurri tanto dolci un lampo di sdegno.

La maestra cominciò la sua lezione.

«Raffaella, sta diritta, attenta!»

Ma la piccina seguitava a voltarsi e a rizzarsi con un ginocchio sul banco per vedere in fondo.

A un tratto un forte singhiozzo risonò nell’aula.

«Natale piange! Natale piange!» gridarono dieci o dodici, in un tono che non era di pietà.

La maestra gli s’avvicinò: «Cosa c’è? perchè piangi?... perchè la mamma è andata via!»

Egli fece segno di no colla faccia nascosta nel gomito.

«E allora, perchè? parla, dimmelo.»

«Perchè.... sono solo!»

«Solo? dove? qui nel banco? Ma mi posso fidare a darti un compagno? Di’, non lo maltratterai?»

Natale rizzò la testa e la guardò cogli occhi larghi, stupiti, lucenti di lagrime.

«Ebbene, vediamo.» E alzando la voce, la maestra disse: «Chi di voi vuol venire nel banco di Natale?»

Nessuno rispose. Nocente e Richetto si tenevano tranquilli e paurosi più degli altri.

«Vedi....» stava per cominciare la maestra, ma in quel momento vide arrampicarsi su nel banco una piccola testa bruna e ricciuta, la piccola Raffaella, che col viso raggiante disse, mettendosi tutta giuliva accanto a Natale:

«Io! io! vengo qua io!»


Un mese dopo tutti i bambini e le bambine dell’asilo avrebbero voluto essere al posto di Raffaella, [p. 43 modifica]e la maestra invidiava la mamma fortunata di quel caro bambinone.

Com’era forte, serio e dolce insieme! non c’era pericolo che si distraesse un momento durante le lezioni; i suoi occhioni erano sempre fissi sui cartelloni o sulla lavagna e quando toccava a lui di ripetere le lezioni, la sua voce forte e sicura si faceva ascoltare da tutti, inorgogliva la maestra.

Da principio egli aveva coi suoi compagni delle preoccupazioni proprio buffe: pareva che essi fossero di vetro e che ci fosse pericolo soltanto ad accostarli: girava largo per non urtarli, camminava lentamente, guardando di qua e di là; se uno gli prendeva la mano, egli teneva la sua tutta aperta colle dita larghe per paura di stringerlo troppo. Ma poi a poco a poco egli divenne la chioccia con intorno i pulcini.

In una sola cosa egli non riusciva: a intrecciar bene le listerelle di carta e le pagliette; ma era una gara fra le bambine a chi potesse aiutarlo.

«Tu l’hai aiutato ieri, oggi tocca a me.» Ed erano tutte fiere di poter dire alla signora maestra: «Guardi, guardi che bel cestellino ha fatto Natale! l’ha fatto proprio lui!»

«Non è vero,» soggiungeva sempre Natale se sentiva, «io non sono buono se non mi aiutano.»

Durante la ricreazione era un gridare: «Natale, cosa facciamo? Natale, aiutami.» Era lui che inventava i giochi più belli, quello della stalla colle pecore, ch’erano le bambine, col pastore che dormiva e il lupo che veniva di notte per mangiarle. Il lupo era lui; veniva a quattro gambe, facendo un verso lungo, ma le pecore ridevano piano, senza rabbrivi[p. 44 modifica]dire. Natale non faceva loro più paura, neppure come lupo: egli entrava nell’ovile lentamente, annusando colla bocca spalancata, e Raffaella gli si precipitava sempre contro tutta ridente per essere mangiata per la prima.

Allora il pastore si svegliava, chiamava: aiuto! aiuto! e tutto il paese accorreva. Tutto il paese erano i maschietti, con ramoscelli in mano, i quali rincorrevano il lupo che si lasciava prendere e picchiare, buttato in terra, cogli occhi chiusi, rassegnato al suo destino.

In quei momenti, sul suo faccione c’era come una felicità: infatti egli, pigliandosi i colpi, sentendosi tutti intorno quei bambini, pensava sodisfatto: ecco, non hanno più paura, non hanno più paura.

Altre volte giocavano ai contrabbandieri: i sacchi di roba erano le bambine: Natale, lui solo, era la finanza. Alcuni credevano che anch’essa fosse una bestia e gridavano: «Fa il verso, fa il verso!» I contrabbandieri sbucavano di dietro un mucchio di legna ch’era nel cortile dell’asilo; la finanza, di dietro il noce, gridava: chi va là! e cominciavano le fucilate.

Ma il gioco era pericoloso e la maestra lo proibì, perchè nella foga del combattimento i poveri sacchi venivano buttati in terra e qualche volta calpestati. Anche qui però, Natale, cioè la finanza, aveva la peggio, a gran soddisfazione dei ragazzi che gli volevano male, e con gran dolore delle bambine che non sapevano capire come mai lui così grande e grosso non trionfasse mai.

Egli non aveva picchiato che Nocente, due o tre volte, per fargli smettere qualche cattiveria contro un compagno gobbo o contro le bambine ch’egli sempre [p. 45 modifica]tormentava; ma ogni volta era accorso subito dalla signora maestra col viso spaventato a confessare la sua colpa.

La maestra accoglieva la confessione con indulgenza, ma egli insisteva: «L’ho proprio picchiato, picchiato forte!»

«Sì caro; capisco, tu volevi difendere Carlino; un’altra volta non lo picchierai più, vero?»

«No, ma intanto l’ho picchiato, oh signora, l’ho proprio picchiato!» e si guardava le sue grosse mani con un’espressione di rimprovero, come a chieder loro conto di ciò che avevano fatto.

Il giorno dell’esame fu un trionfo per Natale. Le mamme sedute torno torno all’aula, affacciate agli usci e alle finestre del piano terreno, non staccavano gli occhi da quel ragazzo più alto di tutti che aveva una fisionomia più da bimbo di tutti gli altri.

«Natale, aiutami a tirare avanti la lavagna,» diceva la signora maestra. «Natale, stacca quel cartellone; Natale, va a prendere i gessini, cala quella tenda!» Pareva l’assistente della maestra, e tutti trovavano la cosa naturale. Sebbene grande e grosso egli si moveva pronto, disinvolto, facendo ogni cosa con una tranquillità, e una precisione ch’era un piacere a vederlo. E, più strano e ammirevole, era il vedere come non s’accorgesse d’essere preferito; pareva pensasse: sono il più grande, dunque è giusto ch’io faccia quello che gli altri non potrebbero fare.

Chi avesse ben osservato si sarebbe accorto ch’era lui che dava l’intonazione alla classe, com’era il suo vocione che dava la prima nota nel saggio di canto. Quando un bambino interrogato esitava, non trovando le parole, volgeva gli occhi verso Natale quasi invo[p. 46 modifica]cando un aiuto, ed era sicuro di trovare sulle labbra o semplicemente in un cenno del compagno, la risposta.

Nel dialogo, Natale aveva la parte più lunga, e incoraggiate dalla sua voce anche le bambine più timide alzavano la loro, si facevano coraggio gridando in falsetto.

L’esame si chiuse con una poesia di ringraziamento al Parroco e all’Ispettore nella quale quegli scolarini, ormai vicini ai sei anni, promettevano solennemente di diventare bravi uomini e buone donne, e fu naturalmente Natale che la recitò con un vocione che fu udito da tutti, fin da quelli che si pigiavano fuori della porta; ma essi non poterono vedere l’accompagnamento di gesti, finito con un levar di mani al cielo, così eloquente da far piangere tutte le mamme.

Grazia, la cara donnina, tutta rannicchiata in un angolo, col viso rosso rosso, cogli occhi lucenti di lagrime, diceva con fervore in cuor suo: «Dio, vi ringrazio!... Ma vi prometto di non insuperbire.»