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Il vicario di Wakefield/Capitolo decimosesto

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Capitolo decimosesto

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo decimosesto
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CAPITOLO DECIMOSESTO.

La famiglia usa scaltrimenti che sono rintuzzati da altri maggiori.

Quali ch’esser potessero le sensazioni della Sofia, il restante della famiglia si consolò facilmente della lontananza del signor Burchell, mercè la compagnia del nostro padrone, le di cui visite di dì in dì diventavano più frequenti e più lunghe. Quantunque a lui non riuscisse di procacciare alle mie figliuole gli spassi della città come n’avea fatto disegno, volse però ogni cura a supplirvi con quelle picciole ricreazioni che il nostro ritiro concedere poteva. D’ordinario egli veniva la mattina, e intanto ch’io e ’l mio figliuolo eravamo fuori a’ lavori, sedeva in casa colla famiglia, e con sommo diletto di lei le descriveva a parte a parte tutta la città di cui quel sacciuto non ignorava la minima inezia. Egli ripeteva i cinguettamenti più minuti che occorrono sotto l’atmosfera tutta quanta del teatro, e sapeva a mente tutte le arguzie dei begli ingegni molto tempo prima che si vedessero stampate nel calendario. Fra l’un discorso e l’altro egli insegnava alle fanciulle il picchetto, o qualche volta aizzava i ragazzini a giocare a’ pugni per iscaltrirli, com’ei solea dire. Ma la speranza di averlo genero un dì ci chiudeva gli occhi sulle sue imperfezioni tante. La buona moglie mia di vero gli tese mille lacci perchè egli desse nel calappio, o per dirla più gentilmente, usò d’ogni arte per ingrandire i meriti delle figliuole. Se le cialde pel tè erano ghiotte ghiotte e agevoli a sbriciolarsi, già le aveva cotte la Livia; se il vino d’uva spina pareva alquanto polputo, i grappoli gli aveva colti la Livia: i diti di lei davano quel sì bel verde all’insalate; nè si apprestava sanguinaccio, se ella giudiziosa non ne dettava prima la ricetta. Quella povera donna s’ingegnava il meglio ch’ella sapesse; ed ora [p. 92 modifica]diceva sorridendo allo scudiero ch’egli e l’Olivia parevano della stessa statura, ora pregava entrambi d’alzarsi in piedi e misurarsi per vedere chi fosse più piccolo. Questi erano da lei stimati i più fini tratti d’una impenetrabile astuzia, la quale però le venía letta in fronte da ogni fedel cristianello. Il nostro benefattore aggradiva volentieri quella familiarità, e dava ogni giorno qualche nuova testimonianza del suo affetto. Comecchè non si fosse mai parlato di matrimonio, nondimeno ci credevamo prossimi ad udirne un’aperta dichiarazione; attribuendo noi la sua lentezza ora ad una tal quale modestia innata, ed ora a timore d’incontrare lo sdegno di suo zio. Ogni dubbio finalmente fu tolto da un caso accaduto poco dopo, e che mia moglie risguardò come una promessa assoluta.

Andando un giorno Debora colle figliuole a visitare il nostro vicino Flamborough, trovò che quella famiglia s’era fatta fare i ritratti da un pittore che vagava per la provincia, i quali erano somigliantissimi e non costavano che quindici scellini cadauno. Siccome le due famiglie in certo qual modo mantenevano viva tra di loro una gara di buon gusto; il non preveduto colpo avventato con que’ dipinti al nostro amor proprio, ci mise in non poco travaglio: ad onta di tutto ciò ch’io mi dicessi, e molto dissi, incaponite le donne determinarono che noi pure dovessimo avere i nostri ritratti: ed io che oppor mai poteva, che mai dire? Chiamato adunque il pittore, si tenne consiglio acciocchè spiccasse la maggioranza del nostro buon gusto negli atteggiamenti. I ritratti dei Flamboroughs erano sette, tutti sette figurati con una melarancia in mano, cosa non più affatto di moda; non varietà nel disegno, non pensiero, non vita. Noi desideravamo uno stile più animato; e dopo molti dibattimenti fu stabilito ad una voce di farci dipingere tutti insieme in gran quadro indicante alcun fatto istorico della famiglia. Costava meno, bastando un sol telaio per tutti; e riusciva di lunga mano più bella cosa, perchè ogni famiglia che avesse un [p. 93 modifica]micolino di sale in zucca voleva essere ritratta a quel modo. Non tornandoci in mente così su due piedi un soggetto che solleticasse abbastanza, ci contentammo di tante figure istoriche indipendenti l’una dall’altra. Mia moglie bramò d’essere rappresentata come una Venere, e fu pregato il pittore di non andare avaro di gemme intorno al capo e sul petto. I due ragazzini dovevano fingere, l’uno a destra e l’altro a man manca, due amorini; ed io dinanzi a lei in veste lunga e cintura, in atto di presentarle i miei libri sulla controversia Whistoniana. Olivia volle che l’artista lei figuràsse un’Amazone seduta sovra di un poggiolino di fiori, in abito succinto e snello di color verde guernito d’oro, e in mano una frusta. Sofia doveva essere una pastorella in mezzo a tante pecore quante il pittore ne avesse voluto schiccherare gratuitatamente; e Mosè vestito in grande sfarzo con piume bianche nel cappello. Piacque allo scudiero la nostra idea, tanto che pregò e scongiurò di venir dipinto nello stesso quadro anch’egli sotto l’aspetto di Alessandro il grande a’ piedi di Olivia. Fu creduto da tutti noi che così volesse egli manifestare il desiderio d’essere congiunto davvero colla nostra famiglia, e parve necessario di ciò compiacergli.

Laonde il pittore si accinse all’opera; e lavorando lestamente senza divagamento, in meno di quattro giorni la terminò. Il quadro era grande; e bisogna confessare ch’egli non vi usò economia di colori, per lo che mia moglie fugli sommamente liberale di lodi. Soddisfatti noi del suo travaglio, eccoti all’impensata una sciagura di cui istupidimmo. Appena finito il quadro, ci accorgiamo che non v’ha luogo in sulla casa ove fissarlo, tanto egli è sterminato. Pare impossibile che non abbia posta mente prima alcun di noi a cosa di tanto momento; ma egli è fuor di dubbio che tutti eravamo stati oltre ogni dire negligentissimi. In vece di appagare la nostra vanità come avevamo sperato, vedi adunque quella pittura appoggiata umilmente al muro della cucina, dove era stato disteso [p. 94 modifica]il canavaccio e dategli le tinte. Ella era troppo alta, dagli usci non si poteva far che si passasse, sicchè fu d’uopo lasciarla ivi esposta al ludribio di tutti i terrazzani. Chi la paragonava alla barcaccia di Robinson Crusoè, tanto grande che a nessuno riusciva di smuoverla; chi ad un arcolaio in un fiasco; ed altri facevano le maraviglie come non vi fosse modo di cavarla fuori, ma più ancora trasecolavano in pensando come la vi fosse entrata.

Ma se quella favata moveva alcuni a riso, in altri destava le più maligne suggestioni; perchè dall’essere unito ai nostri ritratti quello dello scudiero, ridondava alla mia famiglia troppo alto onore a cui l’invidia non la perdonava. Surse a nostro danno un mormorare scandaloso che si diffuse per tutto; e la nostra tranquillità veniva tratto tratto disturbata da persone che correvano come amici ad avvertirci del gracchiare dei nostri nimici. Erano accolte queste novelle con disinvoltura e col dovuto risentimento; ma dalle altrui opposizioni lo scandalo trae sempre più vigore. Si pensò al modo di far tacere la malignità altrui, e venimmo finalmente in una deliberazione che a me non piaceva gran fatto, perchè sentiva troppo dello scaltro. Più d’ogni altra cosa importava lo scoprire quanto vi avesse di onore nelle dimostrazioni amorose del signor Thornhill: e mia moglie s’impegnò di parola di volerlo scandagliare, fingendo di chiedergli parere sulla scelta d’uno sposo per la figliuola maggiore. Se ciò non bastava a strappargli di bocca una dichiarazione schietta, lo si sarebbe spaventato col nominargli un rivale. Per nessun conto io voleva acconsentire a quest’ultimo passo; ma la Olivia sagramentava essere ella disposta a maritarsi al rivale qual ch’egli si fosse, in caso che il signor Thornbill non l’avesse voluta egli stesso. Tanto dissero e fecero, che s’io non mi arresi interamente, non mi opposi neppure con alacrità a tale proponimento. La prima volta che il signor Thornhill venne a visitarci, le fanciulle non si lasciarono trovare, affinchè la mamma [p. 95 modifica]potesse dare liberamente esecuzione a quanto s’era concertato. Si trassero soltanto però nella camera vicina, dov’era facilissimo l’origliare. Mia moglie incominciò destramente narrando come una delle zittelle Flamboroughs stava per fare un buon partito sposandosi al signor Spanker; e lo scudiero rispondendo che, sì, ella proseguì a dire come a chi aveva ricchezze non mancava mai buon marito; “Ma sciagurate le mèschine che non hanno quattrini! E che vale la bellezza, che valgono, signor Thornhill mio, le virtù tutte della terra e tutte le abilità in questo secolo interessato, avarissimo? Ognun grida: quanto ha di dote colei? e nessuno mai sogna di domandare quanto sia ben educata.” — “Commendo moltissimo, madama,” replicò egli, “la giustezza e la novità delle vostre osservazioni; e s’io fossi re, la cosa certo andrebbe diversamente: allora sì che vedreste venire il tempo della bonaccia per le fanciulle povere, e le prime a cui vorrei procurare provvedimento sarebbero le due nostre giovinette.”

“Ah signore! a voi piace di berteggiarmi. Io sì vorrei essere una regina, e saprei ben io allora additare alla mia maggiore uno sposo che non avrebbe pari. Ma giacchè mi avete destata questa corda; da senno, signor Thornhill, fate voi di propormi un marito che le si convenga. È di diciannove anni, florida, rigogliosa; ha una buona educazione; e nol dico già per superbia, ma nel mio umile cervello fo pensiero ch’ella sia propio compita se alcuna lo fu mai.”

“Se stesse a me lo scegliere, vorrei frugar tanto finchè mi venisse rinvenuto un uomo sì ben forbito di tutto punto da poter fare felice anche un angelo. Una persona prudente, ricca, di buon gusto e d’ottimo cuore dovrebbe essere, a parer mio, lo sposo ch’ella merita.” — “Eh sì! ma ne conoscete voi alcuno su quel torno?” — “No, in fede mia: egli è un volere urtare il capo nel muro l’andare in cerca d’una persona degna d’esserle [p. 96 modifica]marito. Ell’è troppo tesoro per un uomo; ella è una divinità. Vi giuro sull’anima che le mie parole sono ad una ad una dettate da quel ch’io sento, e ch’ella è un angelo.” — “Signore, voi ficcate carote, e troppo adulate la mia povera figliuola; ma noi ora stavamo pensando d’accasarla con uno, de’ vostri fittaiuoli, il quale, mortagli non ha guari la madre, abbisogna di una donna assai casalinga: voglio dire il castaldo Williams. Egli è danaroso, nè teme freddo, e sapralla ben mantenere. Ha già lasciate scappar di bocca diverse domande; ma amerei avere da voi l’approvazione d’una tale scelta, prima di fare groppo con esso lui.” — “La mia approvazione! oibò oibò! sagrificare tanta bellezza e bontà e intelletto ad un pezzo di stupido, a un orecchiuto villanzone che non sa discernere la buona fortuna, nè perdio la merita! Perdonatemi; ma io non approverò mai codesta ingiustizia, e n’ho le mie ragioni."

“Se avete le vostre ragioni, allora la cosa cambia di aspetto; ma mi fareste sommo favore a manifestarmele.”

“Scusatemi, madama, sono scolpite qui dentro profondamente (ponendosi la mano al petto), nè si possono così di leggieri trarre al giorno: qui qui stanno sepolte, inchiodate.”

Dopo questo e’ partì; e noi chiamatici a raccolta, non sapevamo indovinare che si volessero que’ suoi gentili sentimenti. Olivia li considerò come argomento di una sviscerata passione; ma io non mi sentiva tanta confidenza in cuore, parendomi che le parole di lui sapessero d’amore più che di matrimonio. Checchè però se ne potesse pronosticare, stabilimmo di tener dietro alle mire del fittaiuolo Williams, il quale fino dal primo apparire in que’ paesi della mia fanciulla l’aveva adocchiata con tenerezza.