Il podere (Tozzi)/XV

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XIV XVI

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Quando giunse alla Casuccia, con le gambe indolenzite, come non gli era mai capitato, le tre assalariate stavano per infornare il pane. Ilda si divertiva a guardarle anche per imparare. A ogni fascina secca, che buttavano dentro con la forca, le fiamme s'attaccavano alla volta del forno, gonfiando e traboccando con le punte fuori; infilandosi perfino su nella cappa nera di fumo. Le fascine crepitavano; e le vampate delle fiamme facevano scostare tutte e tre le donne, che avevano il viso affocato e gli occhi rossi di sangue. Ma quando il forno fu caldo, e chiuso con lo sportello di ferro, ebbero a leticare. Siccome tutte e tre avevano il pane che trapassava di lievito, ognuna voleva essere la prima a infornarlo. Dinda e Cecchina erano le più irate. Gegia saliva due o tre scalini di casa, per andare a prendere la tavola con le picce della pasta coperta dentro i cenci di lana; poi ridiscendeva, invece, per dire anche lei la sua. [p. 113 modifica]Dinda piangeva come se l'avessero picchiata, e Cecchina teneva in mano la pala del forno. Dinda le gridò:

— Se mi toccate, guai a voi!

— Io ho poca pazienza.

— E io meno!

— O vediamo, allora, chi avrà ragione!

Gegia si metteva in mezzo, andava al viso dell'una e poi dell'altra:

— E io non ho diritto d'infornare come voi due?

Ma non le badavano, seguitando a letigare tra sè.

Remigio dimenticò subito il processo, e si fece raccontare chi era stata la prima a scaldare il forno.

— Tutte e tre siamo state!

— Non è vero! Le prime fascine l'ho portate su io dal campo.

— Ma le ho ficcate io dentro il forno!

— Se non le avessi portate, però, non ce le ficcavi!

— Vi venga un accidente a voi e a chi v'ha dato da lavorare alla Casuccia!

Siccome Gegia stava zitta, quasi sgomenta, Remigio le disse che infornasse prima lei. La donna in un batter d'occhio, portò giù la tavola della pasta; la sciolse e mise il primo pane sopra la pala. Ma siccome le tremavano le mani e voleva far troppo lesta, un pezzo di pasta le andò in terra. Anche [p. 114 modifica]lei, allora, cominciò a piangere. Ci mancò poco, poi, che si scordasse di fare il segno di riconoscimento sopra il pane: lei ci faceva una fitta con due dita, Dinda ci pigiava un bicchiere e Cecchina ci lasciava un birignoccolo arrotolato con le mani. Remigio domandò alle altre due donne:

— Vi siete messe d'accordo?

Dinda rispose:

— Io faccio come vuole lei.

— Piuttosto che leticare, mettetevi d'accordo; mi pare!

— È quel che dico anch'io.

Ma Cecchina salì in casa e si sbattacchiò l'uscio dietro. Allora, dopo Gegia, infornò Dinda. Cecchina avrebbe voluto essere la seconda, ma quando riaprì l'uscio, l'altra aveva già cominciato. La sera, perciò, raccontò tutto al marito; che, a ogni costo, voleva andare a trovare Remigio per rifarla con lui.

— Sarai a tempo! Ora ti darebbero torto.

— Non me ne importa! Meglio prima che dopo. Gli insegnerò io a mettere bocca nelle faccende che non lo riguardano. Che gl'importava a lui?

E, benchè la donna lo tenesse, aprì l'uscio; ed escì. Ma, a mezze scale, incontrò Tordo; che aveva su le spalle un corbello di pomodori: li portava di nascosto, per farci la conserva; ed erano quelli del [p. 115 modifica]padrone. Berto finse di non vedere, ma andò nell’aia per farsi passare la rabbia, dicendo a voce alta:

— Quello ha più giudizio di me. Ma, domani, ci penserò anch’io.

Si girò per sputare, e vide Picciòlo con un altro corbello carico; che, lesto lesto, a piedi scalzi, entrava in casa. Berto, allora, si mise a ridere:

— Io sono il più furioso, e gli altri intanto pensano alla pancia. Così bisogna fare!

Andò nell’orto; e, a tastoni, si empì un paniere di fagioli; ma la rabbia non gli passava. Invece, gli era venuta la voglia di fare la pelle a Remigio. Dentro di sè lo aveva sempre sentito, anche da giovane, che prima o dopo, un tiro di quel genere, a qualcuno, lo doveva fare. Non si sbagliava, no! Non poteva dormire; e la moglie, che aveva sonno, gli domandava al buio:

— Che hai? Domattina ti devi levare presto, perchè cominciate a segare il grano!

Egli, allora, inventò:

— Mi deve aver punto qualche insetto su le spalle.

— Ti ci duole?

Ma egli non rispose più, e seguitò a rivoltarsi tutta la notte; senza chiudere un occhio. Era impaziente che spuntasse il giorno; e, quando il primo chiarore fece [p. 116 modifica]lustrare lo specchio del canterano, saltò dal letto e escì fuori.

Benchè fosse oria, si sentiva che la giornata doveva venire afosa. Rapidamente, le nebbie della Tressa sparirono; e i contorni di tutti i cocuzzoli apparvero con una durezza limpida. Nella strada passavano i barrocciai, dormendo accovacciati tra la roba; e avevano ancora le lanterne accese. I galli cantavano da tutti i poderi; e nel pollaio della Casuccia le galline razzolavano e crocchiolavano.

Dopo poco, scesero anche gli altri; con le falci e le pietre rotatoie in mano. Picciòlo disse:

— Il padrone dorme ancora. S'ha a destare?

Tordo rispose:

— Non perdiamo tempo: andiamo!

Era già la metà di giugno, e il grano si seccava anche troppo. Qualche altro podere aveva già mietuto. La guazza si asciugava; e il sole, ormai, era per nascere già dai monti bassi.

— Facciamoci dal fontone, — disse Berto.

Tutti andarono da quella parte. Moscino era la prima volta che segava il grano, e faceva l'impaziente. Tordo gli disse:

— Attento alle dita!

— Gliel'ho detto anch'io! — rispose Lorenzo.

[p. 117 modifica]— Io mi faccio il segno del cristiano; perchè questa è grazia, di Dio! — disse Picciòlo.

E si segnò, mentre gli altri aspettavano che cominciasse.

I contadini, ora, per non perdere troppo tempo, mangiavano nel campo. La mattina, le ore affaticavano meno; ma verso il mezzogiorno, pareva impossibile che quegli uomini potessero resistere sotto il sole. Moscino, per fare il bravo, camminava a piedi nudi sopra gli spunzoni del grano segato.

Negli altri poderi accanto, le ragazze lavoravano quanto gli uomini. Una sposa giovane, incinta, con le guance accese e sudate si sollevava di quando in quando, per guardare il grano ancora ritto; e rificcava sotto il mento i nodi della pezzola, che le ricopriva tutta la fronte; mentre le trecce dei capelli, senza forcelle, si allentavano sopra la nuca.

Una brocca d'acqua era nascosta all'ombra, sotto i pampini d'una vite; con due fiaschi di vino chiaro ed agro.

La sferza del sole era insopportabile; gli occhi s'infiammavano, la bocca e la gola doventavano asciutte. Allora, qualcuno lasciava la falce e s'incamminava alla vite, metteva la bocca al fiasco e beveva parecchie sorsate. Ma s'indugiava per riposarsi, guardando gli altri. Le donne gli [p. 118 modifica]sorridevano in silenzio, ed egli ritornava alla sua opera; a testa bassa e le mani penzoloni.

Le falci tutte insieme luccicavano tra gli steli del grano; con un rumore simile a uno strappo rapido. Urtavano, talvolta, sopra un sasso, con un suono languido e smorzato. S'insinuavano curve tra le spighe; e le spighe sbattevano sopra i volti; qualche stelo s'insanguinava dopo aver fatto un taglio o una scorticatura. Allora, il contadino senza schiudere il pugno pieno di messe, si guardava un istante; poi la falce s'affondava ancora, lucida e affilata.

Dietro gli uomini, gl'insetti disturbati saltellavano insieme da tutte le parti, verdi, neri e grigi; mentre certi ragni dalle zampe lunghissime ed esili percorrevano i solchi, sparendo nell'ombra di una fenditura e ricomparendo subito in cima a qualche zolla. Le lucertole scappavano sempre innanzi; qualche ramarro osava indugiare, ma, poi, spariva anche più rapido. Di rado era possibile che qualche vipera fosse tagliata a pezzi; ma i rospi, enormi e nerastri, che restavano come intontiti erano infilati e squarciati con la punta delle falci; poi un contadino, con un calcio, li lanciava dall'altra parte del filare. Qualche cova di ragno s'apriva; e allora gli innumerevoli ragnolini si spandevano in tutti i sensi. Si trovavano nidi abbandonati, con gli uccelli senza penne, [p. 119 modifica]vespai vuoti. I bruchi si rivoltavano sottosopra, rimanendo un poco immobili e poi cercavano di andarsene.

Qualche padrone aveva fatto benedire i campi perchè le passere non mangiassero il grano. Ma c'era chi diceva esser meglio mettere in mezzo alle prese un cencio in cima a un palo!

I branchi delle passere, qua e là, si alzavano verso l'azzurro d'un colore dolce. Qualche campana suonava e si spegneva a un tratto così com'era cominciata.

Si udiva tutto il brusio degli insetti.

Stando vicino ai mietitori si sentiva raccontare da qualcuno che il suo bambino non poteva mangiare più e che era necessario far contraddire il male da quella tale donnetta che si chiamava Sunta del Borgo. La quale sapeva anche rimettere bene al posto le ossa fratturate, mandava via il dolore delle distorsioni, con un unguento di erbe e di midollo d'agnello, guariva il malocchio mettendo tre gocce d'olio in una scodella d'acqua tenuta sopra la testa del malato, scongiurava ogni sorta di male costringendolo a tornare indietro, medicava le resipole e faceva spender poco. Ella si valeva anche di una secrezione gialla, che certi insetti accumulano dentro le loro pallottole di terra, infilate ai fuscelli delle siepi; faceva mangiare il cuore delle rondini, [p. 120 modifica]perchè il senno fosse maggiore; aveva veduto una folla di streghe che facevano la bucata già nella Tressa. E sapeva curare per mezzo dei rosarii, indicando il numero degli ave e dei paternostri.

C'era un'altra donna che girava, da parecchi anni, dall'un paese all'altro senza che nessuno sapesse chi fosse. Andava a capo chino come una suora, e portava sempre la testa avvolta da una pezzuola grossa, di lana; con le mani gonfie sopra il ventre. Aveva il volto grasso, ma pallido e con due rughe che tagliavano di netto gli angoli della bocca affondata sotto il naso adunco. Il suo mento ovale era quasi senza rilievo; i suoi occhi grandi e neri facevano un'impressione strana di misticismo e di cattiveria. Ma tutti le davano l'elemosina, perchè temevano qualche maleficio. Le donne che l'avevano vista, restavano pensose a lungo; finchè non fosse rientrata nella strada e sparita dietro qualche svolta. Ma ella camminava piano, con certe scarpe enormi che pareva dovessero pesare un quintale l'una. Perchè, di quando in quando, si volgeva e si fermava a guardare le case? Che cosa voleva? Le donne dicevano:

— Sarò contenta soltanto quando non la vedrò più.

— Non si sa quando viene, mentre può anche trovarci con i nostri figlioli in collo.

[p. 121 modifica]E se qualcuna allattava, si conturbava e guardava in volto la sua creatura, chiedendo:

— Che hai? che hai? Ti dò il latte. Povera anima mia.

La mietitura della Casuccia durò nove giorni, e ormai era per entrare luglio. Picciòlo era più bravo di tutti ad accatastare i covoni e in cima ci faceva una croce con tre o quattro fili di grano attorcigliati insieme.

Poi, i covoni furono portati su l'aia dove alzarono una gran mucchia, aspettando che cominciasse a passare, per i poderi, la macchina trebbiatrice.