Il figlio di Grazia/VII

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VII.

Marianna de Caprezzi non aveva avuto tempo di assistere all’esame de’ suoi figlioli; dopo aver messo loro l’abito delle feste, versata molt’acqua sulla testa di Raffaella perchè i riccioli vi stessero bene appiccicati, era uscita col rastrello e il forcone a rivoltare il fieno sul prato.

Grazia s’era invece di null’altro occupata tutta la mattina che di vestire e pulire il suo Natale, facendogli ripetere tra un’insaponata e l’altra, fra un bottone e l’altro, la poesia che avrebbe recitato all’esame.

Quando, arrivata alla scuola, vide venire Nocente colle scarpe infangate e il viso non lavato, e dietro a lui, a passini lesti, la piccola Raffaella infagottata e così mal pettinata, Grazia provò rimorso di non aver pensato anche a lei. Le pareva fosse un po’ figliola sua quella cara pallottolina che le corse in[p. 48 modifica]contro ridendo, e si dolse che quel giorno, vicino a Natale, ella facesse una così meschina figura.

La prese per mano ed entrò con lei in una botteghina dove si vendeva sapone e candele, olio e stringhe, bottoni e caffè di cicoria, e comperò mezzo metro di nastro rosso, poi, arruffati que’ riccioli neri che parevano impastati, ne prese un ciuffetto che legò col nastro.

«Beata voi, Grazia» disse la bottegaia. «Ci avete il tempo di far belli anche i figlioli degli altri.»

Finito l’esame, Grazia, come per compensare Raffaella d’averla dimenticata, la invitò con Nocente a desinare a casa sua.

«Perchè anche Nocente?» dimandò sottovoce Natale mentre il ragazzetto correva a casa ad avvertire la sua mamma.

«Perchè non è giusto che si faccia godere soltanto Raffaella, oggi che è giorno di festa per tutti e due.»

«Oh, di festa!? Ha risposto così male, e ha sbadigliato così forte da far ridere tutti!...»

«E un povero figliolo che bisogna compatire, sai? non capisce che cosa sia bene e che cosa sia male. Hai visto che non è punto mortificato? anzi, quand’è uscito di scuola era il più allegro di tutti come se fosse riuscito il primo della classe. Oh, ma guarda Perin! Come mai c’è qui Perin?»

Il cagnetto saltava fin sulle spalle di Natale, abbaiando festosamente, e il bambino, stupito di vedersi lì il cane partito due giorni prima per l’alpe col babbo, era però ancor più preoccupato di sollevare alto i santini e il libro avuti in premio, per paura che colle zampe glieli sciupasse.

«Ma guarda un po’! come mai?» diceva Grazia ac[p. 49 modifica]carezzando la bestia. «Si direbbe che ha saputo che oggi tu facevi l’esame....»

Ma chi lo sapeva e non aveva resistito alla tentazione di scendere, era stato Bernardo. Lo trovarono là al cancelletto del prato, un po’ imbarazzato, cercando una scusa per spiegare quella sua inaspettata discesa, ma quando vide la faccia di Grazia tutta rossa e ridente, non riuscì a mettere insieme la bugia.

«Oh oh!» disse ridendo anche lui. «Che nessuno lo sappia, se no ci dicono matti. Sai? quando sono partito incontrai la maestra che mi disse: — Come mai ve ne andate? Non sapete che posdomani il vostro Natale fa l’esame? — Stanotte ci ho ripensato: E se andassi giù? dissi fra me. Ho consegnato le bestie alla Cecca di Lola, e sono arrivato che cominciava a recitare la poesia....»

Qui Bernardo non disse altro, ma afferrò il suo figliolo, e se lo buttò a cavalcioni sulle spalle.

«Papà, guarda le scarpe nuove! guarda le scarpe nuove!»

Bernardo li aveva lì, que’ due piedi, l’uno in una mano, l’altro nell’altra, e ammirò le grosse scarpette con ganci d’ottone lucidi che parevano d’oro, ma poi alzò il viso e spalancò la bocca per chiudersi dentro le manine che sporgevano unite sopra la sua testa.

«Ah, no! il mio libro! il mio libro!» strillò Natale.

La mamma accorse col grembiale steso per raccoglierlo, e il babbo allora nel suo impeto di tenerezza si mise in bocca una manina intiera, mentre Raffaella guardava cogli occhi spalancati, presa da paura che, come l’Orco, quel grosso uomo mangiasse i bambini. Ma l’Orco sollevò anche la donnina paurosa con una delle sue manone, e se la mise su una [p. 50 modifica]spalla accanto a Natale, al quale essa s’aggrappò tutta rallegrata di trovarsi a un tratto così in alto col suo amico.

Per entrare in casa, Bernardo si dovette chinare, e quando si rialzò nella cucina, i due bambini toccavano colle mani il soffitto.

Quella sera Grazia promise a suo marito che mai più avrebbe lasciato entrar Nocente in casa loro. Ah, il cattivo bambino! non poteva veder contenta la sua sorellina senza essere preso dalla tentazione di tormentarla, di farla piangere. Se lei giocava col carrettino andava a strapparglielo di mano; se aveva la gattina in grembo e la stava accarezzando, egli la faceva scappare; un momento che Grazia era uscita lasciando la credenza aperta, egli ficcò il dito nel catino pieno di latte e si succhiò tutta la crema; poi ruppe il traversino di una seggiola, buttò a terra un vaso di garofani e si nascose in tasca un gomitolo trovato sotto la tavola.

«Cerca di fargli del bene fuori di casa,» disse Bernardo a sua moglie «ma fra i piedi non voglio più vedermelo.»

La mattina dopo, Grazia se lo trovò invece in cucina, schioccando una frusta coll’aria d’essere in casa sua.

«Caro bambino mio,» gli disse la buona donnina «non ti pare che tu staresti meglio fuori, nei prati? Vedi, qui è un tormento per te: prima di tutto perchè io ti devo portar via questa frusta per paura che tu leva un occhio al mio Natale o a me, o mi faccia volar giù dalla credenza i piatti. Poi, perchè dovrò metterti fra le mani una scopa per ripulire il pavimento che hai sporcato coi tuoi piedi bagnati e infangati.» [p. 51 modifica]

«Gnau, maramâo!» fece Nocente con una smorfia e scappò fuori: ma arrivato al di là della soglia, fece coi piedi come le galline, raspò nella terra e la fece volar indietro fino a mezzo della cucina.

«Ah, monello! maleducato!» gridò Grazia sdegnata «provati a tornare se ne hai il coraggio!»

Non tornò più, perchè non era coraggioso che da lontano, Nocente; ma riversò sulla sua sorellina il dispetto di non poter entrare in casa di Grazia.

Raffaella quell’estate ci venne ogni giorno: e spesso arrivava cogli occhi rossi, qualche volta con dei segni lividi sulla faccia, ma la sua bocchina era sempre ridente.

«Che cos’hai? Sei caduta? ti sei fatta male?... La mamma forse t’ha sgridata?...»

«No, no,»

«.... forse è stato Nocente?»

«È un po’ cattivo, Nocente; ma non mi ha fatto tanto male,» diceva la piccina con una scrollatimi i testa, come se fosse rassegnata a portare la sua croce.

«Ma cosa t’ha fatto? raccontami! Ti ha picchiato?» le chiedeva Grazia pigliandosela in grembo.

«Non so.... È un po’ cattivo. Ma non mi ha fatto tanto male. Appena un po’» ripeteva sempre sullo stesso tono, sorridendo, proprio per persuadere che non c’era da farne gran caso, perchè era destino di Nocente di picchiare e il suo di pigliarle.

Natale l’ascoltava, dritto davanti a lei, colle mani incrociate di dietro e la faccia rabbuiata, come immerso in una seria riflessione, e per un poco non era possibile farlo parlare nè giocare.

Un giorno chiese alla bambina:

«Perchè non gli dài anche tu un pugno?» [p. 52 modifica]

«Oh,» rispose ella sorridendo. «Io sono una donna.... E poi non mi fa tanto male, sai?» Ma Natale non era sodisfatto di quella risposta: era diventato il suo pensiero dominante quello di castigare Nocente, ma non ne aveva ancora trovato il modo. Finchè duravano le vacanze era molto difficile rincontrarsi, perchè quel monello era sempre in giro, non si sapeva dove, a rubar noci e pere, sempre pronto però a sbucare, quando meno si credeva, dalle siepi per spaventare la sua sorellina quando tornava a casa, o saltarle addosso frugandole nelle tasche, strappandole ciò che teneva in mano.

Natale credeva di proteggere la sua piccola amica accompagnandola fino allo svolto e le diceva sempre: «Non aver paura, io sono un uomo. Venisse anche un orso vedi, io gli vado davanti coi pugni, poi prendo questa pietra, panf! Ecco!» diceva, arrivando allo svolto. «Adesso va pure tranquilla, non c’è più nessun pericolo.»

E se ne tornava a casa sodisfatto, mentre lei, poverina, proprio là allo svolto cominciava ad aver paura. Ma non voleva dirlo, non l’avrebbe detto mai a nessuno, la piccola forte donnina, che il suo fratellino le faceva paura.

Ella si fermava per levarsi di tasca la fetta di focaccia o l’ovo regalatole da Grazia, e se lo teneva pronto in mano per mostrarlo a Nocente, per darglielo subito purchè non la frugasse, non le graffiasse le mani in quel certo modo che la faceva rabbrividire.

«Per te! per te!» diceva trasalendo quand’egli sbucava dalla siepe o si lasciava scivolar giù dal noce: ma invece d’esserle grato della sua generosità, No[p. 53 modifica]cente ne provava ira, e molte volte, in luogo di pigliare il dono, dava un pugno sotto a quella manina stesa e faceva volar tutto in aria: se era un ovo andava a rompersi contro un albero, oppure la focaccia si sbriciolava, ed era allora un dispiacere così forte per Raffaella da strapparle lagrime e grida di dolore. «Almeno darlo alla mamma o a Savina! oh Dio, Dio! almeno darlo a Savina!»

Savina, la sorella maggiore, non le parlava quasi mai, forse perchè aveva troppe cose da fare, ma ella la stava a guardare con ammirazione quando rifaceva i letti stando in piedi su una seggiola, o andando colla testa e le spalle sotto i materassi per rivoltarli. Perchè erano due enormi letti: in uno dormivano i cinque maschi, nell’altro la mamma, la Savina, e lei in mezzo.

Rifatti i letti, Savina spazzava le stanze, andava a prendere acqua, a lavare al fontanile presso la casa, o si portava intorno per la cucina affumicata il piccino che strillava, cercando d’acquietarlo con de’ succioli di mollica di pane inzuppata nell’acqua, in attesa che arrivasse la mamma a dargli il suo latte. Raffaella, quand’era in casa, trotterellava sempre dietro Savina, stando a vedere tutto quello che faceva, dimandandole ogni tanto: «e adesso cosa fai?»

Savina doveva aver piacere di poter almeno scambiare qualche parola colla bimba ch’era tanto tranquilla e carina, ma, chi sa perchè, dopo mezzogiorno le diceva: «Va giù da Natale a giocare. Grazia ti aspetta.»

Forse voleva che almeno lei si divertisse? forse le faceva malinconia di veder che un’altra creatura, quasi appena venuta al mondo, pigliasse già le arie di donnina e vedesse che cosa l’aspettava nella vita? [p. 54 modifica]

Per fortuna i bambini non hanno la memoria tenace dei grandi: essi non vedono che l’ora presente, e la mattina non possono pensare che cosa li aspetterà la sera che è per essi un’epoca lontana, indefinita. Se Raffaella si fosse ogni mattina ricordata bene dell’aggressione che l’aspettava al ritorno, forse avrebbe rinunciato di scendere da Natale; ma erano così belle le ore passate laggiù, in quella casetta in mezzo al prato, così diversa dalla sua! quella casa dove non si sapeva cosa fossero gli stenti, il disordine, i dispetti, le impertinenze, le busse....

Ora Raffaella non si lasciava più rotolare per il prato, ma s’avviava per il sentiero a passini saltellanti, col visetto rivolto in su e la boccuccia semiaperta quasi a bere l’aria fresca che veniva dalla valle. Nei panierino infilato nel braccio aveva due ferri da calza e un legaccio appena incominciato che Grazia le insegnava.

«Quando sarò grande» diceva la piccina «farò le calze per la mamma e per la Savina, per Peppo e per Dolfo, per Maso e per Rico e per Nocente», ch’erano tutti i suoi fratelli. Ella non dimenticava neppure una gamba nuda della sua famiglia, ma dimenticava le sue.