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L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo XVI

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Parte seconda - Capitolo XVI

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
Parte seconda - Capitolo XVI
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CAPITOLO XVI.


Un mistero da rischiarare — Le prime parole dell’incognito — Dodici anni nell’isolotto — Confessioni sfuggite — La scomparsa — Fiducia di Cyrus Smith — Costruzione d’un mulino — Il primo pane — Un atto di devozione — Le mani oneste.

Sì, il disgraziato aveva pianto! Senza dubbio qualche memoria avea attraversato il suo spirito, e, secondo l’espressione di Cyrus Smith, egli si era rifatto uomo colle lagrime.

I coloni lo lasciarono per qualche tempo sull’altipiano, e si allontanarono anzi un poco per far sì che egli si sentisse libero; ma egli non pensò punto ad approfittare di tale libertà, e Cyrus Smith si decise poco dopo a ricondurlo al Palazzo di Granito.

Due giorni dopo questa scena, l’incognito parve volersi uniformare a poco a poco alla vita comune. Era evidente che egli intendeva, ch’egli comprendeva, ma non meno evidente che si ostinava in modo strano a non parlare ai coloni, perchè una sera Pencroff, porgendo l’orecchio all’uscio della sua camera, intese queste parole:

— No qui! io! mai!

Il marinajo riferì queste parole ai compagni.

— Vi è sotto qualche doloroso mistero, disse Cyrus Smith.

L’incognito aveva incominciato a servirsi degli utensili, e lavorava nell’orto. Quand’egli si arrestava, e ciò gli accadeva di frequente, rimaneva come chiuso in sè stesso; obbedendo alla raccomandazione dell’ingegnere, si rispettava l’isolamento in cui egli sembrava volersi mantenere. Se gli si accostava uno dei coloni, dava egli indietro ed i singhiozzi gli sol[p. 65 modifica]levavano il petto, che pareva ne traboccasse. Era il rimorso che così lo accasciava? Si avea ragione di crederlo, e Gedeone Spilett non potè trattenersi dal fare un giorno quest’osservazione:

— Se non parla, segno è che dovrebbe dire cose troppo gravi; bisogna avere pazienza ed aspettare.

Alcuni giorni più tardi, il 3 novembre, l’incognito, lavorando sull’altipiano, si era arrestato dopo d’aver lasciato cadere la vanga a terra, e Cyrus Smith, il quale lo osservava a breve distanza, vide un’altra volta delle lagrime scorrergli dagli occhi. Una specie di pietà irresistibile lo trasse a lui. Gli toccò il braccio lievemente, e disse:

— Amico mio!

L’incognito cercò d’evitarlo collo sguardo, ed avendo Cyrus Smith voluto prendergli la mano, egli diè indietro con vivacità.

— Amico mio, disse Cyrus Smith con voce più ferma, guardatemi, lo voglio!

L’incognito guardo l’ingegnere, e parve cedere al fascino, come un magnetizzato sotto la potenza del magnetizzatore. Volle fuggire, ma allora avvenne nella sua faccia come una trasformazione. Gli occhi mandarono baleni; le labbra mormorarono parole rotte; non poteva più trattenersi..., finalmente egli incrociò le braccia e con voce sorda domandò a Cyrus Smith:

— Chi siete voi? [p. 8 modifica]Chi siete voi?

Vol. IV, pag. 65.

— Naufraghi come voi, rispose l’ingegnere profondamente commosso; vi abbiamo condotto qui fra i vostri simili!

— Miei simili?... Non ne ho!

— Siete in mezzo ad amici...

— Amici... amici io! esclamò l’incognito nascondendo la faccia fra le mani; no.... mai.... lasciatemi, lasciatemi!

Fuggì verso l’altipiano che dominava il mare, e colà stette lungamente immobile. [p. 66 modifica]

Cyrus Smith aveva raggiunto i compagni e narrava loro l’accaduto.

— Sì, vi ha un mistero nella vita di quest’uomo, disse Gedeone Spilett, e pare ch’egli non sia ritornato nella umanità se non per la via dei rimorsi.

— Io non so che razza d’uomo abbiamo portato con noi... disse il marinajo; egli ha dei segreti...

— Che rispetteremo, rispose vivamente Cyrus Smith. Se egli ha commesso qualche colpa, l’ha crudelmente espiata, ed agli occhi nostri è assolto.

Per due ore l’incognito stette solo sulla spiaggia, evidentemente sotto l’influenza dei ricordi che gli risuscitavano tutto il suo passato – Un passato funesto senza dubbio, — ed i coloni, senza perderlo di vista, non cercarono di turbarne l’isolamento.

Pure, dopo due ore egli parve aver preso una risoluzione, e venne a trovare Cyrus Smith. Gli occhi suoi erano rossi di lagrime versate, ma non piangeva più. Nella sua faccia era l’impronta di una profonda umiltà; pareva timoroso, vergognoso, si faceva piccino, teneva continuamente lo sguardo abbassato a terra.

— Signore, disse egli a Cyrus Smith, i vostri compagni e voi siete inglesi?

— No, rispose l’ingegnere, siamo americani.

— Ah! disse l’incognito, e mormorò queste parole: “lo preferisco.”

— E voi, amico mio? chiese l’ingegnere.

— Inglese, rispose egli rapidamente.

E come se quelle poche parole gli fossero costate gran fatica, s’allontanò dal greto, che percorse dalla cascata fino alla foce della Grazia agitatissimo: poi, essendosi trovato a passare vicino ad Harbert, si fermò e gli chiese con voce soffocata:

— Che mese?

— Dicembre, rispose Harbert.

— Che anno?

— 1866. [p. 67 modifica]

— Dodici anni! dodici anni! esclamò, e se ne andò bruscamente.

Harbert aveva riferito ai coloni la domanda e la risposta che gli erano state fatte.

— Il digraziato, fece osservare Gedeone Spilett, non sapeva più in che mese, nè in che anno vivesse.

— Sì, aggiunse Harbert, e da dodici anni era sull’isolotto quando ve l’abbiamo trovato.

— Dodici anni! rispose Cyrus Smith; dodici anni di isolamento, dopo un’esistenza forse maledetta, possono ben alterare la ragione d’un uomo.

— Io propendo a credere, disse allora Pencroff, che quest’uomo non sia giunto all’isola Tabor per naufragio, ma che per qualche crimine vi sia stato abbandonato.

— Forse avete ragione, Pencroff, rispose il reporter, e se così è, non è impossibile che coloro che l’hanno lasciato sull’isola tornino a cercarvelo un giorno.

— E non ve lo troveranno più, disse Harbert.

— Ma allora, soggiunse Pencroff, bisognerebbe tornarvi, e....

— Amici miei, disse Cyrus Smith, non discutiamo tale quesito prima di sapere il tutto. Credo che questo disgraziato abbia sofferto, che abbia duramente espiate le sue colpe, qualunque esse siano, e che il bisogno d’espandersi lo soffochi; non eccitiamolo a raccontarci la sua istoria: ce la dirà senza dubbio; e quando l’avremo appresa vedremo quale partito bisognerà seguire. D’altra parte, egli solo può dirci se ha conservato, più della speranza, la certezza di esser un giorno ricondotto in patria, ma ne dubito.

— E perchè? domandò il reporter.

— Perchè se fosse stato sicuro d’essere liberato in un tempo determinato, avrebbe atteso l’ora della sua liberazione senza gettare il documento in mare. No, è più probabile che fosse condannato a morire in quell’isolotto, a non riveder più i suoi simili. [p. 68 modifica]

— Ma, fece osservare il marinajo, vi è una cosa che non mi so spiegare.

— Quale?

— Se da dodici anni quest’uomo fu abbandonato sull’isola Tabor, si può ben immaginare che fosse già da molti anni in quello stato di selvatichezza in cui l’abbiamo trovato.

— Ciò è probabile, disse Cyrus Smith.

— E da molti anni adunque egli avrebbe scritto il documento!

— Senza dubbio.... eppure il documento sembrava scritto di fresco; del resto, come ammettere che la bottiglia contenente il documento abbia impiegato molti anni a venire dall’isola Tabor all’isola Lincoln?

— Non è assolutamente impossibile, rispose il reporter. Non poteva essere già da un pezzo nei paraggi dell’isola?

— No, rispose Pencroff, perchè galleggiava ancora; non si può nemmeno supporre che, dopo di aver soggiornato un tempo più o meno lungo sulla spiaggia, abbia potuto essere ripresa dal mare, perchè è tutta scogli la costa del sud, e vi si sarebbe immancabilmente spezzata.

— È vero, rispose Cyrus Smith pensoso.

— Eppoi, aggiunse il marinajo, se il documento aveva molti anni di data, se da molti anni era chiuso in quella bottiglia, sarebbe stato guasto dall’umidità; ora, così non era; si trovava anzi benissimo conservato.

L’osservazione del marinajo era giustissima, e v’era in ciò un fatto incomprensibile, perchè il documento sembrava essere stato scritto di recente, quando i coloni lo trovarono nella bottiglia. Inoltre esso dava la posizione dell’isola Tabor in latitudine ed in longitudine precisa; il che richiedeva nel suo autore cognizioni non piccole di idrografia, quali un semplice marinajo non poteva avere.

— Lo ripeto, vi è qualche cosa d’inesplicabile [p. 69 modifica]disse l’ingegnere, ma non eccitiamo il nostro nuovo compagno a parlare; quando vorrà, saremo pronti ad ascoltarlo.

Nei giorni che seguirono, l’incognito non proferì parola, e non lasciò, una sola volta il ricinto dell’altipiano. Egli lavorava la terra senza perdere un istante, senza nemmanco riposarsi, ma sempre in disparte. Nelle ore del pasto non risaliva al Palazzo di Granito, benchè gliene fosse stato fatto invito molte volte, e s’accontentava di mangiare qualche legume crudo. Venuta la notte egli non tornava alla camera che gli era stata assegnata, ma se ne stava là, sotto un gruppo d’alberi, e quando il tempo era brutto, si raggomitolava in qualche vano delle roccie. A questo modo egli viveva ancora come al tempo in cui non aveva altro riparo fuorchè le foreste dell’isola Tabor, ed essendo stata vana ogni insistenza per indurlo a mutar abitudini di vita, i coloni aspettarono con pazienza. Ma giungeva finalmente il momento in cui, imperiosamente e come involontariamente spinto dalla propria coscienza dovevano sfuggirgli terribili confessioni.

Il 10 novembre, verso le dieci pomeridiane, il momento in cui cominciava a farsi notte, l’incognito si presentò all’improvviso dinanzi ai coloni, i quali erano riuniti sotto la veranda. Gli brillavano gli occhi stranamente, tutta la sua persona aveva ripigliato l’aspetto feroce dei giorni cattivi.

Cyrus Smith ed i compagni furono come atterriti, vedendo che, sotto l’impero d’una terribile commozione, i suoi denti battevano come quelli d’uno che ha la febbre. Che aveva egli? La vista de’ suoi simili gli era dunque insopportabile? Non voleva più saperne di quella esistenza in compagnia onesta? Lo ripigliavano dunque la nostalgia e l’abbrutimento? Così si dovette credere udendolo uscire in queste frasi incoerenti: [p. 70 modifica]

— Perchè son io qui?... Con qual diritto m’avete strappato al mio isolotto? Vi può essere un legame fra voi e me? E sapete chi sono... che ho fatto... perchè ero laggiù... solo? E chi vi dice ch’io non vi fossi stato abbandonato, che non fossi condannato a morire colà? Conoscete voi il mio passato? Sapete se non ho rubato... assassinato... se non sono un miserabile, un essere maledetto... che deve vivere come una belva... lontano da tutti!... dite, lo sapete voi!...

I coloni ascoltavano senza interrompere il disgraziato, al quale quelle mezze confessioni sfuggivano suo malgrado. Cyrus Smith volle allora tranquillarlo accostandosi a lui, ma egli diede indietro vivamente.

— No! no! esclamò. Una parola sola... sono io libero?

— Siete libero, rispose l’ingegnere.

— Addio dunque! esclamò egli, e fuggì come un pazzo.

Nab, Pencroff, Harbert, corsero subito verso il lembo del bosco... ma tornarono soli.

— Bisogna lasciarlo fare, disse Cyrus Smith.

— Non tornerà più! esclamò Pencroff.

— Tornerà, rispose l’ingegnere.

Passarono molti giorni, ma Cyrus Smith — era forse presentimento? — persistette nell’idea che il disgraziato dovesse tornare.

— È l’ultima rivolta, diceva egli, di quella rude natura che i rimorsi hanno toccato e che una nuova solitudine spaventerebbe.

Frattanto furono proseguiti i lavori d’ogni genere, tanto nell’altipiano di Lunga Vista, quanto al ricinto, dove Cyrus Smith aveva intenzione di fabbricare una fattoria. S’intende che i semi raccolti da Harbert nell’isola Tabor erano stati seminati con cura. L’altipiano formava allora un orto vasto, ben disegnato, ben coltivato, e che non lasciava in ozio le braccia [p. 71 modifica]dei coloni. Colà vi era sempre da lavorare. Man mano che le piante mangereccie si erano moltiplicate, era stato necessario ingrandire i semplici quadrati che tendevano a diventare campi veri ed invadere le praterie.

Ma il pascolo abbondava nelle altre parti dell’isola, e gli onaggas non dovevano temere di essere mai messi alla razione. D’altra parte, era meglio trasformare in orto l’altipiano di Lunga Vista, difeso dalla sua profonda cinta di rivi, e mettere di fuori le praterie, che non avevano bisogno d’essere protette contro le depredazioni dei quadrupedi o dei quadrumani.

Il 15 novembre si fece la terza messe. Ecco un campo che si era accresciuto in superficie nei diciotto mesi dacchè era stato seminato il primo grano di frumento!

Il secondo raccolto di seicentomila grani produsse questa volta quattromila moggia, ossia più di cinque cento milioni di grani! La colonia era ricca di frumento, giacchè bastava seminare una decina di moggia, perchè il raccolto fosse assicurato ogni anno, e tutti, uomini ed animali, potessero nutrirsene.

Fu dunque fatta la messe e consacrata l’ultima quindicina di novembre ai lavori di panificazione.

Infatti si aveva il grano, ma non la farina, e fu necessaria la costruzione d’un mulino.

Cyrus Smith avrebbe potuto trar partito dalla seconda cascata che sboccava sulla Grazia, per farne il motore, essendo la prima già occupata nel muovere i pestelli del mulino da follatura; ma dopo molto discutere, fu deciso di fare un semplice mulino a vento sulle alture di Lunga Vista. La costruzione dell’uno non offriva maggiori difficoltà della costruzione dell’altro, e s’era d’altra parte sicuri che su quell’altipiano esposto alle brezze marine non mancherebbe il vento. [p. 72 modifica]

— Senza contare, disse Pencroff, che il mulino a vento sarà più gajo e farà bell’effetto nel paesaggio.

Si posero adunque all’opera, scegliendo legno di costruzione per la gabbia e pel meccanismo del mulino. Alcune grosse pietre arenarie che si trovavano nel nord del lago potevano facilmente trasformarsi in macine, e quanto alle ali, dovevano essere fornite dall’inesauribile invoglio del pallone.

Cyrus Smith fece i disegni, e l’area del mulino fu scelta un po’ a dritta del cortile presso l’argine del lago.

Tutta la gabbia doveva poggiare sopra un perno, mantenuto con grosse intelajature, in guisa da poter girare insieme col meccanismo che conteneva, a seconda del vento. Quel lavoro fu compiuto rapidamente.

Nab e Pencroft erano divenuti abilissimi carpentieri, e non avevano che a seguire i modelli forniti dall’ingegnere. A questo modo una specie di casotto cilindrico, coperto d’un tetto aguzzo, sorse in breve tempo nel luogo designato. I quattro telaj che formavano le ali erano stati saldamente piantati nell’albero, in guisa da fare un certo angolo con esso, e furono fissati per mezzo di caviglie di ferro. Quanto alle diverse parti del meccanismo interno, la cassa destinata a contenere le due macine, la giacente e la girante, la tramoggia, specie di gran truogolo quadrato, largo in alto, stretto dal basso, che doveva permettere ai grani di cadere sulle macine, la cassetta oscillante che doveva regolare il passaggio del grano ed a cui il suo perpetuo tic tac ha fatto dare il nome di chiacchierona, ed infine il buratello, che coll’operazione della stacciatura separa la crusca dalla farina — tutto ciò fu fabbricato senza fatica. Buoni erano gli utensili, ed il lavoro fu poco difficile, perchè, del resto, gli organi d’un mulino sono semplicissimi. [p. 75 modifica]

Tutti avevano lavorato alla costruzione del mulino, che il 1° dicembre era terminato.

Come sempre, Pencroff era felice dell’opera sua e non dubitava che l’apparecchio fosse perfetto.

— Ed ora, un buon vento, diss’egli, e ci porremo a macinare il nostro primo raccolto.

— Un buon vento, sia pure, rispose l’ingegnere, ma non troppo vento.

— Che importa? il mulino girerà più presto.

— Non è necessario che giri tanto presto, rispose Cyrus Smith. Si sa per esperienza che la più gran quantità di lavoro è fatta da un mulino, quando il numero dei giri percorsi dalle ali in un minuto eguaglia sei volte il numero dei piedi percorsi dal vento in un secondo. Una brezza media, che dà ventiquattro piedi al secondo, imprimerà sedici giri alle ali in un minuto, e non ce ne vogliono di più.

— Appunto, soffia una bella brezza di nord-est! esclamò Harbert.

Non vi era alcuna ragione di ritardare l’inaugurazione del mulino, perchè i coloni avevano fretta d’assaggiare il primo boccone di pane dell’isola Lincoln. Quel giorno adunque, nel mattino, furono macinate due o tre moggia di grano, ed al domani a colazione una magnifica pagnotta, un po’ compatta forse, sebbene fermentata con lievito di birra, compariva sulla mensa del Palazzo di Granito. Ciascuno ne mangiò con avidità, come è facile immaginare.

Frattanto l’incognito non era riapparso. Molte volte Gedeone Spilett ed Harbert avevano percorso la foresta e i dintorni del Palazzo di Granito senza incontrarlo, senza trovarne alcuna traccia. S’impensierivano sul serio di tale scomparsa prolungata; certamente l’antico selvaggio dell’isola Tabor non poteva essere imbarazzato a vivere in quelle foreste ricche di selvaggina, ma non era forse da temere che ripi[p. 76 modifica]gliasse le proprie abitudini еe che quella indipendenza ravvivasse i suoi feroci istinti?

Cyrus Smith, con una specie di presentimento, senza dubbio, persisteva nel dire che il fuggitivo sarebbe tornato.

— Sì, tornerà, ripeteva egli con una fiducia che i compagni non potevano dividere. Quando il disgraziato era nell’isola Tabor si sapeva solo, qui sa che i suoi simili l’aspettano, e, dal momento che ha detto qualche cosa della vita passata, il povero pentito tornerà a dircela tutta; quel giorno egli sarà nostro!

Gli avvenimenti dovevano dar ragione a Cyrus Smith.

Il 3 dicembre, Harbert aveva lasciato l’altipiano di Lunga Vista ed era andato a pescare sulla riva meridionale del lago.

Era senz’armi; fin allora non era mai stata necessaria alcuna precauzione, poichè le belve non si mostravano in quella parte dell’isola.

Frattanto Pencroff e Nab lavoravano nel cortile, mentre Cyrus Smith ed il reporter erano occupati nei Camini a fabbricar della soda, essendo esaurita la provvista di sapone. D’un tratto udirono delle grida:

— Ajuto! ajuto!

Cyrus Smith ed il reporter, troppo lontani, non avevano potuto intendere quelle grida. Pencroff e Nab, abbandonando il cortile, erano corsi a precipizio verso il lago. Ma prima di essi l’incognito, di cui nessuno avrebbe potuto sospettar la presenza in quel luogo, valicava il rivo Glicerina, che separava il lago dalla foresta, e balzava sulla riva opposta.

Colà Harbert era in faccia ad un formidabile jaguaro, simile a quello ch’era stato ucciso nel promontorio del Rettile. Colto alla sprovveduta, egli se ne stava in piedi contro un albero, mentre l’animale si teneva pronto ad avventarsi; ma l’incognito, senz’altr’arme [p. 77 modifica]fuorchè un coltello, si precipitò sulla belva formidabile, la quale si volse contro il nuovo avversario.

La lotta fu breve. L’incognito era d’una forza e d’una destrezza prodigiosa. Aveva egli afferrato lo jaguaro alla gola con una mano poderosa come una morsa, senza badare che gli artigli della belva gli penetravano nelle carni, e coll’altra le frugava il cuore col coltello. [p. 79 modifica]Aveva egli afferrato lo jaguaro.

Vol. IV, pag. 77.

Lo jaguaro cadde. L’incognito lo spinge col piede e stava per fuggirsene nel momento in cui i coloni giungevano sul teatro della lotta, quando Harbert, aggrappandosi a lui, esclamò:

— No, no, non ve ne andrete!

Cyrus Smith mosse verso l’incognito, cui si corrugarono le sopracciglia quando lo vide avvicinarsi. Il sangue scorreva dalla sua spalla sotto la veste lacerata, ma egli non vi badava.

— Amico mio, gli disse Cyrus Smith, abbiamo contratto un debito di riconoscenza verso di voi. Per salvare il figlio nostro avete arrischiata la vita.

— La mia vita! mormorò l’incognito, che vale? Meno di nulla.

— Siete ferito?

— Poco importa.

— Volete darmi la vostra mano?

E siccome Harbert cercava di afferrar quella mano che l’aveva salvato, l’incognito incrociò le braccia; gli si gonfiò il petto, gli si velò lo sguardo; parve voler fuggire, ma, facendo un violento sforzo sopra sè stesso, disse bruscamente:

— Chi siete? Che pretendete d’essere per me?

Era la storia dei coloni ch’egli così domandava e per la prima volta. Forse, raccontata quella storia, egli doveva dire la sua.

In poche parole, Cyrus Smith narrò tutto quanto era accaduto dopo la loro partenza da Richmond, come si fossero cavati d’impaccio e quali mezzi [p. 78 modifica]avessero ormai a loro disposizione. L’incognito ascoltava con estrema attenzione, poi l’ingegnere disse i nomi di Gedeone Spilett, di Harbert, di Pencroff, il suo, ed aggiunse che la più gran gioja che avessero provato dopo il loro arrivo nell’isola Lincoln, era al loro ritorno dall’isolotto, quando avevano potuto contare un compagno di più.

A tali parole costui arrossì, e curvò la testa sul petto in atto di confusione.

— Ed ora che ci conoscete, aggiunse Cyrus Smith, volete darci la vostra mano?

— No, rispose l’incognito con voce sorda, no, siete gente onesta, voi! Ed io!...