<dc:title> L'apologia di Socrate </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Platone</dc:creator><dc:date>IV secolo a.C.</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation></dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=L%27apologia_di_Socrate/Capitolo_IX&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20110418165048</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=L%27apologia_di_Socrate/Capitolo_IX&oldid=-20110418165048
L'apologia di Socrate - Capitolo nono PlatoneFrancesco AcriIV secolo a.C.
Or da questi esami mi son nate molte inimicizie, o Ateniesi, e molto aspre e fierissime, dalle quali sono nate molte calunnie, fra l’altre questa: ch’ei mi chiamano sapiente. Imperocché ogni volta che argomento contro gli altri, mostrando che non sono sapienti, quelli che stanno lí credono che sapiente sia io. No, cittadini, quel che pare è questo: sapiente davvero essere Iddio, e volere Egli dire per quell’oracolo che la umana sapienza vale poco o nulla: ed è chiaro che non intende Socrate, e che usa del mio nome a fine di porre me a esempio, come se dicesse: - Colui tra voi, o uomini, è sapientissimo, il quale come Socrate conosciuto ha ch’ei non vale nulla in sapienza -. Onde anche ora vo guardando intorno, e cerco tra i cittadini e forestieri chi io creda essere sapiente; e, secondo l’Iddio, lo esamino; e se poi non mi pare tale, aiutando io l’Iddio, gli mostro che non è sapiente. E per questa occupazione non ho tempo di far cosa niuna degna che si dica, né per la città né per la casa, e sono in povertà grande, per servigio dell’Iddio.