Il secolo galante/Madamigella Aisse
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MADAMIGELLA AÏSSÉ
Il secolo galante | 4 |
La teoria che tende ad assolvere l’uomo da qualsiasi colpa, privandolo di personalità psichica e rimettendo questa all’ambiente ed alla educazione, non manca certo di buone ragioni; ma è per lo meno un tentativo interessante quello di ricercare sulla scorta di documenti sinceri la vitalità innata di certi sentimenti superiori, resistenti a qualsiasi corruzioni, fiori dell’anima, germinati fra i più laidi pantani, che basterebbero da soli a testimoniare l’assoluta esistenza del bene. E non è fra i santi, fra le persone chiamate a radiosi destini, che riesce utile compiere tale ricerca, bensì il più possibilmente vicino a noi, alle nostre debolezze e ai nostri traviamenti; se non troveremo grandi eroismi da ammirare a distanza, ci sarà facile accostare piccole e modeste virtù, le quali non ci scoraggeranno troppo. Sono convinta che riunendo le biografie di una quantità di sconosciuti, vissuti e morti senza celebrità alcuna, ma grandi per meriti intrinseci di sentimento e di carattere, si avrebbe un buon libro di più.
Non vorrei che il proemio mi portasse più lungi di quanto merita l’argomento che sto per trattare, quantunque sarebbe una prova in favore dello sviluppo che possono prendere, strada facendo, alcune idee umili umili. Certo madamigella Aïssé, che si riteneva una grande peccatrice, sarebbe la prima a meravigliarsi dell’importanza data alla sua modesta ed oscura esistenza. Diciamo dunque subito che non si tratta di una donna illustre nè per casato, nè per ingegegno, nè per singolare fortuna, e forse molti fra i miei lettori ascoltano questo nome per la prima volta, non avendo esso varcato le Alpi insieme all’eco gioconda e galante degli scandali che resero celebre il secolo precedente al nostro.
Il conte di Ferriol, ambasciatore straordinario di Luigi XIV alla Porta Ottomana, in uno de’ suoi lunghi soggiorni in Oriente, e precisamente verso il 1698, comperò da un mercante di schiavi una graziosa bambina di circa tre anni o quattro, che mandò poi in Francia a sua cognata, la signora Ferriol, moglie di un ricevitore delle Finanze. Sui vaghi ricordi che la piccina conservava di una infanzia, libera, felice, circondata dal lusso e dal rispetto, in ricche vesti, servita da numerosi schiavi, si congetturò che fosse figlia di qualche potente Capo circasso, ucciso in un combattimento contro i Turchi. Nulla peraltro si sa di positivo, e di questa principesca origine non le restò, se mai, che la nobiltà del volto e dell’animo. La bambina rispondeva al dolce nome di Haïdée, che giunta in Francia si mutò in Aïssé, e con questo nome venne allevata, insieme ai figli della signora Ferriol, considerata in tutto e per tutto come una persona della famiglia. Ella ebbe dunque l’educazione ricercata e raffinata propria dell’epoca, ebbe maestri di ballo, di canto, di bel conversare; conobbe Voltaire, Fontenelle, Saint-Aulaire, Montesquieu; ma conobbe anche madama di Parabère, madama Du Deffant e tutta la schiera di quelle allegre mondane che fecero dire ai Goncourt, a proposito del secolo XVIII, «ce temps où de tout homme à toute femme il y avait une planche glissante.»
Madama di Ferriol, il capo riconosciuto della famiglia, era sorella di quella celebre madama di Tencin, prima monaca, poi degna amica del cardinale Dubois, intrigante pinzocchera e dissoluta sempre. Saint-Simon definisce le due sorelle così: «Belle ed amabili entrambe; madama di Ferriol con maggior dose di dolcezza e di galanteria, l’altra con una superiorità di spirito, di intrigo e di svergognatezza,» e fra la galanteria dell’una e le dissolutezze dell’altra non bisogna dimenticare che correvano accettate, riconosciute, le galanterie e le dissolutezze di una intera società. Era il tempo in cui si diceva colla maggiore semplicità del mondo:
«Madame de Nesle avait pour amant M.r de Montmorency; c’était Rions qui avait fait cette liaison; il a jugé à propos de la rompre et a donné à son ami madame de Boufflers,» producendo in noi la stupefacente impressione di vedere quelle signore trasformate in palle da bigliardo che un abile carambolista fa saltare a suo piacere: le due bianche e la rossa!
È fra questi esempi, fra questi discorsi, in una atmosfera carica di libertinaggio, dove non si conservavano neppure le apparenze del pudore, che la fanciulla crebbe. Crebbe bella, modesta, sensisibile, portata ai sentimenti delicati e ad un ideale di dignità che contrastava troppo coll’ambiente per non procurarle dispiaceri e recriminazioni. Un fondo di tristezza, rimastole forse dalla misteriosa sua origine e da inconfessate nostalgie di orizzonti lontani, le rendeva molte volte penosa la catena di gratitudine che la legava ai Ferriol. Ella aveva trovato nelle rivolte del suo istinto una frase che stigmatizzava tutta una generazione: diceva di non poter amare chi non poteva stimare. Queste parole, in cui è delineata una profonda lotta di coscienza, ritornano spesso nelle sue lettere a madama Calandrini, un’amica di cui la buona Aïssé, a torto o a ragione, questo non conta, si era formata un concetto di rispettabilità dove si rifugiava il suo cuore bisognoso di purezza e di elevazione. La rettitudine del suo sentire le è di guida là dove ogni altra guida le manca. Va a teatro e giudica che nelle parti di amorosa, per quanto violenta la situazione possa essere, un’attrice non deve mai dimenticare che la modestia e il ritegno sono indispensabili. Ciò sorprende da parte di una donna che viveva così prossima alla corte di Filippo d’Orléans, e il motteggio di Voltaire che disse di lei: «Cette Circassienne est plus naive qu’une Champenoise,» uscito dalla bocca di quel grande cinico, è il migliore elogio che le si potesse fare.
Si, madamigella Aïssé era ingenua; lo era ad onta di tutto. Aveva quella vera ingenuità che proviene da un cuore sensibile e da un rispetto innato per la virtù. Tutto ciò che vedeva intorno a lei la feriva senza macchiarla. Giudicava forse che non si potesse cambiare uno stato di cose al quale tutti si adattavano con tanta compiacenza, ma per suo conto ne soffriva, e questa impressionabilità morale, dato i tempi ed i luoghi, può servire di pietra di paragone per quello che sarebbe stata la sua coscienza diversamente illuminata. Inneggiare una verità quando è già riconosciuta da tutti e che la si respira, sto per dire, coll’aria, non è una grande prova in favore l’anima; sentirla, intuirla fra le tenebre e Terrore, ecco ciò che è bello, ed ecco la nota caratteristica della povera schiava, che un gioco del destino aveva balzato dalla semplice culla nativa nel mondo più stolidamente e più ciecamente corrotto, di una corruzione senza grandezza, che a lei, per atavismo di razza, doveva apparire anche più meschina.
Nelle condizioni di madamigella Aïssé un matrimonio non sembrava molto facile; pare che qualcuno avesse pensato a chiederla in moglie nel primo fiorire della sua giovinezza, perchè il signor Ferriol, rispondendo a una lettera di sua cognata, osservava che la fanciulla era molto giovane, ma pure, se il partito fosse buono, conveniva accettarlo. Si potrebbe tuttavia soggiungere che la riflessione sull'età è per lo meno singolare in un tempo in cui le fanciulle di quattordici, di tredici e perfino di dodici anni prendevano marito. (L’esempio veniva dall'alto: Maria Adelaide di Savoia non li aveva neppure dodici anni quando andò sposa al duca di Borgogna). Propendo a credere invece che il partito fosse meno che mediocre o, meglio ancora, che esistesse solamente nel desiderio della signora Ferriol.
Non è facile dire quali altri desiderii sopravvennero a questa degna signora e quali consigli suggerisse alla ingenua Aïssé che si voleva aggregare al serraglio di Filippo d’Orléans, ma ella resistette valorosamente, finchè venne a conoscere l'uomo a cui doveva dare tutto il suo cuore e se stessa.
Nella società dei Ferriol c’erano molti frequentatori di Filippo d’Orléans, il principe che rese famosa la sua reggenza, più che per la saggia direzione data nei primi tempi al suo pupillo, per le cene che riunivano al Palazzo Reale tutti i libertini di Parigi insieme alle peggiori donne; bella e intelligente figura d’uomo che non riesce ad onta de’ suoi disordini, ad essere completamente antipatica e che sua madre, la principessa Palatina, così onesta, franca e leale, descrive senz’ombra di parzialità nelle sue lettere intime: «Temo che mio figlio colla vita sregolata che conduce non potrà campare a lungo. Passa le notti intere nell’orgia e non si corica che alle otto del mattino; per tal modo ha sovente una faccia da spettro. È sicuro che lo uccideranno, ma suo padre non vuole occuparsene, e quello che posso fare io non serve a nulla. Non parliamone dunque più. Tuttavia devo dire ancora che è una gran colpa spingere così mio figlio alla crapula, perchè, se gli si fossero date abitudini migliori, sarebbe tutt’altro uomo. Egli non manca di ingegno, di coltura, e nella sua tenera età si sentiva portato verso tutto ciò che è nobile e buono. Ma da grande fu abbandonato a se stesso e circondato da libertini che gli conducono in casa la peggiore compagnia; egli è talmente cambiato d’aspetto e di carattere che non lo si riconosce più.» Avrà certo saputo la buona signora che questi vizi non erano solamente della Corte francese, poiché l'Elettore di Sassonia spendeva quindici milioni di talleri per le sue favorite ed aveva cinquantatrè bastardi....
Ma fra i giovani signori più o meno stretti nel gruppo di epicurei che circondavano il Reggente vi era un certo cavaliere d’Aydie, amico degli amici dei Ferriol. È incerto dove egli si incontrasse per la prima volta con madamigella Aïssé; pare fosse in casa della marchesa Du Deffant, e un fatto che nessuno dei contemporanei ha mai smentito e che forma il primo titolo di gloria per Aïssé, è la pronta conversione del cavaliere, il quale seriamente preso dalla bellezza della fanciulla e dai suoi meriti, si staccò dalla cattiva compagnia in cui era fino allora vissuto, dando l’esempio piuttosto unico che raro di un vero sentimento d’amore. D’Aydie univa ai pregi di una bella figura un carattere amabile e interessante, per questo le signore lo guastavano un poco. La duchessa di Berry si era compromessa per lui in ciò che in quei tempi si chiamava una passione, ma tutte le donne alle quali egli si era attaccato non avevano saputo trattenerlo; l’ape non aveva trovato il suo fiore. La dolce Aïssé venne a provargli che una persona delicata non può amare se non un oggetto degno della sua stima; applicazione fortunata della sua prediletta teoria e premio a quel retto istinto morale che, venuto a lei da un ignoto atavismo superiore, le servì di faro nelle tenebre fitte fra cui intorno a lei brancicavano le coscienze.
Timide, rispettose, devote furono le premure del cavaliere; egli si mostrò geloso della di lei riputazione, seppe amarla con discrezione, con serietà, con delicatezza. Come avrebbe ella potuto restare indifferente a sentimenti che rispondevano ai suoi propri con si intensa unità di vibrazioni? Era quello l’amore che aveva sognato, tutto pieno di intimi accordi, di affinità profonde e misteriose; fuori, fuori dalle allegre galanterie, dalle voluttà facili e fuggevoli di tutti quegli altri amori che vedeva intorno a sè: nobile e vero in se stesso, doveva apparirle centuplicato di nobiltà per gli immediati confronti, e non potendo illudersi nè di sposare Aydie nè di resistergli tentò con uno sforzo eroico di fuggirlo. Ma il tentativo fu vano; ella lo amò.
Nessuna cornice di romantiche avventure circonda questi amori che furono altrettanto semplici quanto spontanei e costanti quanto sinceri. Considerandoli con sano criterio, la loro originalità risulta in senso inverso, cioè dalla loro stessa naturalezza. Se si raffronta lo stile fiorito dell’opera e le svenevolezze che gli uomini non solo tributavano alle signore, ma si ricambiavano tra loro fino all’abuso degli aggettivi più appassionati, le lettere del cavaliere e di madamigella Aïssé appaiono di un riserbo ammirabile. Tenere, ma di una tenerezza contenuta e signorile, fanno pensare a profumi gelosamente custoditi, dai quali emana solamente a tratti un vago e lontano effluvio. Con quali arti ella sapeva avvincere un uomo viziato dalle dame più belle e più eleganti? Lo si può rilevare da questo passo di una sua lettera alla signora Calandrini: «Je ne mesure point de son attachement. C’est un mouvement naturel chez les hommes de se prévaloir de la faiblesse des autres; je ne saurais me servir de cette sorte d’art; je ne connais que celui de rend’re la vie si douce à ce que j’aime qu’il ne trouve rien de préférable; je veux le retenir à moi par la seule douceur de vivre avec moi». Dell’amore dunque, dell’amore, niente altro che dell’amore!
E perchè il cavaliere d’Aydie non sposò madamigella Aïssé?... La domanda è troppo naturale; molti prima di noi se l’hanno fatta, anzi vi hanno già risposto. Bisogna intanto rammentarsi che non era il tempo dei matrimoni d’amore, e la giovinetta senza famiglia e senza nome non si era neppure lontanamente lusingata di poter entrare nella famiglia d’Aydie; da parte sua il cavaliere, vincolato all’ordine di Malta che prescrive il celibato e cadetto di una di quelle antiche nobiltà dove, per tradizione, il privilegio di prender moglie veniva riserbato al primogenito, non doveva avere mai coltivato progetti matrimoniali e subì evidentemente il fascino dell’eterno femminino senza pensare ad altro, e come avviene quasi sempre negli affetti destinati a durare, la passione procedette per gradi: prima l’ammirazione, poi l’attrazione, la simpatia, il desiderio, infine l’attaccamento unico e completo che non si sa più se maggiormente tenga all’anima od al suo involucro. Una giustizia da rendere al cavaliere è che egli, quando il legame si fece intimo, propose più volte ad Aïssé di sposarla. «Vous serez bien étonnée, madame (è sempre la corrispondenza colla Calandrini) quand je vous dirais qu’il m’a offert de m’épouser. J’ai trop de délicatesse pour me prévaloir de l’ascendant que j’ai sur son coeur, ed quelque bonheur que ce fût pour moi de l’épouser, je dois aimer le chevalier pour lui-même. Jugez comme sa démarche serait regardée dans le monde s’il épousait une inconnue qui n’a de ressources que la famille de M.r Ferriol. Non, j’aime trop sa gloire et j’ai en même temps trop de hauteur pour lui laisser faire cette sottise. Quelle confusion pour moi d’apercevoir tous les discours que l’on tiendrait! Pourrais-je me flatter que le chevalier pensât toujours de même à mon égard? Il se repentirait assurément d’avoir suivi sa folle passion et moi je ne pourrais pas survivre à la douleur d’avoir fait son malheur et de n’en être plus aimée.»
Qualcuno potrà osservare che questa donna ragionava troppo e che tanta previdente saggezza mal si accorda colla cecità che si suole attribuire all’amore. Ma ognuno ama col proprio temperamento, e in madamigella Aïssé, il sentimento del decoro, della dignità, della rispettabilità, sopravvivendo al totale abbandono di se stessa, imprime appunto alla sua passione quel carattere elevato che la rende tanto simpatica. Ella ha maggiore delicatezza che sensualità; non si appaga dell’ora presente; pensa alla carriera di lui che un matrimonio disuguale potrebbe pregiudicare, non solo, ma distruggere con tardivi rimpianti il soave incanto di quel legame che ella voleva non pesasse sull’amico suo più che una catena di rose.
Non so perchè l’amore così interpretato debba essere da meno della furia erotica che spinge a cieche ed irreparabili follie.
E non è nemmeno senza scrupoli per se stessa e senza rimorsi e senza profondi, intimi tormenti ch’ella si abbandonava all’amore. Gli scrupoli anzi vanno sempre crescendo. Spera che Dio avrà pietà di lei, ma non si dà pace della sua colpa. Confessa di essere in amore la persona più felice del mondo, ma si strugge della sua falsa posizione che pur non vuole mutare. La nascita di una bambina avvince sempre più i due amanti, ma raddoppia le pene di Aïssé.
Anche questo grave avvenimento della maternità, come tutti gli altri della sua vita, fu ravvolto nelle ombre e nel mistero. Una fedele amica, lady Bolingbroke, donna di molto cuore e di molto ingegno, finse di condurla con sè in Inghilterra, e aiutata dal cavaliere che non abbandonò mai il suo posto, colla scorta della buona Sofia, cameriera devota e ammirabile, la bambina venite al mondo lungi dalla famiglia Ferriol, della quale Aïssé temeva tanto i beneficii quanto la complicità. Il convento di Notre-Dame de Sens accolse, appena svezzata, questa figlia dell’amore, che i suoi genitori sorvegliarono sempre con tenerezza contenuta, che Aïssé andava a trovare in forma di amica od a cui mandava, quando non poteva fare diversamente, la buona Sofia.
Pensare alla bimba, seguirne lo sviluppo promettente, economizzare per metterle insieme una piccola dote, ecco il fondo segreto della suà vita oramai votata al sacrificio di tutto ciò che non fosse abnegazione ed amore. I lunghi soggiorni del cavaliere nelle sue terre del Périgord e quelli di Aïssé, che seguiva dovunque i Ferriol, li dividevano spesso. Stavano tre o quattro mesi senza vedersi, nè il loro legame ne soffriva, al contrario si persuadevano sempre più della indissolubilità del loro affetto; affetto malinconico, soave, dai fascini pallidi ed evanescenti di un breve meriggio nordico fra due vesperi sconfinati; nobile affetto che sembra proiettare sul principio del secolo materialista gli ideali di ètà remote, di un’altra razza, di un altro cielo. Sotto le balene del corsetto a punta di madamigella Aïssé è il cuore di Haïdée che batte, è la principessa orientale fatta prigioniera che si vela ancora nella dignità e nel riserbo nativo.
Se donne da lei tanto diverse come la Du Deffant e la Parabère le rimasero attaccate fino all’ultimo, è appunto perchè la indovinavano di una altra razza, troppo lontana dai loro intrighi e quasi fuori del loro cammino. Forse quando la Parabère le faceva trovare sulla specchiera o un taglio d’abito o un panierino di sete da ricamo o una tabacchiera di diaspro, rispondeva al bisogno incosciente che provano certi temperamenti passionali, facendo delle offerte a coloro che intuiscono più pure e più buoni.
Intanto la salute di Aïssé deperiva. Ella morì nel 1733, ma fino dal 1728 scriveva: «J’ai vieilli de dix ans; si vous me voyez, vous ine trouveriez bien changée; mai, d’honneur, cela ne me chagrine point du tout. Si toutes les femmes n’étaient pas plus affligées de voir partir leurs chai’mes que moi d’avoir perdu le peu que j’en avais, elles seraient bien heureuses.» E nel 1732: «Je suis extrémement maigrie; mon changement ne parait pas autant quand je suis habillée. Je ne suis pas jaune mais fort pale; je n’ai pas les yeux mauvais; mais le déshabillé n’est pas tentant, et mes pauvres bras qui; mème dans leur embonpoint ont toujours été plats, sont cornine deux cotrets.»
Durante questo lungo periodo di sofferenze tin cui la tisi la minava sordamente ella potè esperimentale quanti cuori le fossero devoti. Il cavaliere sembrava pazzo di dolore. Le mene di alcuni maligni che avevano lavorato di calunnia per separare i due perfetti amanti non avevano avuto risultato che di unirli maggiormente. Le sue inquietudini per la salute dell’amica facevano pena quasi quanto la malattia stessa. Fu allora che la signora Ferriol domandò se Aissé lo avesse stregato. Ella non poteva comprendere un amore sopravvissuto agli stimoli della bellezza.
Ma alle affettuose sollecitudini de! cavaliere e di Sofia si aggiungevano quelle molto più singolari della marchesa Du Deffant e della sua intima amica, una donna che per la posizione sociale, per la vita, per la galante celebrità del suo nome, per la straordinaria leggerezza di carattere e di costumi, sembrerebbe la meno adatta alle funzioni di amica e di infermiera presso una povera creatura quale era ormai ridotta madamigella Aïssé. Si tratta della marchesa di Parabère, favorita del Reggente e d’ altri molti in una misura incalcolabile, poiché si dice che nessuno la eguagliasse nella pronta sostituzione di un amante ad un altro, tanto cito nella sua lunga carriera mondana non le accadde mai di restarne priva neppure un giorno. Non appena un astro tramontava e prima ancora che le lagrime dell’abbandono fossero rasciugate, ella puntava i begli occhi sull’astro nascente. Il suo motto doveva essere: Il re è morto, viva il re! Un contemporaneo la definisce: viva, leggera, capricciosa, altera, violenta. Era bella, bruna, e, contrariamente alla moda, non portava nè cipria nè belletto; per ciò Filippo d’Orléans la chiamava il mio piccolo corvo.
Tale l'amica che Aïssé, sempre riguardosa del decoro, accolse non senza qualche esitazione, vinta alla fine dallo slancio e dalla sincerità della marchesa, che riscattava i suoi peccati con una grande franchezza, un abbandono generoso ed una totale assenza di calcolo. Aïssé ne scriveva così alla solita corrispondente: «Elle a une amitié pour moi ed une complaisance telle qu’on l’aurait pour une soeur chérie. Pendant ma maladie elle quittait tout pour venir passer des journées auprès de moi; enfin elle ne veut pas que j’en puisse aimer d’autres plus qu’elle, hors le chevalier et vous. Je lui ai donné una grande idée de mon amie et telie qu’elle la mérite. Plut à Dieu qu’elle vous ressemblàt et qu’elle eut quelques-unes de vos vertus! Elle est de ces personnes que le monde et l’exemple ont gàtées et qui n’ont point été assez heureuses pour s’arracher du désordre. Elle est bonne, généreuse, a un très bon coeur, mais elle a eu de bien mauvais maitres.»
Non è dunque per cecità o per indifferenza che Aïssé accetta l’amicizia della Parabère. Ella pesa i meriti e le colpe di questa grande traviata e riconosce le colpe, ma la compatisce, la compiange, procura di intenderla. Ciò è tanto più meritorio se si pensa che, severa con se stessa, ella non si era mai data pace del suo unico peccato, e precisamente in quegli ultimi anni della sua esistenza si sentiva più che mai tormentata dal bisogno di redenzione. Le lettere alla Calandrini vi alludono spesso: «Je passe sous silence mes remords; ma raison m’en fait naitre; Lui et ma passion les étouffent. Quelques rayons d’espéranc? d’une fin, d’une conclusion, aident bien à m’égarer, mais il n’est pas en mon pouvoir de les abandonner.»
E altrove: «Vous me trouvez trop sensible et trop peu détachée; mais qu’il est difficile d’éteindre une passion aussi violente et qui est entretenue par le retour le plus tendre, le plus vif, le plus flattcur! Mais, madame, les efforts que je fais, aidée de la giace, me feront surmonter toutes mes faiblesses.» Più avanti ancora: «Enfin, madame, soyez récompensée de vos bonnes oeuvres. Je me rends à mon Créateur. Je travaille de très bonne foi à me défaire de ma passion et je suis très résolue à abandonner mes erreurs. Si vous perdez la personne du monde qui vous est la plus attachée, songez que vous avez travaille à la rendre heureuse dans l’autre vie.» In seguito ad una crisi che si credeva l’ultima trova ancor la forza di scrivere: «La pauvre Sophie a souffert tout ce qu’il est possible de souffrir; elle craignait de m’alarmer elle voulait avoir l’air assure, elle faisait tout ce qu’elle pouvait pour ne pas pleurer. Vous savez comme elle est pieuse; elle était inquiète pour non âme.»
Questo pensiero di una confessione generale continua a preoccuparla. La signora Ferriol è sua sorella Tencin ne approfittano per fare propaganda di partiti; la circondano, la assordano colle loro agghiaccianti discussioni sui molinisti e sui giansenisti. Aïssé non ne vuol sapere di aride chiesuole; ella invoca solamente un ministro di Dio. Finalmente si decide: «A l’égard de mon àme j’espère que dimanche prochain elle sera délivrée de toutes ses iinpuretés. Vous serez étonnée quand je vous dirais que mes confidentes et les instruments de ma conversion sont mon amant et me* sdames de Parabère et du Deffant et que celle dont je me cache le plus c’est celle que je devrais regarder comme ma mère (madame Ferriol). Vous ètes surprise, je le vois, du choix de mes confidentes; elles sont mes gardes, surtout madame de Parabère, qui ne me quitte presque point et a pour moi une amitié étonnante. Elle, ses gens, tout ce qu’elle possède, j’en dispose comme elle et plus qu’elle. Elle se renferme chez moi et se prive de voir ses amis. Elle me sert sans in’approuver ni me désapprouver, c’est-à-dire n’a écoutée avec amitié, m’a offert son carrosse pour envoyer chercher le Pére Boursault (il confessore) et emmène madame Feriol pour que je puisse ètre tranquille.» Rendiamo giustizia alla marchesa di Parabère. La migliore fra le donne non avrebbe potuto fare di più.
La decisione di staccarsi da ogni pensiero impuro, anche nel caso di un ritorno alla salute, perseguita l’anima pura e nobile di Aïssé. Ne parla a d’Aydie in modo serio e delicato, facendo appello alla elevatezza de’ suoi sentimenti, ricordando la dolcezza dei loro vincoli, che se un pegno vivo d’amore rendeva sacri, si sarebbero anche più purificati nella rinuncia di se stessi. Il cavaliere la tranquillizza, le dice che pur di vederla felice non le chiederà mai con quali mezzi e che tutti gli sembreranno sopportabili purché non sia scacciato dal di lei cuore. Ed eccoci all’ultima lettera di Aïssé: «Je suis bien heureuse en tout; tout ce qui est autour de moi me sert avec affection; la pauvre Sophie a des soms demon corps et de moli àme étonnans; elle m’a donné de si bons exemples qu’elle m’a presque forcée à devenir plus sage; elle ne m’a point prèchée, son exemple et son silence ont eu plus d’éloquence que tons les sermons du monde. Je ne vous parie point du chevalier; il est au désespoir de me voir aussi mal jamais on n’a vu une passion aussi violente, plus de délicatesse, plus de sentiments, plus de noblesse et de générosité. Je ne suis point inquiète de la pauvre petite... elle a un ami et un protecteur qui l’aime tendrement. Adieu, madame, je n’ai plus la force d’écrire. La vie que j’ai menée est bien miserable. Pourquoi serais-je effrayée de la separation de mon àme puis que je suis persuadée que Dieu est tout bon et que le moment où je jouirai du bonheur sera celui où je quitterai ce misérable corps?»
L’impressione generale che rimane, separandosi da madamigella Aïssé, non appartiene alla categoria violenta che ci lasciano i temperamenti passionali o le grandi intelligenze. Ella non appare una donna eccezionale per ingegno o per passione a chi le vede sorgere da presso madamigella Lei spinasse, bruciante d’amore fino alla morte; ma ella ebbe una coscienza, e questo merito, raro sempre, sopratutto raro nei periodi decadenti, è di quelli che bisogna apprezzare molto, molto, molto. Difatti che cosa mancava alla Parabère, che pure aveva pregi di intelletto e di passione, se non la coscienza? Che cosa mancava al cavaliere d’Aydie, tanto nobile, tenero, fedele, se non una coscienza più forte che gli permettesse di vincere gli scrupoli soverchiamente delicati della sua amica e ricoverarla sotto l’egida del proprio nome? Egli non l’abbandonò, è vero; riconobbe la figlia e toltala di convento, riuscì a maritarla con una discreta dote al visconte di Nanthia; e continuarono ognora fra padre e figlia i buoni rapporti; ciò fa onore al cavaliere, non v’ha dubbio, ma pure sentiamo che se egli ha fatto parte del suo dovere, non ebbe però l’impulso generoso di compierlo tutto.
Madamigella Aïssé, che gli fu pali in amore e fedeltà, lo superò in questo: ella aggiunse il sacrificio. Noi assistiamo ai lento martirio di questa donna, che si strugge tra una affezione irregolare ed un bisogno irresistibile di purezza, che al di sopra di tutto ciò pone ancora il maggiore vantaggio di colui che ama, e le siamo grati di farci sorgere in cuore un sentimento di fiducia nella natura umana.