Ione (Euripide)/Quarto episodio

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Quarto episodio

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Euripide - Ione (413 a.C. / 410 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Quarto episodio
Terzo stasimo Quarto stasimo
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli


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Entra, correndo esterrefatto, un servo di Creúsa.

servo

Dove trovar potrò, donne, la celebre
d’Erettèo figlia, la Signora? Io tutta
la città corsi, e piú non la rinvenni.

coro

Compagno mio, che c’è? Quale ti spinge
zelo di piedi, e che novelle rechi?

servo

Ci dàn la caccia! Della terra i principi,
perché di pietre spenta sia, la cercano.

coro

Ah, che vuoi dir? L’occulta insidia nostra
contro il fanciullo fu dunque scoperta?

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servo

Giusto. E a soffrirne tu non sarai l’ultima.

coro

Come scoperta fu l’ascosa trama?

servo

Macchia il Nume non volle; e trovò modo
che piú d’iniquità valesse il giusto.

coro

Come? Parla, ti prego! Allor ch’io sappia,
men grave mi parrà, se pur morire
debbo, la morte, e piú cara la luce.

servo

Poi che lo sposo di Creúsa, il tempio
abbandonò del Nume, e col novello
suo figlio mosse ai sacrifici offerti
ai Celesti e al convito, ei stesso andò
dove danza del Nume il fuoco bacchico,
perché bagnasse il sangue delle vittime,
mercè del figlio ritrovato, il duplice
sasso di Bacco. — «E tu, figlio, rimani
— disse — e la tenda d’ogni parte chiusa
fa’ che sorga, per opra degli artefici.

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E se troppo io, sacrificando ai Numi
genetliaci indugio, a banchettare
comincino gli amici». Ed i vitelli
prese, e partí. Solennemente il giovine
eresse, senza adoperar mattone,
del padiglione le pareti, sopra
pali diritti, calcolando il campo
del sole a punto, che, né verso i raggi
di mezzogiorno fosse esposto, né
a quelli di ponente; e la misura
prese d’un plettro, a forma di rettangolo,
cosí che l’area, per usare il termine
degli architetti, era di cento piedi;
ché tutto a mensa ei convitar voleva
il popolo di Delfo. E poscia, tratti
dall’arche i sacri paramenti, oggetto
di meraviglia a tutti, ombrò la tenda.
Sul tetto pria l’ala di pepli stese,
doni votivi del figliuol di Giove,
spoglie ch’Ercole offrí, tolte alle Amazzoni,
al Nume Febo. Ed intessute v’erano
queste figure. Un ciel che nella spèra
dell’ètra tutti radunava gli astri.
Elio volgeva alla postrema fiamma
i suoi cavalli, e si traeva dietro
la bianca luce d’Espero. La notte
dal negro peplo il suo carro spingeva,
senza redini al giogo; eran compagni
gli Astri alla Dea. Correvano le Plèiadi
a mezzo l’etra, ed Orïon, che il ferro
stringeva; e sopra, all’aureo polo intorno,
l’Orsa volgea la coda; e dardeggiava
dall’alto il disco della calma Luna

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che i mesi parte, e, segno securissimo
ai nocchieri, le Íadi, e la foriera
di luce Aurora, che discaccia gli astri.
Sulle pareti altri distese poi
barbari drappi: le veloci v’erano
navi nemiche degli Ellèni, e miste
forme umane ed equine, e di cavalli
cacce, e catture di lion’ selvaggi
e di rapidi cervi, e su le soglie
del tempio, innanzi alle sue figlie, Cècrope
che si snodava nelle anguinee spire,
voto di qualche Atenïese. E in mezzo
del convivio posò gli aurëi vasi.
Sovra il sommo dei pie’ l’araldo allora
surse, e fe’ bando che al convito acceda
chi vuol dei cittadini. E come fu
piena la tenda, cinti al crine i serti,
le brame sazïâr di lauto cibo.
E smesso che il piacer n’ebbero, un vecchio
si fece in mezzo, e coi suoi buoni uffici
provocò grande ilarità: ché l’acqua
attingea dalle brocche, e la porgeva
pei lavamani, e della mirra il succo
bruciava, e presiedea, ch’ei sé medesimo
a tale ufficio elesse, agli aurei calici.
E quando l’ora fu della comune
libagïone, e dei concenti, il vecchio
disse: «Conviene rimandar le piccole
coppe, e recar le grandi; e piú sollecita
cosí la gioia inonderà gli spiriti».
Tutto un affaccendarsi allor fu visto,
tazze a recar d’argento e d’oro. E quegli,
una eletta ne prese, e quasi al nuovo

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principe onore far volesse, piena
a lui la porse; ma nel vino il farmaco
gittata avea mortifero, che, dicono,
la signora gli avea dato, perché
morir dovesse il giovinetto. E tutti
n'erano ignari. Or, quando già libava
insiem con gli altri, il figlio or or trovato,
uno dei servi un detto profferí
di malo augurio. E quei, ch’entro in un tempio,
fra sacerdoti esperti era cresciuto,
ne trasse auspicio, ed ordinò ch’empiessero
un altro vaso; e rovesciò la prima
libagïone a terra, e a tutti impose
di rovesciar la propria. E fu silenzio.
I sacri vasi empiemmo allor col rorido
vino di Biblo; e in questa, ecco, uno stormo
di colombe piombò sovra la casa:
ch’esse nel tempio dell’Ambiguo, vivono
senza timore; e, del liquore cupide,
nel vin versato a terra i becchi immersero,
lo delibâr nelle pennute fauci.
E fu per l’altre la bevanda innocua
del Dio; ma quella che posata s’era
dove libato aveva Ione, come
il licore gustò, subito scosse,
furïosa agitò le penne belle,
ed una voce emise incomprensibile,
con alto lagno: e sbigottí la turba
tutta dei convitati, a quello spasimo.
Dando guizzi morí, le venner meno
i purpurei piedi. E allora, il figlio
designato da Febo, ambe le braccia
dal peplo ignude stese su la tavola,

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e diede un grido: «E qual dunque degli uomini
uccidere mi volle? O vecchio, dillo,
ché l’insidia tua fu, ché dalle mani
tue ricevei la coppa». E per il vecchio
braccio l’afferra súbito, e lo fruga,
se può sul fatto coglierlo, che indosso
rechi il veleno. E fu scoperto. E a stento,
costretto a forza, rivelò l’ardire
di Creúsa e la trama. Ed il fanciullo
designato da Febo, i convitati
tutti raccolse, e corse fuori, e, giunto
di Delfo innanzi agli ottimati, disse:
«O veneranda terra, a me la figlia
d’Erettèo, stranïera, con un tòssico
tramò la morte». E i principi di Delfo,
non già con un sol voto, stabilirono
che la Signora mia morir dovesse
sotto le pietre, perché volle uccidere
un ministro del Dio, tese l’insidia
nel tempio stesso. E lutta la città
lei va cercando, che con passo infausto
infausta via batte’. Ch’ella da Febo
venne per ottener pargoli; e priva
restò dei figli e della propria vita.
Parte.