Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Bossolano/IV

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Il grande “crac„

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IL GRANDE “CRAC.„


In quei pochi giorni prima dell’apertura delle scuole, il giovane fece ancora relazione coll’organista, che stava sul suo pianerottolo; e da lui fu presto messo al corrente di tutti gli affari del paese. Era questi uno dei capi originali più ameni ch’egli avesse ancora conosciuti da che aveva fatto la sua entrata nel mondo. Era un giovane straordinariamente pingue per i suoi trentatrè anni, una faccia di luna liscia, a cui il naso voltato in su, il riso beffardo, un cappellaccio a cencio che portava di sbieco, e l’abitudine di far saltare continuamente da un angolo all’altro della bocca un mezzo sigaro toscano masticato, davano un’aria d’impertinenza che avrebbe tirato gli schiaffi d’un santo. Senonchè la sua incontestabile e rara valentìa nella musica, lo zelo davvero esemplare con cui adempiva il suo ufficio d’organista e di capo della banda, e il fondo bonaccione della sua indole, facevano passar sopra alla scioltezza beceresca delle sue maniere e all’audacia sconfinata delle sue opinioni. Repubblicano propriamente non era, benchè, per antonomasia, lo chiamassero il repubblicano; non si accalorava nè contro la monarchia nè in favore della repubblica; e neppure si capiva bene perchè e di che cosa fosse in particolar modo scontento nello stato presente della società, e di politica parlava poco, poichè non aveva opinioni nè aspirazioni ben determinate. Ma per effetto di certo spirito d’avventuriere che portava nel sangue, per un’antipatia che pareva essergli congenita per tutti i cittadini in carica e in fortuna, ai quali stesse a cuore la durata dello stato quo, e anche per una sua strana persuasione che la musica avesse molto a guadagnare da un gran mutamento del mondo, egli non faceva altro che predicare inevitabile e annunziar vicinissima una dissoluzione generale e quasi simultanea, che chiamava il gran crac, di tutto quanto il complesso delle istituzioni e delle fortune presenti, a cui dava il nome generico e spregiativo di baraccone. Quali cagioni immediate dovessero [p. 180 modifica]produrre così presto l’enorme sfacelo, e che cosa sarebbe sorto dalle rovine, egli non diceva nè sapeva. Sapeva e diceva con infaticabile perseveranza che lo sfacelo era certo e imminente. E ne vedeva gli indizi ogni giorno nei fatti in apparenza meno importanti, non solo di politica, ma perfin di cronaca cittadina, che trovasse nei giornali. Ogni mattina e ogni sera, al caffè, interrompeva la lettura dei telegrammi o delle “notizie italiane„ per darsi una fregata di mani e domandare ai vicini: — Ha letto?... Ha sentito?... Legga qui.... Senta questo.... Ma sa che è grave?.... Le dico io che ci siamo.... — e faceva dei commenti iperbolici, lanciando delle occhiate di commiserazione burlesca ai proprietari e alle autorità circostanti, che fremevano. Il curioso era ch’egli non odiava nessuno, che non desiderava più male a Tizio che a Caio: desiderava il gran crac, null’altro. Oh, sarebbe stato qualche cosa di grande davvero, diceva succhiando il sigaro con voluttà; qualche cosa che avrebbe sorpassato tutti i desideri dei mal contenti e tutte le immaginazioni degli spaventati. Sì, il baraccone era screpolato da cima a fondo, scalzato alle fondamenta, tarlato da tutte le parti, e non si reggeva più che per miracolo: un soffio di vento, e si sarebbe sfasciato e disperso come un castello di carte. Ed era così fisso e rapito in questo pensiero che, nei ritagli di tempo, andava componendo un pezzo di fantasìa, intitolato il gran crac, ovvero: la “musica della fin del mondo„ di cui, ogni tanto, dava un saggio agli amici sul pianoforte, strizzando gli occhi a ogni frase d’effetto.

Quest’originale espose le sue idee al Ratti una sera, appunto davanti al pianoforte di casa sua, dove l’aveva invitato a bere un bicchierino di menta glaciale e a sentir quattro note. E vedendogli in mano l’elenco degli obbligati, venne a discorrer del sindaco. — Poh! — gli disse — non si dia pensiero degli obbligati, caro maestro, chè tanto a Bossolano manca chi vuole, e non si danno multe, glielo garantisco io. — E soggiunse con una risata: — C’è il sindaco che ha un spaghetto! Ma le dico uno di quegli spaghetti! — Appena venuto al sindacato, quando s’era istituita l’istruzione obbligatoria, risoluto a far valere la legge, aveva denunziato le assenze al pretore e fatto [p. 181 modifica]infliggere le ammende; ma essendoglisi inimicati per questo vari contadini, e avendolo minacciato per le prossime elezioni, egli, per quell’anno, aveva smesso. Aveva poi ricominciato con le ammende l’anno dopo; ma poichè n’era toccata una, per le assenze della sua bimba, a un braconiere, un uomo manesco e temuto, il quale aveva minacciato di cascare una sera in pieno consiglio comunale col coltello alla mano, egli s’era tanto impaurito da non dar più per tutto quell’anno nemmeno delle amorevoli ammonizioni. Ripreso animo ancora una volta l’anno successivo, aveva ricominciato a far multare; e allora, per tutta risposta, gli avevan tagliato i gelsi e le viti nei suoi poderi; il che l’aveva definitivamente persuaso a lasciar correr l’acqua per la sua china. Ora i parenti mandavano i ragazzi a scuola quando loro faceva comodo. C’eran dei monelli che domandavano al maestro il permesso d’andare a far acqua, e facevano acqua per tre mesi, senza che i loro parenti ne avessero la più piccola molestia. Ed era giustizia, diceva l’organista, perchè gli pareva un’odiosa prepotenza quella di togliere a un cittadino anche la innocente libertà d’essere un asino. Del resto, se pure il sindaco avesse voluto multare, c’era quella povera anima del pretore che si sarebbe ben guardato di fare il terribile; perchè, indebitato fino agli occhi con bottegai e contadini per colpa d’una banda di figliuoli che gli mangiavan la carne addosso e gli rattristavan la vita, gli conveniva di non inasprire nessuno: era anzi ridotto al punto che non si lasciava più veder nella piazza, e per prendere un po’ d’aria, faceva, come dicevano in paese, la strada di circonvallazione, sull’imbrunire. E anche i chiodi del pretore e la paura dell’autorità erano, per l’organista, altrettanti segni del grande cataclisma vicino, poichè volevan dire che il mondo attuale era tutto corroso marcio nelle istituzioni e nelle persone, fin nei più miserabili villaggi. — Sicuro, signor maestro, — terminò col dire. — Lei è proprio capitato nel paese dello spago! — E spiegò al Ratti come non solamente il sindaco, ma il delegato e vari altri vivessero con la paura in corpo d’una certa maestra Bargazzi, una mezza matta che avevan mandata via, ma che poteva ricascare da un dì all’altro a Bossolano a fare uno scandalo, non foss’altro [p. 182 modifica]che con la lingua, perchè aveva una lingua di fuoco e la sapeva lunga su tutti. — Dia tempo al tempo — concluse — e ne vedrà di tutti i colori.