Italia - 4 novembre 1925, Discorso per il VII anniversario della Vittoria

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Benito Mussolini

1925 Discorso per il VII anniversario della Vittoria Intestazione 5 luglio 2013 75% Generale

4 NOVEMBRE


A Roma, la mattina del 4 novembre 1925, settimo anniversario della nostra Vittoria, un grande corteo di popolo si recò alla tomba del Milite Ignoto. La celebrazione, che accendeva gli animi, con un profondo sentimento di gratitudine per chi aveva ridato valore alla Guerra e alla Vittoria, doveva esser profanata, nell’intenzione di una fosca congrega, da un attentato contro il Duce. La folla lo ignorava; ma quella stessa mattina alle ore 9 era stato arrestato l’attentatore che aveva già puntato il fucile alla finestra d’un albergo da cui si poteva mirare sul balcone di Palazzo Chigi. (cfr. pag. 193). Il Duce era al corrente del fatto, ma noncurante del pericolo corso; e quando il corteo passò sotto Palazzo Chigi, acclamandolo, Egli si affacciò al balcone e pronunciò le seguenti parole:

Voi siete qui raccolti, o cittadini, per celebrare la data più memorabile della storia italiana, la data della nostra Vittoria, di quella Vittoria che non è per noi un tesoro da tenere chiuso in uno scrigno prezioso, ma una conquista da rinnovare ogni giorno.

Solo così i sacrifici innumerevoli di vite che il popolo italiano ha sostenuto non andranno perduti.

Oggi tutto il popolo italiano, quello che lavora, si è riconciliato con la Patria, e per la Patria è pronto ancora a combattere.

Elevate le vostre bandiere e le anime vostre! Viva il Re! Viva l’Italia! Viva il Fascismo!

Nel pomeriggio ebbe luogo, al Teatro Costanzi (oggi Teatro Reale dell’Opera) una solenne celebrazione della Vittoria, indetta dall’Associazione Nazionale Mutilati. Parlò l’on. Delcroix, quindi il Duce rivolse al pubblico il seguente discorso:


Altezze! Eccellenze! Commilitoni! Signori!

Voglio prima di tutto ringraziare dal profondo del cuore i miei compagni dell’Associazione nazionale tra mutilati ed invalidi di guerra. Essi mi hanno reso oggi un grande onore, chiamandomi a parlare in questa celebrazione. Hanno inoltre disperso un equivoco intorno al quale lavoravano in una vana speculazione coloro i quali sono ormai ai margini del popolo italiano.

Commilitoni! Quale discorso vi attendete da me? Mi accade talvolta di leggere le anticipazioni dei miei discorsi. È un esercizio del tutto singolare perché io penso i miei discorsi nell’attimo in cui li pronuncio. Certo voi non vi attendete da me un discorso di rettorica e di poesia: non vi attendete da me un inno puro e semplice per il quale basterebbe un coro oppure un’orchestra o all’occorrenza anche una fanfara.

Voi non vi attendete nemmeno da me un discorso falso, fatuo, pieno di luoghi comuni, non un intingolo ripugnante che spesso suscita un sentimento di disgusto e di nausea o anche della semplice sopportazione, come certe arie vecchie che si sentono suonare nei vicoli suburbani. Io son certo che voi vi attendete da me un discorso virile e gioioso, durissimo se volete ma pieno di quelle amare verità che sono anche feconde per lo spirito che medita e ragiona.

Sono 10 anni che noi viviamo il grande dramma della Nazione che prende coscienza di se stessa. Questo dramma comincia nel 1915, comincia con la neutralità; quando la guerra percorse come una folgore improvvisa gli orizzonti del mondo. Tutti allora i cittadini furono d’accordo nella neutralità, ma i più intelligenti e i più animosi compresero che la neutralità non poteva essere fine a se stessa e ci furono degli anticipatori allo scoppio della guerra, come quei volontari che andarono a morire in Serbia o come quelli che andarono a insanguinare le Argonne.

Poi a mano a mano che i mesi passavano, il travaglio è diventato più profondo: bisogna scegliere e decidersi. Quali le ragioni, quali gli elementi che spingevano all’intervento dell’Italia nella guerra mondiale? Vi era una corrente che sosteneva la guerra in nome degli ideali di libertà e di una idea umanitaria e di giustizia; un’altra per la conquista dei confini della Patria, e infine una terza corrente che voleva la guerra non per obbiettivi lontani e nemmeno per obbiettivi territoriali; ma semplicemente per togliere la Nazione da uno stato di inferiorità morale. Certamente voi ricordate quei mesi che si conclusero nel maggio radioso quando Genova fu scossa dalla voce formidabile del Poeta e Milano e Roma erano dominate dall’estremismo popolare che travolse le ultime barriere. Fu allora che per la prima volta il popolo si impose al Parlamento; fu allora che per la prima volta 300 deputati furono travolti dal popolo che voleva essere arbitro dei suoi destini.

Non si può spiegare l’intervento della moltitudine italiana senza ricordare l’opera diGabriele d’Annunzio, il quale, quando molti esitavano ancora, scosse nel maggio il popolo italiano in maniera decisiva e indistruttibile.

E fummo alla guerra. Il popolo andò alla guerra con entusiasmo.

Vi furono duecentomila volontarî: questo dimostra che la guerra era popolare, ma anche la massa mobilitata si recò alla frontiera con alto senso del proprio dovere; ma, o signori, la guerra non è un affare di ordinaria amministrazione, come la sostituzione di un Commissario Regio o la destituzione di un Prefetto.

La guerra che mette in giuoco l’esistenza, l’avvenire, il destino di tutto un popolo è l’atto più solenne che questo popolo compie nella sua storia; e allora è necessario di educare gli uomini alla grandezza degli eventi.

Io non discuto, non metto minimamente in dubbio il patriottismo di coloro che in regime demo-liberale condussero la guerra. Il patriottismo è fuori questione. Ma il demo-liberalismo ci diede una pagina assai triste: non dobbiamo dimenticarlo. Quando la vita della Nazione è in giuoco non esistono più diritti di singoli: esistono i diritti del popolo che deve essere salvato ad ogni costo.

E io affermo che se una più rigida disciplina fosse stata imposta alla Nazione senza differenza di fronti e di retrofronti, molto probabilmente non avremmo avuto un episodio triste che ancora ci turba. E soprattutto, commilitoni, non bisognava coltivare il cretinissimo principio che consiste nell’accettare il male con la semplice speranza che ne venga un bene. Era meglio arrivare a Vittorio Veneto senza le giornate dell’ottobre 1917. Basta con l’idolo e basta con l’idolatria stupida dello stellone. La storia deve insegnarci qualche cosa.

D’altra parte dopo quelle giornate il popolo ritrovò se stesso. Ci fu la disciplina che i grandi capi avevano invano richiesta dal fronte.

E il popolo italiano mandò i suoi giovanetti sul Piave; i mutilati, pure nello strazio delle antiche ferite, ritornarono al fronte per incuorare coloro che stavano in trincea.

L’Italia fu magnifica, fu superba, piena di entusiasmo, di fede, di passione.

Avemmo la vittoria trionfale nel giugno e la Vittoria non meno trionfale di Vittorio Veneto.

Chi di voi non ricorda quei giorni inobliabili? Però il popolo era nelle strade a festeggiare la pace, non ancora la Vittoria. Umano, profondamente umano.

Ma la Vittoria non appariva ancora agli spiriti con tutta la sua potenza creatrice e nemmeno per tutto il 1919, a pace ultimata, ci fu il senso della Vittoria, e nemmeno nel 1920, quando una nobile città dell’Alta Italia, straziata dalle bombe nemiche, rifiutò la croce di guerra.

Fu nel 1921, quando un manipolo di deputati fascisti alla Camera dei deputati scacciò un disertore, che si cominciò a capire che c’era qualche cosa di nuovo in Italia.

Il fante era tornato dalle trincee, anzi era stato disperso dalle trincee.

Quale era il tuo bottino, o fante scalcinato, o fante tricolore, per il rosso delle trincee carsiche, per il bianco dei ghiacciai alpini e per il verde della bile che ti avevano fatto mangiare gli imboscati durante la guerra? Eccolo il tuo bottino: il pacco vestiario. Ci fossero state almeno delle soddisfazioni morali!

Bisognava portare almeno i nostri battaglioni superstiti a sfilare nelle capitali nemiche; ma voi sapete come all’ultimo minuto mutò scena.

Tu non dovevi avere nemmeno quella soddisfazione.

Si disse al fante: tu dovrai nascondere i segni delle tue ferite; tu non dovrai portare i simboli del valore sul tuo petto; tu dovrai diventare numero nella moltitudine e dimenticarti di aver fatto la guerra perché è l’ora dell’espiazione. È questa la parola funebre, catastrofica venuta dall’abisso dell’abiezione, che dominò lo spirito del popolo in quel tempo. Si voleva che si espiasse il delitto della guerra: e si voleva un’inchiesta sulla guerra, come se la guerra fosse una operazione amministrativa qualunque e si volevano colpire i grandi generali, verso i quali deve andare la gratitudine del popolo anche se hanno sbagliato, perché dobbiamo tener conto delle enormi difficoltà che essi hanno in certe ore guidando un Esercito.

Intanto i diplomatici si sedevano attorno a un tavolo verde. Erano eloquenti o non erano eloquenti, pensavano al popolo italiano o vi pensavano pochissimo; ma la vittoria era ancora quasi sconosciuta al popolo. Non la sentiva. Fu solo più tardi nel 1922 che il popolo si rese finalmente conto del miracolo che egli aveva compiuto. Miracolo! Prodigio, prodigio umano. Pensate, o commilitoni, alla storia italiana di questo scorcio di secolo e vi troverete quasi certamente il segno di Dio. Pensate al periodo che va dal ’20 al ’48, periodo delle cospirazioni, degli esilî; pensate alla guerra temeraria del piccolo Piemonte del ’48 e ’49. E una delle cause della rotta di Novara fu, lo hanno riconosciuto gli storici, la eccessiva libertà di stampa.

E pensate che ad ogni tentativo di rompere in guerra vi era il dissidio fra i municipalisti retrivi e i democratici conservatori, quando la guerra di Crimea era l’atto più geniale che sia stato compiuto dalla diplomazia in tutti i tempi.

Cavour decideva di mandare 15.000 uomini in Crimea, Mazzini si dichiarava contrario a questa impresa, mentre Garibaldi l’appoggiava. Persino v’era chi non voleva votare i bilanci militari. Ed aveva ragione Carlo Alberto il magnanimo quando, andando ad Oporto, diceva agli italiani: siate un po’ più uniti e diventerete invincibili.

Malgrado ciò, per il sacrificio, per la volontà crescente, per l’impulso dato dal Piemonte, per tutti i martirî sopportati da tutti i patriotti di tutte le regioni d’Italia, il gran passo era compiuto nel 1870. Poi nel 1915 non la sola fatalità storica, ma anche la volontà umana spinge a brandire la spada. Abbiamo conquistato i confini veramente sacri e inviolabili, i confini del Brennero e del Nevoso; guai a chi li tocca. Tutto il popolo in questo caso urgerebbe alle frontiere nel desiderio della guerra e della battaglia. Perché io affermo che con oggi il popolo ha il senso della Vittoria? Prego di seguirmi in questa formulazione del mio pensiero che cercherò di rendere più esatta possibile.

Il regime precedente al nostro, il regime demo-liberale, ignorò le masse. In un secondo tempo non le ignorò più, ma le abbandonò agli altri che le innalzarono contro lo Stato. Oggi, quando vedete i reduci marciare a tre e a quattro, quando vedete questa magnifica disciplina del popolo italiano che marcia nelle strade non più a forma di gregge come una volta, ma a battaglioni serrati, voi vi rendete conto che una profonda trasformazione si è operata nell’animo del popolo italiano; vi rendete conto che il popolo italiano è entrato nello Stato. È un atto di vittoria. Chi poteva dopo la guerra, e lavorando sul materiale della guerra, sulle passioni, i trionfi ed anche sulle delusioni della guerra, chi poteva avvicinare questo popolo ostile o indifferente o dimenticato allo Stato? Chi? Il Fascismo.

Non il liberalismo. Non il socialismo. Le masse oggi riconciliate con la Nazione entrano per la grande porta spalancata dalla Rivoluzione fascista nello Stato e lo Stato con la Monarchia in alto allarga smisuratamente le sue basi e non ci sono più soltanto dei sudditi, ci sono cittadini; non c’è soltanto una popolazione, ma c’è un popolo cosciente. Questo è il problema, questa è la verità della storia diventata pane dello spirito consapevole degli italiani.

O commilitoni, la vittoria non è punto di arrivo! È un punto di partenza. Non è una mèta, è una tappa. La vittoria non è una comoda poltrona, nella quale ci si adagia durante le solenni commemorazioni. No, è un aculeo, è uno sprone, che ci spinge alle vette faticose; la vittoria non deve essere il pretesto per una commemorazione annuale per avere poi l’indulgenza di dormirci su gli altri 364 giorni!

Io reagisco nettissimamente contro questa concezione passiva, statica, inerte della vittoria. La vittoria è un patrimonio ricchissimo, sul quale è rigorosamente proibito di vivere di rendita. Bisogna ogni giorno rinnovarlo, ogni giorno fortificarlo, ogni giorno renderlo più efficiente, più armato, più lucente, in modo che domani, se il destino voglia, la vittoria sia la pedana dalla quale si balza all’avvenire.

Questo senso augusto e solenne della vittoria deve essere presente. Perché la pace è certamente un desiderio umano, di tutti gli individui e di tutti i popoli, specie dopo una lunga guerra. Or bene, io vi dichiaro recisamente che, mentre credo e spero in un periodo di pace abbastanza lungo, non sono ancora arrivato a un grado così eccelso di ottimismo da credere alla pace duratura per i secoli.

Io partecipo, l’Italia partecipa, il Governo italiano naturalmente, a tutti i tentativi che si fanno per stabilizzare la pace, ma all’indomani del più grande avvenimento pacifista di questi ultimi tempi, il cannone ha tuonato ancora in Macedonia, tuona ancora sui bordi orientali del Mediterraneo e, proprio all’indomani, 60 mila combattenti in una grande città di oltre frontiera sfilavano in parata sognando una rivincita.

Guardiamo con un occhio alla colomba della pace che pura si leva negli orizzonti lontani, ma con l’altro occhio guardiamo alle necessità concrete della vita, alla storia che non può essere contenuta in nessun trattato, alla storia che ci mostra il sorgere, il crescere, il declinare degli individui e dei popoli, alla storia che crea i grandi squilibrî fatali. Speriamo che la storia di domani abbia un corso diverso da quello di ieri, ma nell’attesa di questo miracolo noi dobbiamo agguerrirci, noi dobbiamo avere un Esercito potente, una Marina valida, un’Aviazione che dòmini i cieli, e soprattutto uno spirito in tutte le classi del popolo disposto al sacrificio.

Nel 1836, dopo la spedizione infelice della Savoia, Giuseppe Mazzini si domandava: «E se questa Patria non fosse che una illusione ? E se l’Italia, esaurita da due epoche di civiltà, fosse oggi condannata a giacere senza nome e senza missione, aggiogata a nazioni più giovani e rigogliose di vita?».

Quando Mazzini dettava queste parole, il suo animo era sconvolto da quella che si può chiamare la tempesta del dubbio. Oggi, dopo un secolo, è ineffabile per noi, italiani di questa generazione, poter sciogliere questo dubbio angoscioso e dare, attraverso Vittorio Veneto, la risposta trionfale a questo interrogativo.

No! La Patria non è una illusione, la Patria è la più grande, la più umana, la più pura delle realtà! No! L’Italia non si è esaurita nella prima e nella seconda civiltà e ne sta creando una terza!

Nel nome del Re e nel nome dell’Italia, col braccio, con lo spirito, col sangue, con la vita, commilitoni, la creeremo.