Istituzioni di diritto romano/Introduzione/Sezione I/Titolo II

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Sezione I - II.° La consuetudine

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II.° La Consuetudine

§. 18. I precetti di diritto, che derivano dalla consuetudine appartengono al diritto Non Scritto. [p. 17 modifica]

Non havvi diritto positivo, che riposi esclusivamente su leggi espresse. Esiste sempre presso ciascun popolo un gran numero di principj, di regole o di norme, che ripetono la loro origine ed il loro svolgimento dal convincimento, dalla coscienza popolare, dal sentimento giuridico della nazione; convincimento, sentimento giuridico, che appariscono e si manifestano esteriormente con azioni non equivoche, con un modo di agire conforme e pur volontario; prova che quei principj, quelle regole, o norme sono universalmente riconosciute, e perfino più di quello che possano esserlo le leggi espresse, derivanti dal potere legislativo. L’insieme di queste regole o norme di diritto, le quali non rampollano dal comando espresso o formale del legislatore, ma che sono state introdotte dalla coscienza giuridica popolare manifestata col costume e con l’uso, si chiama Diritto Consuetudinario, o Consuetudine. Dicesi anche Diritto Non scritto in opposizione a Diritto Scritto, cioè all’insieme delle leggi espresse e formali.

La vera sorgente del Gius Consuetudinario, non è, come molti erroneamente dicono, il solito di fare, l’uso. Il solito di fare, l’uso, sono la estrinseca manifestazione del Gius Consuetudinario. La vera sorgente del Gius Consuetudinario, è la comune persuasione della rettitudine e convenienza di certe norme, che sursero e vivono nel sentimento giuridico popolare.

Anche i Romani avevano limpida questa idea. Infatti Consuetudo per essi significava la ripetizione degli atti, il solito di fare. Mos poi, indicava la regola e il principio, di cui la Consuetudo dicevano essere la esterna manifestazione. Fra queste due voci, le quali talvolta volgarmente erano adoprate quali sinonimi, nel significato tecnico intercedeva la differenza, che intercede fra la cagione e l’effetto.

II Gius Consuetudinario, sebbene sia un Gius Non Scritto, pur tuttavolta appartiene al Diritto Positivo, poichè ha questo di comune con le Leggi espresse e scritte, che anche esso può essere constatato per mezzo di testimonianze, diverse da quelle che valgono a constatare il Gius Scritto, ma non meno efficaci e sicure. [p. 18 modifica]

Il Diritto non Scritto o Consuetudinario precede sempre in ogni luogo il Diritto Scritto, ma col decorrere del tempo viene a mano a mano tradotto in Leggi promulgate.

La forza obbligatoria del Diritto Consuetudinario risiede nel convincimento, che esiste nella coscienza universale, intorno ad un dato principio o sopra una massima o regola, convincimento manifestato col modo di agire, e sanzionato dalla tacita approvazione del Legislatore.

§ 19. Gli estremi, il concorso dei quali addimandasi a indurre la esistenza di una Consuetudine, sono:

1. La ripetizione degli atti. Da un solo esempio, per celebre e rilevante che sia, non può nascere consuetudine. Non havvi legge che determini il numero di atti necessarj a stabilire la consuetudine, ed è rimesso nell’arbitrio del Giudice il determinare quando si debba dire che ve ne sieno un numero sufficiente a stabilirla. Ma il Giudice attenendosi al principio, che la pluralità degli atti deve esprimere un comune convincimento, non valuterà i fatti particolari ed accidentali, che ne simulassero l’apparenza.

2. La liceità e la ragionevolezza di questi atti, cioè che non sieno contrarj ai buoni costumi, nè repugnanti alla ragione. Ogni qualvolta adunque la Consuetudine venisse ad approvare cose naturalmente turpi o contrarie al Diritto di Natura, non dovrebbe essere considerata come capace di produrre effetti civili.

3. La uniformità degli atti, senza la quale non potrebbe parlarsi di un solito di fare, di una civium voluntas, di un consensus utentium.

4. Uno spazio di tempo lungo, durante il quale quegli atti uniformi, sieno ripetuti. Nessuna legge fissò questo spazio di tempo, il cui decorso è necessario a costituire una Consuetudine; sta al Giudice a valutarlo (Vedi Savigny Tomo I. pag. 168. Sistema di Diritto Romano.)

5. Questi atti debbono essere stati eseguiti ex opinione juris, ex opinione necessitatis, cioè motivati dalla persuasione che corrispondano ad una norma di Gius riconosciuta universalmente. [p. 19 modifica]

6. Il consenso del capo dello Stato. I Giureconsulti Romani facevano discendere la forza della consuetudine solamente dal consenso popolare, ma essi scrivevano con la mente rivolta alla costituzione del loro Stato retto a forme popolari; nelle Monarchie, egli è certo che il tacito assenso del capo dello Stato si presuppone. E questo assenso viene presunto, quando consta della Scienza e Pazienza nel Potere Sociale degli atti, pei quali si asserisce indotta la Consuetudine. Poichè quando chi poteva, e se lo credeva necessario, doveva impedire quelli atti, non lo ha fatto, è certo che non riprova davvero il principio del quale sono la manifestazione, ma annuisce invece al medesimo. Di quella Scienza nel capo dello Stato, intorno a cotali atti che costituiscono la consuetudine, non è necessario adunque fornire una prova speciale e diretta; basta quella presunzione che nasce dalla pubblicità e moltiplicità dei medesimi. Non è infatti da supporre, che il Capo dello Stato ignori le cose note a tutti, le quali per la sua posizione è in grado di sapere più di ogni altro, e che a lui, meglio che ad ogni altro, preme sapere.

La consuetudine, allorchè riunisce i caratteri fin quì accennati, ha forza uguale alla legge. Per lo che vale ad introdurre un nuovo diritto, ad abolire l’antico, a dichiarare il senso di una legge, ed estenderne la sanzione oltre i casi che essa espressamente contempla, come pure ad indurre delle eccezioni alle sue generali disposizioni.

§. 20. Chi vuole valersi di un diritto desunto dalla Consuetudine, deve provarla. Cosiffatta prova può essere somministrata in qualunque modo, o con la testimonianza di scritture, o con la testimonianza di uomini, massimamente di quelli assai innanzi negli anni. Se dalle prove fornite resultasse, che non sempre fu praticato nel modo stesso, ma ora in una guisa, ora in altra; senza che per un tempo lungo e continuato, abbia mai potuto prevalere una regola; si dovrebbe concludere non esistere consuetudine, ma invece uso facoltativo. La consuetudine più recente, deroga [p. 20 modifica]alla più antica. Anche qui vale l’assioma Jus posterius derogat priori.

§. 21. A lato del Diritto Consuetudinario viene collocata la Pratica di giudicare, o le Giudiciali Osservanze (usus fori, stylus curiæ), vale a dire l’insieme delle regole di Diritto, sanzionate dalla pratica uniforme dei Tribunali. Le massime stabilite per cotal guisa, hanno forza di Legge alla pari della Consuetudine; anzi alcuni Scrittori, questa pratica di giudicare considerano come una specie di Consuetudine. Ma quando comincia essa ad avere forza di Legge? È questa una questione che non è facile risolvere. Tutto quello che si può dire intorno ad essa si è, che il numero delle cose giudicate ha da essere tale, da far concludere una consuetudine di giudicare. La definizione che se ne trova nelle Leggi Romane (fr. 38, Dig. de Leg. I. 3.) Rerum perpetuo similiter judicatarum auctoritas suppone pure un certo numero di decisioni. Tuttavia vuolsi confessare che nel Diritto Romano trovansi regole di Diritto, le quali riposano su decisioni isolate. (fr. 12, Dig. de Accusationibus XLVIII. 2.)

§. 22. Alcuni Scrittori, ripongono eziandio fra le fonti del Diritto l’Equità, come p. e. il Falck nella sua Enciclopedia del Diritto. Ma l’Equità vuolsi piuttosto considerare, quale un modo generate di temperare la durezza delle Leggi. L’Equità, Æquitas, o come la dicevano i Greci Epicheja, consiste nel moderare con le regole di Giustizia, suggerite dalla ragione naturale, il soverchio rigore delle Leggi. Affinchè cotal temperamento possa aver luogo, fa di mestieri che le parole della Legge si prestino a questa mite interpretazione; non potendosi far valere considerazioni di equità, alle quali la parola della Legge apertamente repugni, sotto pena di accordare ai Magistrati, che hanno l’ufficio di applicare la Legge, la più ampia facoltà spettante al solo Legislatore di mutarla; confondendo cioè il potere legislativo col giudiciario.

Nel Medio Evo, per quella supremazia che le leggi Canoniche avevano acquistato anche negli affari Civili, sovente sotto il nome di Equità Canonica si toglieva forza alle Leggi della [p. 21 modifica]potestà Secolare, o almeno si temperava in molti punti il rigore del loro disposto.

§. 23. Le Fonti del Diritto si distinguono: in Indigene e Straniere o Importate.

Considerando il modo, col quale ii Diritto sorge presso un popolo, vien fatto di riconoscere che quel Diritto è un prodotto del popolo istesso, costituito dalla Consuetudine e dagli atti del Potere Legislativo, o è un composto di massime e di istituzioni prese ad imprestito da altri popoli. Non di rado l’elemento indigeno e l’elemento straniero insieme concorrono. Noi vedremo come questo fenomeno dello amalgamarsi di un Diritto straniero al Diritto indigeno, si verifichi specialmente nella Legislazione Romana.

Il Diritto Patrio Toscano offre esempj notevolissimi di importazioni siffatte. Alcune massime, esempigrazia in materia di successione legittima, sono assolutamente forestiere, come quella della traslazione del possesso della Eredità per modo di non interrotta continuazione, nel successore legittimo.

Allorquando si distingue un Diritto Indigeno da un Diritto Straniero o Importato, si allude non solamente alla origine straniera di alcune massime giuridiche, ma si intende anche parlare di Raccolte intiere di Diritto Straniero, che sono state introdotte e poste in vigore come Codice, senza che abbiano subito mutamento nella forma loro. Ciò è avvenuto per noi Toscani rispetto al Codice di Commercio, che non ha subìto pressochè alcun mutamento nella sua importazione in Toscana, da quello della traduzione in fuora. Altra distinzione circa alle fonti del Diritto, è quella di Comuni e Particolari; dalla qual distinzione nasce l’altra del Diritto Positivo di un Popolo: in Diritto Comune e Diritto Particolare.

I principj giuridici, che hanno in se un carattere di universalità obbligatoria in tutto lo Stato, formano il Diritto Comune. A questo viene opposto il Diritto Particolare, che è in vigore soltanto in alcuni Distretti dello Stato.

In Toscana abbiamo veduto sotto il Regime Statuario i Mu[p. 22 modifica]nicipj retti da Statuti Particolari, nel silenzio dei quali si ricorreva al Diritto Romano, come a Diritto Comune.

Il Diritto Romano ha anche oggi questa dignità di Diritto Comune presso quasi tutti i popoli Civili, i quali ad esso ricorrono nel silenzio delle Patrie Legislazioni, come a ragione scritta.