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Il vicario di Wakefield/Capitolo decimosettimo

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Capitolo decimosettimo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo decimosettimo
Capitolo decimosesto Capitolo decimottavo

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CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

Qualunque virtù è manca per resistere alla forza di lunga e gradevole tentazione.

Niuna cosa mi stava a cuore quanto la vera felicità de’ miei figliuoli; e le visite del signor Williams non mi dispiacevano perchè egli era discretamente agiato, prudente e sincero. Poco vi volle per incoraggiarlo e ridestare in lui l’antica passione; e venuta la terza sera, s’incontrò egli a casa nostra col signor Thornhill. Entrambi si guardarono in volto per alcuna pezza dispettosamente: ma Williams che di fitti non era debitore al suo padrone, poco se ne curò della collera. Dal canto suo Olivia faceva la civetta ottimamente, se pure può dirsi far la civetta, quando si spiegano tutte le maniere del proprio carattere senza studio alcuno; ed affettava di prodigare col nuovo amante ogni maggior tenerezza. Il signor Thornhill mostrò d’essere angosciato in vedendo l’altro preferito; e come in gran pensieri, senza molte parole prese licenza. Questo mirare così travagliato un uomo a cui stava in mano il tôrsi di dosso pienamente la sciagura, dichiarando onesta la sua passione, mi imbarazzò non poco la mente; nè mi veniva distrigato il perchè. Ma per grande che fosse l’inquietudine dell’anima sua, appariva di lunga mano sbattuta da più crudele tempesta quella d’Olivia. Molte altre volte i due amanti si trovarono insieme a conversare con lei; e sempre dopo ch’eglino se n’erano andati, ella si ritirava in qualche parte solitaria a sfogare col pianto l’affanno del povero suo cuore. In questo stato io la sorpresi una sera dopo ch’ella aveva per lunga ora mantenuta sul viso una finta serenità. “Tu vedi, figliuola mia,” le dissi, “tutta la tua confidenza nell’amore del signor Thornhill risolversi in fumo: egli soffre la rivalità [p. 98 modifica]d’uno che gli è da meno in tutto e per tutto: pure egli sa di poterti far sua con una candida dichiarazione.

“Sì sì, o padre; ma questo indugiare di lui non è senza ragioni, e il so ben io. La sincerità delle sue parole, de’ suoi sguardi mi convince ch’egli davvero mi tiene in istima. In breve io spero che i suoi generosi sentimenti si faranno palesi, e ti persuaderanno che io giudico del signor Thornhill con più equità che nol fai tu.”

Ed io: “Olivia, viscere mie, tutto quel che si è fatto per indurlo a spiegarsi, fu da te suggerito e con te concertato; nè puoi dire ch’io vi ti abbia costretta. Ma non credere che io mai m’induca a patire che quel buon uomo del rivale sia fatto zimbello dei tuoi inganni con questa tua mal posta passione. Qualunque spazio di tempo tu richieda per sortire il tuo fine ed aver dal sognato amante una chiarezza sulle sue intenzioni, ti sarà conceduto; ma se il termine ne giunge senza che tu venga a capo di nulla, mi è forza il dirti ch’io assolutamente vorrò premiata la fedeltà dell’onesto Williams. Il tenore della mia vita mi sforza a questo passo, e la tenerezza di padre non potrà mai distormi dai doveri d’uom probo. Stabilisci dunque il dì, e sia pur lontano quanto tu ’l vuoi; ma frattanto abbi cura di avvertire il signor Thornhill dell’epoca in cui io intendo di maritarti ad un altro. S’ei t’ama di vero cuore, avrà buon senso che basti per avvedersi, non vi essere che un mezzo solo con cui evitare di perderti per sempre.”

Ella dovette convenire che il mio divisamento era giudicioso e giustissimo, e vi si accomodò; ripetendo le più solenni promesse di volere sposare il signor Williams in caso che l’altro persistesse nella sua insensibilità. Però colto il primo momento opportuno, alla presenza del signor Thornhill appuntossi il mese ed il giorno per le nozze d’Olivia col rivale di lui.

Questo procedere franco e risoluto sembrava [p. 99 modifica]accrescere nello scudiero l’ansietà; ma l’ambascia vera d’Olivia mi accorava. Combattuta ella a vicenda dalla saviezza e dalla passione, sentiva a poco a poco illanguidirsi la sua tanta vivacità, e cercava disiosamente la solitudine per ivi lagrimare a sua posta. Passò una settimana, nè Thornhill tentava di stornare gli sponsali: la settimana appresso venne egli assiduamente; ma nè una parola per aprirci il suo cuore. Dopo quindici giorni troncò del tutto le visite; e la mia figliuola anzi che dare a vedere alcun segno di rammarichío, ritenne un certo piglio tranquillo e pensieroso ch’io ascrissi a rassegnazione. In quanto a me, non mi capiva in petto la gioia in pensando che alla mia figliuola non sarebbe mancato nè pane nè pace mai in casa Williams; e ogni tratto la lodava di aver preferita la vera felicità all’ostentazione.

Conchiusa ogni cosa, non erano omai lontane che di quattro giorni le nozze: quando una sera la mia famigliuola ragunata intorno a un bel fuoco se ne stava favoleggiando dei casi passati e de’ futuri, e mescendo al novellare festivi motti e sogghigni; ed io rivoltomi a Mosè domandava che gli paresse di quello sponsalizio, invitando lui a dir chiaramente il suo senno.

“Padre mio,” rispose egli, “le cose vanno benissimo; ed io pensava ora appunto che quando la Livia sarà maritata al castaldo Williams la ci presterà gratuitamente il torcolo pel sidro e i tini per la cervogia.”

“Bene sta, buon ragazzo; e il suo marito per soprammercato ci rallegrerà spippolando la canzone della Morte e Madonna.”

“Egli l’ha insegnata al nostro Ricciardetto; e poverino s’ingegna d’imitarlo discretamente.”

“E dov’è quel bambolo mio? Venga venga, e ce la canti senza soggezione.”

“Ricciardetto se n’è ito là colla Livia,” disse Guglielmino; ma io ho imparati ancor io due canti dal signor Williams, e li gorgheggerò volentieri pel mio caro padre. [p. 100 modifica]Qual più ti aggrada? la ballata del cigno moribondo o l’elegia in morte di un cane arrabbiato?”

“Fanciullino mio, l’elegia, l’elegia: non l’ho udita mai. E tu, Debora, sai che la malinconia induce sete; va’ dunque a prendere un fiasco del miglior vino d’uva spina per confortarci. Ho tanto lagrimato un tempo per mille altre elegie, che senza d’un bicchieretto che mi ristori son certo di rimanerne oppresso. E tu, Sofia, amor mio, accompagna il piccino strimpellando meglio che sai la tua chitarra.”

ELEGIA IN MORTE DI UN CANE ARRABBIATO.

     Venite ad ascoltar la canzon mia;
         E s’ella è corta a mal non vel recate,
         Chè più presto così n’andrete via.
     Buone genti, convien che voi sappiate
         Comequalmente in Iselin vivea
         Indiebusilli un uom pien d’onestate.
     Un santerello il mondo lui credea,
         E per ver non a torto, ogniqualvolta
         Inginocchiarsi a Dio lo si vedea.
     Nel suo tenero cor di pietà molta
         Per amici e nemici egli sentiva;
         Anima in somma a far del ben rivolta:
     Ch’ogni mattina, quando e’ si copriva
         Del suo giubbone, si potea ben dire
         Che l’ignudo pitocco egli vestiva.
     Nella sua terra si solean nodrire
         A iosa i cani e botolin, molossi,
         Bracchi e barboni vi s’udian guaire.
     Uno di quelli in amistà legossi
         Coll’uom dabbene, e compagnia gli tenne:
         Finchè una lite tra di lor levossi,
     D’onde il mastino a tal pazzia divenne,
         Che al buon amico rivolgendo i denti,
         Ispresso un morso gli appiccò solenne.

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     Piangeva l’altro; e al suon de’ suoi lamenti
         Sbigottito uscì fuora il vicinato,
         E d’ogni parte accorsero le genti,
     E gridarono: «Ahi pazzo, ahi cane ingrato!
         Bestia arrabbiata che non hai cervello,
         Perchè mordere un uom sì bencriato?»
     Parve a giudizio d’ogni cristianello
         Profonda la ferita. «E’ muor perdio!»
         Giuraron tutti; «e’ sta per far fardello.»
     Ma un miracol si vide: e quell’uom pio
         Ai bugiardi indovin diede la soia;
         Ch’ei sano e salvo del suo male uscío,
     Ed issofatto il can tirò le cuoia.

“Oh viva, viva, buon Ricciardetto! Ell’è un’elegia che si potrebbe per mia fede chiamar tragica. Vuolsi bere alla tua salute. Deh che tu possa un giorno diventar vescovo!”

“Glielo auguro dal fondo dell’anima,” disse mia moglie; “che s’egli predica sì bene come e’ canta, ciò gli riuscirà senza dubbio. Poffare il cielo, come sapea ben portare le voci tutto il parentado di lui dal lato di madre! Era proverbio nella nostra provincia comunissimo, che la famiglia dei Blenkinsops non sapeva mai fissar gli occhi innanzi, nè quella degli Hugingsons soffiare nella candela; che non vi aveva individuo de’ Grograms che non cantasse, nè de’ Marjorams che non avesse sempre istoriette da raccontare.” Checchè si fosse, io le risposi che in generale ogni menoma volgare ballata di tutta quella gente a me piaceva assai più delle moderne composizioni cascanti di vezzi e tutte smancerie, sicchè ne basta una sola stanza a ristuccare chicchessia, e le quali noi detestiamo nello stesso tempo che vogliam lodarle. “Il gran fallo di codesti scrittori d’elegie, continuai a dire, è quel disperarsi che tutti fanno per isciagure le quali non possono destare che scarsa pietà nelle anime sensibili de’ lettori. Appena una dama perde il suo manicotto, il ventaglio o il cagnolino, [p. 102 modifica]che tosto il babbuasso poeta corre a casa a metterne in versi come finimondo quella disgrazia.”

Mosè allora replicò che forse si usava così ne’ componimenti più sublimi; ma che i canti che ci pervenivano dal Ranelagh1 erano familiarissimi e tutti di un getto. Collin trova Dolly, s’intrattiene con esso lei, le dona uno spilletto comperato alla fiera da porre nelle trecce, ed ella gli regala un mazzolino di fiori; poi s’avviano entrambi insieme alla chiesa ove salutano le ninfe e i pastorelli, consigliando ognuno con savi detti ad affrettare le nozze.

“Ottimo ammonimento!” esclamai io; “e non vi ha luogo per certo nel quale più si convenga il compartirlo, ov’io debba credere ciò che mi si dice; perchè se tu al Ranelagh persuadi altrui il matrimonio, ivi ancora gli puoi dare la sposa. E per verità non vi può essere mercato migliore di quello in cui ci si fanno conoscere i nostri bisogni, e nello stesso tempo ne viene somministrato il provvedimento.”

“Pur troppo vero tu di’, caro padre; e di cotali mercati di donne due soli, ch’io sappia, esistono in tutta Europa, Ranelagh in Inghilterra e Fontarabia in Ispagna. Quello di Spagna non si apre che una volta l’anno; ma le nostre mogli inglesi sono vendibili ogni sera.”

“Hai ragione, figliuol mio” saltò in mezzo mia moglie. “La vecchia Inghilterra è il luogo più adatto del mondo per chi vuole scegliersi una consorte.” — “E per le donne che bramano menar pel naso i mariti,” dissi io interrompendola. “È detto tritissimo per tutto il continente d’Europa che se fosse costrutto un ponte attraverso il mare, tutte le donne accorrerebbono in Inghilterra a tôrre esempio come vivere dalle nostre, perchè in tutta Europa non vi son donne come le Inglesi. Ma, Debora mia, il fiasco è vuoto; daccene un altro, ten prego; e tu pónti a cantare, o Mosè. Quanto non dobbiamo noi essere [p. 103 modifica]grati di questa tranquillità al cielo, della salute, della vita riposata ch’egli ci accorda! Parmi ora di sentirmi più felice del maggior monarca che v’abbia al mondo; e certo egli non siede mai a un così bel focolare coronato da volti così cari, così gioviali come codesti. Moglie mia, noi invecchiamo; ma la sera della nostra vita vuol essere felice. I nostri antenati furono illibati mai sempre, e noi lasceremo dietro una schiatta di buoni figliuoli e virtuosi. Eglino saranno nostro sostegno e nostra consolazione finchè vivremo; e morti noi, manderanno alla posterità immacolato l’onore della famiglia. Su presto, mio buon Mosè, tocca a te a intonare; bramerei che voi tutti cantaste a coro. Ma dove è la Olivia? La di lei vocina da cherubino sempre vien discernuta fuor delle altre per quella sua cara dolcezza.”

Io non aveva ancor finito di dire, quando Ricciardetto, a tutta foga accorrendo, “Ah padre! ah padre!” esclamò, “ell’è partita; la Livia è fuggita da noi e per sempre.” — “Fuggita di’ tu?” — “Sì sì, partita con due gentiluomini in un calesso da posta, ed uno la baciò dicendole che sarebbe morto per lei volentieri. Ella gridava, strepitava, voleva tornare indietro; ma colui la persuadette di nuovo: poi salita nel calesso l’udii dire: Oh! che sarà del mio povero padre allora ch’egli saprà ch’io sono rovinata!”

“Oh figliuoli miei, miserabili tutti quanti! Non v’è più un’ora sola di gioia per noi a sperare. Cada sovra di lui, sovra i suoi l’eterna ira di Dio. Rapirmi così la mia fanciulla! Oh sì! lui farà maledetto Iddio che vede tôrsi quell’innocente creatura già da me indirizzata sulla via del cielo. Quanto eri tu candida, Olivia mia! Ma tutta la nostra terrena felicità è sparita. Andatene, andate, figliuoli miei; voi sarete miserabili ed infami. Ahimè infelice! il cuor mi si squarcia.” — “E questa, o padre, è la tua fortezza d’animo?” esclamò il mio figliuolo.

“Fortezza?” ripigliai, “sì, sì; colui vedrà ch’io ne [p. 104 modifica]ho. Presto date a me le pistole: l’inseguirò il traditore, lo perseguiterò finchè egli avrà piedi sulla terra. Vecchio come io sono, vedrà ch’io lo saprò ammazzare. Ahi scellerato, perfido scellerato!”

Io aveva già stese le mani alle pistole, già m’avviava; quando la mia povera moglie alquanto più in senno di me, gittommi al collo le braccia scongiurandomi a deporre il pensiero di vendetta, e dicendomi non convenire oramai altre armi alle mie mani antiche fuorchè la Bibbia; che se io quella avessi aperta e letta, l’ira e l’angoscia si sarebbero rivolte in pazienza; e intanto piangeva ella stessa il tradimento vile della fanciulla. Dopo alcun silenzio Mosè ripigliò a dire: “Per verità, la tua rabbia, o padre, è troppo violenta, e ti si disdice. Dovresti essere tu il confortatore di mia madre, e tu non fai che raddoppiarne il cordoglio. Non istava bene a te e al tuo venerando carattere il maledire così il tuo nimico; per quanto egli sia malvagio, tu nol dovevi no maledire.” — “Nol feci io, no; ma che di’ tu? l’ho forse io maledetto?” — “Due volte, o padre mio, due volte.” — “Il cielo me ne conceda perdono, e perdoni anche a lui. O Mosè, Mosè, veggo pur troppo che chi primo c’insegnò a benedire i nemici avea pieno il cuore d’una benivoglienza più che umana. Ah sì! il nome santo di lui sia laudato per tutto il bene ch’egli dà e per tutto quello ch’egli toglie. Ma non è, no, poca sciagura questa che sforza al pianto i miei occhi antichi che già da tant’anni non han lagrimato. Oh dolore! Trarmi in rovina la mia prediletta! Oh sia colto quel tristo dalla collera... Non ascoltarmi, o mio Dio: non so quel che io mi dica. Sovvienvi quanto ell’era buona, quant’ella era amabile e vezzosa! Infino a questo orribile momento ella non pose altra cura che nel render felici noi. Oh foss’ella morta almeno! Ma ella se n’è fuggita; l’onore della nostra famiglia è contaminato, e non è più questo il mondo ove io sperar possa mai pace. Tu l’hai veduta partire, o Ricciardetto: forse [p. 105 modifica]quell’uomo l’ha strappata a forza? Oh! se così è, ella può essere tuttavia innocente.” — “No no, padre; egli non fece che baciarla e chiamarla l’angelo suo; ed ella lagrimava dirottamente, s’appoggiava al suo braccio, e camminarono entrambi stretti stretti l’un l’altro.”

“Ell’è una ingratissima creatura;” esclamò mia moglie, la quale pel gran pianto a mala pena potea proferir le parole. La vile bagascia non ebbe mai chi ponesse il menomo impedimento agli affetti di lei; pure ha abbandonati da infame i genitori senza esserne provocata, per trarre in tomba il tuo capo canuto e perchè io ti debba in breve seguitare.”

Di tal maniera nell’amarezza dei lamenti e negli scoppi de’ nostri cuori accesi di rabbia e trafitti orribilmente dal dolore, si passò quella notte, la prima delle nostre vere sciagure. Io determinai non pertanto di rinvenire ove che fosse l’ingannatore e rinfacciargli la sua indegnità. Venne il mattino, si apprestò la colazione; ma l’infelice fanciulla non v’era, nè più le sue dolci parole ci rallegravano l’anima. Mia moglie tentò novamente di dar sollievo all’ambascia prorompendo in rimproveri: “No no,” gridava, “non sarà mai che quella disonorata, quel vituperio di nostra famiglia torni a contaminare quest’innocente abituro, nè ch’io la chiami ancora figliuola. Ella meni la sua vita la svergognata in compagnia del sozzo di lei seduttore. Farci morire di vergogna potrà ben ella, ma ingannarci non più.”

“Frena, o donna,” diss’io, “le troppo acerbe parole. Al pari di te io sento lacerarmi, e detesto con orrore pari al tuo il delitto della fanciulla: ma l’uscio della mia casa e il cuor mio saranno aperti sempre al peccatore pentito che ritorna in grembo della prima innocenza. Quanto più presto ella abborrendo i suoi falli correrà al mio petto, con tanta più festività sarà da me accolta. Per la prima volta anche il più santo può errare, poichè le arti altrui possono giungere a persuadere, e l’incanto della [p. 106 modifica]novità allettare chicchessia. Il primo fallo è frutto della inesperienza; ma ogni altro è partorito dalla colpa. Quella sgraziata sarà sempre da me ricevuta con amorevolezza, s’ella fosse anco macchiata di mille vizi. Io porgerò ancora volentieri orecchio all’armonia della sua voce, e poserò il mio capo sul seno di lei in segno di tenerezza, purch’io la sappia pentita. Dammi, o figliuol mio, la mia Bibbia e il mio bastone, ch’io voglio andarne in traccia dell’infelice; e se non mi è dato di risparmiarle l’infamia, farò almeno ch’ella nella iniquità non perseveri lungo tempo.”

Note

  1. Luogo vicino a Londra ove si tengono frequentemente accademie di canto e di suono.