L'Argentina vista come è/Vita mandriana

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Vita mandriana

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Andando all'Estancia Il lavoro italiano nell'Argentina

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VITA MANDRIANA.1

San Jacinto de Mercedes.

Il mio ospite, questo estanciero bolognese che mi fa gli onori di casa della campagna americana — un simpatico tipo da romanzo, uno di quegli avventurosi eroi alla Ohnet che ritrovano in una esistenza di rude lavoro la ricchezza perduta per una gioventù spensierata e mondana — , mi dice di amare molto la sua vita di solitudine selvaggia. E io lo credo bene.

Egli ha conosciuto troppo la società per non preferire l’isolamento. Ha vissuto troppo fra gli uomini per non amare le bestie. La bestia ha sull’uomo questo vantaggio, che è infinitamente più buona. La cattiveria è una prerogativa umana, e l’uomo domina più perchè cattivo che perchè intelligente.

Basta viverla un po’ questa vita dell’estancia per sentirne tutto l’incanto. Non c’è nulla: comodità poche, varietà nessuna, un orizzonte infinito e monotono, un silenzio perpetuo. È che il godimento non viene dai beni presenti, ma dai mali assenti. È un po’ la gioia del perseguitato che si sente libero in un asilo tranquillo — e ogni uomo nel consorzio dei suoi simili è sempre un perseguitato più o meno. [p. 135 modifica]

Pensavo queste cose stamani galoppando come un pazzo per la campagna, nell'ora gloriosa dell'alba. Il primo raggio di sole dorava le cime delle alte erbe ed i calici spinosi dei cardi colossali, mentre in basso, raso terra, persistevano le ultime ombre violastre, come un rimasuglio della notte. Intorno a me si levavano a nuvoli gli uccelli schiamazzando. I cani del mio ospite mi seguivano abbaiando festosamente. Ieri mi hanno accolto ringhiando, ma, dopo avermi annusato con diffidenza e riconosciuto all'odore per un buon diavolo, hanno sollecitato le mie carezze mugolando con l'aria di chiedermi scusa. Ora sono miei grandi amici.

Disseminate per la pianura erano piccole mandrie di buoi, dalla schiena fulva e lucida, pascolanti tranquilli. Due gauchos sopraggiunti di galoppo hanno cominciato a percorrere il campo mandando un grido strano, un ahooo! lungo e gutturale. Li ho veduti sparire lontano, fra le erbe, con le camiciole svolazzanti nella foga della corsa come blouses di fantini: poi sono tornati al loro galoppetto criollo, silenziosi e tranquilli.

Stavo chiedendomi la ragione di quella corsa, quando ho osservato una cosa strana. I buoi ai gridi dei due uomini hanno cessato dal pascolare, levando il muso come per ascoltar meglio; poi si sono messi in cammino, lentamente, senza fretta, da bestie che sanno il fatto loro, ruminando per non perdere il tempo. Ecco che in un minuto tutte le mandrie sono in moto, sfilano attraverso il campo da ogni parte dirette ad un punto lontano, una radura senz'erba, dove s'adunano. È una specie di meeting di buoi; arrivano, si fermano placidamente e aspettano. Dopo poco tempo ve ne è una folla di migliaia.

Il mio ospite, che mi ha raggiunto, mi spiega che il luogo del convegno si chiama rodeo, che i buoi li si aduna per «lavorarli», ossia per scegliere i migliori, [p. 136 modifica] per selezionare i malati, per esaminare le loro condizioni, per esporli ai compratori. Ma nessuno potrà mai spiegare l’obbedienza spontanea di questi animali, che vivono nella completa libertà, al grido d’un uomo. È uno dei più curiosi spettacoli che io abbia mai veduto. I cavalli dei reggimenti accorrono ai segnali di tromba perchè sanno di ricevere la biada; un’obbedienza interessata. Ma al rodeo queste povere bestie non ricevono nulla; per accorrervi anzi lasciano la colazione a mezzo. L’abitudine spiega poco e l’istinto meno. Cosa diamine passa per la mente d’un bue quando il gaucho grida il suo ahooo!?



Questa volta i buoi sono stati adunati per scegliere fra loro i più grassi destinati ad essere imbarcati per l’Africa Australe. I gauchos a cavallo entrano fra l’enorme mandria, e col petto della cavalcatura, addestrata a tale lavoro, spingono fuori il bue scelto, che appena libero dai compagni, spaventato dagli urti, prende la fuga. Il gaucho stringendolo col cavallo a destra o a sinistra ne regola la direzione; quando lo ha condotto lontano in un luogo prestabilito, lo abbandona. Il bue s’arresta, e si volge tranquillamente a vedere il suo persecutore che si allontana, mentre altri buoi sopraggiungono sbuffanti a riunirsi ad esso, formando a poco a poco la mandria dei grassi sfortunati.

Un grande bue fulvo si ribella. Balzato fuori dalla mandria, abbassa la testa pesante e fugge pazzamente, con la coda sollevata, muggendo, lasciandosi indietro l’uomo. — El lazo! El lazo! — gridano i gauchos [p. 137 modifica] precipitandosi alla caccia. Il bue compie un giro cercando di raggiungere il verde pascolo, e passa vicino a noi, terribile, con la bocca aperta e bavosa, la lingua di traverso, gli occhi sanguigni. Stormiscono gli sterpi sotto i suoi passi pesanti e precipitosi, e lascia dietro di sè tutta una treccia di erbe abbassate e di cardi spezzati, come una valanga nera e ruggente. I gauchos lo rincorrono, curvi sull’arcione. Agitano in aria il lazo che sibila roteando. Il primo laccio è lanciato; si svolge per l’aria come un serpentello lungo e sottile, e cade sulla testa del bue. Ma il nodo scorsoio non ha fatto presa; il bue scuote il capo correndo e si libera. Un secondo laccio parte col grande nodo aperto. Il bue afferrato improvvisamente per il collo si arresta; salta con la schiena ad arco; tempesta la terra con le zampe poderose, mentre dalla gola strozzata dal laccio gli esce un ululato terribile, lungo e lamentoso. Un altro lazo destramente lanciato gli afferra le zampe. Il bue cade agitandosi, si risolleva terribile, ricade. È legato da quelle sottili corde di cuoio come Gulliver dai fili dei lillipuziani. Il furore cede al terrore. Tenta di liberarsi con un ultimo supremo sforzo, e resta in ginocchio, immobile, sbuffante col pelo irto, con la testa bassa sul gran petto ansimante, la bocca bavosa, mandando ad intervalli un muggito disperato che sembra il pianto mostruoso di un gigante vinto.

A questo punto il mio amico mi grida: Guardate, guardate gli altri! e mi accenna le mandrie. Tutti i buoi assistono alla lotta, attenti come gli spettatori d’una plaza de toros. Non ve n’è uno che non guardi. I più lontani sollevano il muso per veder meglio, e lo appoggiano dolcemente sulla groppa del vicino. Qualcuno si fa strada a forza fra i compagni per giungere alla prima fila, e lì si arresta, col collo teso, i grandi occhi fissi, attenti e meditativi. Sotto la selva delle corna sono migliaia d’occhi curiosi, che esprimono [p. 138 modifica] una meraviglia calma e dignitosa. Quando il bue domato entra nella sua mandria, ancora tutto fremente, col muso rigato dal sangue che cola da un corno spezzato, i compagni lo circondano premurosamente, lo annusano, lo fiancheggiano e lo seguono, quasi per fargli coraggio, per recargli il conforto delle loro simpatie e della loro solidarietà. La povera bestia si rifugia nel centro del gruppo, accompagnata da un vero corteggio.

Nessuno ha mai pensato a studiare la vita di queste grandi società bovine: il bue sembra un animale completamente noto, e non è vero. Lasciato libero forma delle tribù, ubbidisce a dei capi, segue delle leggi che noi non conosciamo; ha delle speciali manovre d’offesa e difesa contro i nemici comuni; sottomette poi tutta la sua organizzazione sociale al supremo controllo dell’uomo per ragioni misteriose.

Il cavallo è certo molto meno intelligente. Il cavallo libero ha per maggiore caratteristica la paura. È più timido di una gazzella. Non è possibile avvicinare una mandria di cavalli senza provocare ciò che qui, con un vocabolo pieno d’espressione, si chiama disparada. La disparada è una fuga frenetica. Uno spettacolo superbo.



Quando ci siamo diretti, dopo un galoppo di qualche ora, verso la parte dell’estancia destinata all’allevamento dei cavalli, ero già prevenuto. Al nostro appressarci alla prima mandria tutti i cavalli hanno sollevato la testa nella espressione di «all’erta» con le orecchie dritte e immobili. Poi, quando siamo stati [p. 139 modifica] a cinquanta passi, e potevamo scorgere perfettamente le forme gentili di questi cavalli criolli, che pare conservino ancora un po' del sangue dei loro padri arabo-spagnoli, è avvenuta la disparada. Quei due o trecento cavalli si sono precipitati ad una fuga furibonda.

Andavano tutti uniti; facevano pensare ad una carica di cavalleria senza i cavalieri. Non abbiamo più veduto che una moltitudine di schiene dai lombi contratti nello sforzo d'un furioso galoppo, uno sventolamento di criniere e di code. I cavalli hanno fatto dei pazzi giri per la pianura, giri capricciosi senza ragione apparente, fino a che si sono calmati e hanno ripreso a pascolare lontano lontano.

Queste fughe di cavalli sono pericolosissime per chi si trova sulla loro strada. Il cavallo spaventato è cieco; investe qualunque ostacolo. Il gaucho sorpreso da una disparada non ha che una via di salvezza: fuggire nella stessa direzione; unirsi alla mandria. Succede allora talvolta che egli perde il controllo della sua cavalcatura, ripresa dall'istinto selvaggio, e deve seguire la fuga capricciosa fino alla fine, prigioniero di quell'uragano di bestie. La disparada era la più terribile arma degli indiani contro le truppe argentine. All'appressarsi dei soldati adunavano tutti i loro cavalli in grandi mandrie, poi, al momento opportuno, gridando e sventolando il poncho, provocavano la fuga nella direzione dei nemici. Non vi era salvezza; la disparada rovesciava e calpestava compagnie intere.

Nella Pampa lontana e deserta avvengono talvolta delle fughe di cavalli, causate dalle punture dei mosquitos. Comincia una mandria a fuggire, verso la direzione del vento, per liberarsi delle nuvole di insetti che la tormenta. Ad essa altre se ne aggiungono, ed altre ancora. Si forma un esercito di cavalli che passa come un ciclone sollevando immense colonne di polvere; lo scalpitìo, simile al brontolare lontano della [p. 140 modifica] bufera, si ode da lungi e il gaucho che lo conosce bene fugge ventre a terra per assistere al passaggio di quella fantastica emigrazione dalla maggiore distanza possibile.



Entriamo nei corrales, i grandi recinti dentro i quali si chiudono i cavalli selvaggi per gettar loro il lazo. Un bel puledro è stato afferrato col laccio alle gambe e al collo. Sei gauchos saltati di sella tentano di tenerlo fermo, tirando le corde. Il cavallo rantolante per la gola serrata s'impenna, impunta le gambe appaiate dai lacci e trascina a tratti gli uomini con un moto pauroso del collo. Il domatore, un giovane bruno i cui lineamenti tradiscono il sangue indiano, vestito nel tradizionale costume della pampa, la camiciola ricamata e il chiripà rimboccato alla cintura come la vestaglia degli arabi, si appressa cautamente sostenendo l'ampio recado, la sella gaucha. Il recado è tutto il patrimonio del gaucho. È formato da un po' di ogni cosa; vi è una coperta, un poncho, una pelle di guanaco: durante i riposi diventa letto, diventa sedile, diventa tetto. Il recado è la casa dell'uomo della prateria. Ogni cura egli pone nell'abbellirlo, nell'aggiungervi ornamenti d'argento, staffe di corno intagliato, nastri colorati, fiocchi di seta; il recado è il suo orgoglio.

Il domatore tocca con la mano carezzevole il collo dell'animale, che dà un balzo, fremendo, quasi pieno di orrore e di disgusto più che di paura; il disgusto di un sovrano prigioniero che si senta toccare da mano plebea. I lacci si tendono nello sforzo unito dei sei [p. 141 modifica] uomini; in questo momento la sella scivola dolcemente sulla groppa del cavallo. L'animale si getta a terra in un parossismo di furore.

Gli uomini gli si precipitano addosso. È una lotta di pochi istanti, dopo la quale il cavallo scalpitando si leva in piedi, completamente bardato, il suo muso sporco di polvere e di sangue è ingabbiato nell'immonda testiera dal largo morso e all'addome è accinghiato strettamente il recado variopinto. Ma ha un'aria così minacciosa, con la criniera eretta, gli occhi ardenti, le narici aperte e sbuffanti, che gli uomini rinculano in giro come i capeadores intorno al toro ferito che si risolleva muggendo. Non hanno però abbandonato le redini, e cautamente, con l'aiuto di cavalli addestrati, vecchi complici che lo sospingono, è condotto all'aperto.

Allora, lentamente, con un fare noncurante e dinoccolato, il giovane indiano si appressa alla bestia. Dà una calma occhiata investigatrice alle fibbie e ai nodi della bardatura, si stringe sui fianchi l'alta cintura ornata d'argento e poi risolutamente balza in sella d'un colpo afferrandosi alla criniera.

Il cavallo resta per un momento immobile, come stordito da tanto ardire, con i garetti tesi, i muscoli contratti. Quindi si solleva sulle zampe posteriori e si rovescia a terra. Dopo un istante fra i folti nembi di polverone si vede il cavallo di nuovo in piedi scalpitante. Spicca salti terribili, furibondo, ma sulla sua groppa rimane l'uomo, curvo sulla criniera, impavido, saldo. Improvvisamente il cavallo prende la fuga e si allontana in un galoppo infernale verso l'orizzonte infinito, che il miraggio abbellisce di tremuli laghi sui quali i lontani boschetti di eucaliptus si specchiano nitidamente.

Pochi minuti dopo torna al piccolo galoppo, tutto intriso di schiuma, con gli occhi smorti e la bocca insanguinata, umile, obbediente alla volontà di quel fanciullo attaccato alla sua groppa: domato. [p. 142 modifica]

Povero sovrano della prateria! Chi sa che non sarà proprio lui a ricondurmi tra qualche mese — attaccato ad una modesta vettura di piazza — all'imbarco sulle banchine del Porto Madero!



Abbiamo continuato il nostro giro per l'estancia, sotto un sole torrido che accecava e stordiva. Ed ho un ricordo vago di quella corsa per prati senza fine. Rammento delle grandi tettoie presso un boschetto, sotto le quali ingrassano dei buoi colossali e delle pecore che sembrano enormi batuffoli di lana bianca, destinati a figurare in non so quale esposizione di bestiame: e delle scuderie divise in boxes, dai quali sporgono le teste di nobilissimi cavalli inglesi la cui genealogia mi veniva illustrata da un trainer, inglese puro sangue anche lui, che da venti anni è nell'Argentina e non parla spagnuolo. «Non parlo ancora castigliano, not yet» — mi ha detto flemmaticamente.

— Oh! — ho risposto — è questione di tempo!

Rammento un toril dove sultaneggiano dei tori mastodontici venuti dall'Inghilterra, i quali hanno ai loro ordini servi e scudieri; rammento numerose famiglie di struzzi che fuggivano davanti al nostro galoppo, simili a gruppi di piccoli cammelli con due sole gambe.

Dopo sei ore di cavallo ho cominciato ad accorgermi che la sella indigena è deplorevolmente incomoda; che il sole del gennaio sud-americano dà dei punti a quello del nostro agosto; che la pianura sconfinata ha — come il mare — le sue attrattive, ma che qualche gruppo d'alberi — come un po' di [p. 143 modifica]terraferma in navigazione — sarebbero d'una comodità indiscutibile.

Ma la fatica, il caldo e la sella incomoda ho presto dimenticato laggiù nel fresco patio della villetta rosa, dondolandomi nell'amaca. E pensando alla vita della prateria ho provato una grande compassione per me stesso che andavo a rituffarmi nella vita sociale, laggiù a Buenos Aires.

Bella cosa esser gaucho! Perchè, vedete, il cavallo selvaggio, il toro furioso, la tormenta della Pampa, il sole tropicale sono tutte cose pericolose, non c'è dubbio; ma, non è forse peggio, qualche volta, quel mostro che chiamiamo... «il nostro simile?»



  1. Dal Corriere della Sera del 25 giugno 1902.