Il pastor fido (Laterza, 1914)/Prologo

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Prologo

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Argomento Atto primo

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PROLOGO

Alfeo, fiume d’Arcadia.

Se per antica, e forse

da voi negletta e non creduta fama,
avete mai d’innamorato fiume
le maraviglie udite,
che, per seguir l’onda fugace e schiva
de l’amata Aretusa,
corse (oh forza d’Amor!), le piú profonde
viscere de la terra
e del mar penetrando,
lá dove sotto alla gran mole etnea,
non so se fulminato o fulminante,
vibra il fiero gigante
contra ’l nemico ciel fiamme di sdegno,
quel son io: giá l’udiste, or ne vedete
prova tal, ch’a voi stessi
fede negar non lice.
Ecco, lasciando il corso antico e noto,
per incognito mar l’onda incontrando
del re de’ fiumi altèro,
qui sorgo, e lieto a riveder ne vegno
qual esser giá solea libera e bella,
or desolata e serva,

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quell’antica mia terra ond’io derivo.

O cara genitrice! o dal tuo figlio
riconosciuta Arcadia!
Riconosci il tuo caro
e giá non men di te famoso Alfeo.
Queste son le contrade
si chiare un tempo, e queste son le selve
ove ’l prisco valor visse e mono.
In questo angolo sol del ferreo mondo
cred’io che ricovrasse il secol d’oro
quando fuggia le scelerate genti.
Qui non veduta altrove
libertá moderata e senza invidia
fiorir si vide in dolce sicurezza
non custodita e ’n disarmata pace.
Cingea popolo inerme
un muro d’innocenza e di virtute,
assai piú impenetrabile di quello
che d’animati sassi
canoro fabro a la gran Tebe eresse.
E, quando piú di guerre e di tumulti
arse la Grecia e gli altri suoi guerrieri
popoli armò l’Arcadia,
a questa sola fortunata parte,
a questo sacro asilo
strepito mai non giunse né d’amica
né di nemica tromba.
E sperò tanto sol Tebe e Corinto
e Micene e Megara e Patra e Sparta
di trionfar del suo nemico, quanto
l’ebbe cara e guardolla
questa amica del ciel devota gente,
di cui fortunatissimo riparo
fúr esse in terra, ella di lor nel cielo,
pugnando altri con l’armi, ella co’ prieghi.
E, benché qui ciascuno

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PROLOGO

abito e nome pastorale avesse,
non fu però ciascuno
né di pensier né di costumi rozzo,
però ch’altri fu vago
di spiar tra le stelle e gli elementi
di natura e del ciel gli alti segreti;
altri di seguir Torme
di fuggitiva fèra;
altri con maggior gloria
d’atterrar orso o d’assalir cignale.
Questi rapido al corso,
e quegli al duro cesto
fiero mostrossi ed a la lotta invitto;
chi lanciò dardo e chi feri di strale
il destinato segno;
chi d’altra cosa ebbe vaghezza, come
ciascun suo piacer segue.
La maggior parte amica
fu de le sacre muse, amore e studio
beato un tempo, or infelice e vile.
Ma chi mi fa veder dopo tant’anni
qui trasportata, dove
scende la Dora in Po, Tarcada terra?
Questa la chiostra è pur, questo quel antro
dell’antica Ericina;
e quel, che colá sorge, è pur il tempio
a la gran Cintia sacro. Or qual m’appare
miracolo stupendo?
Che insolito valor, che virtú nova
vegg’io di traspiantar popoli e terre?
O fanciulla reale,
d’etá fanciulla e di saver giá donna,
virtú del vostro aspetto,
valor del vostro sangue,
gran Caterina, or me n’avveggio, è questa
di quel sublime e glorioso sangue

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a la cui monarchia nascono i mondi;

questi si grandi effetti,
che sembran meraviglie,
opre son vostre usate, opre natie.
Come a quel sol, che d’oriente sorge,
tante cose leggiadre
produce il mondo, erbe, fior, frondi e tante
in cielo, in terra, in mare alme viventi,
cosi al vostro possente, altèro sole,
ch’usci dal grande e per voi chiaro occaso,
si veggon d’ogni clima
nascer province e regni,
e crescer palme e pullular trofei.
A voi dunque m’inchino, altèra figlia
di quel monarca, a cui
né anco quando annotta il sol tramonta,
sposa di quel gran duce,
al cui senno, al cui petto, a la cui destra
commise il ciel la cura
de l’italiche mura.
Ma non bisogna piú d’alpestre rupi
schermo o d’orride balze:
stia pur la bella Italia
per voi sicura, e suo riparo, in vece
de le grand’Alpi, una grand’alma or sia.
Quel suo tanto di guerra
propugnacolo invitto
è per voi fatto a le nemiche genti
quasi tempio di pace,
ove novella deitá s’adori.
Vivete pur, vivete
lungamente concordi, anime grandi,
ché da si glorioso e santo nodo
spera gran cose il mondo,
ed ha ben anco ove fondar sua speme,
se mira in Oriente

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con tanti scettri il suo perduto impero,

campo sol di voi degno,
o magnanimo Carlo, e dai vestigi
dei grand’avoli vostri ancora impresso.
Augusta è questa terra,
augusti i vostri nomi, augusto il sangue;
i sembianti, i pensier, gli animi augusti:
saran ben anco augusti i parti e l’opre.
Ma voi, mentre v’annunzio
corone d’oro, e le prepara il Fato,
non isdegnate queste,
nelle piagge di Pindo
d’erbe e di fior conteste
per man di quelle vergini canore,
che, mal grado di Morte, altrui dán vita,
picciole offerte si, ma però tali,
che, se con puro affetto il cor le dona,
anco il ciel non le sdegna; e, se dal vostro
serenissimo ciel d’aura cortese
qualche spirto non manca,
la cetra, che per voi
vezzosamente or canta
teneri amori e placidi imenei,
sonerá, fatta tromba, arme e trofei.