L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo IX

Da Wikisource.
Parte terza - Capitolo IX

../Capitolo VIII ../Capitolo X IncludiIntestazione 28 luglio 2023 75% Da definire

Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
Parte terza - Capitolo IX
Parte terza - Capitolo VIII Parte terza - Capitolo X
[p. 89 modifica]

CAPITOLO IX.


Senza notizie di Nab — Proposta di Pencroff e del reporter che vien respinta – Alcune idee di Gedeone Spilett — Un brandello di stoffa — Un messaggio — Partenza precipitosa — Arrivo all’altipiano di Lunga Vista.

La convalescenza del giovane ferito progrediva. Una cosa era a desiderarsi, cioè che il suo stato permettesse di ricondurlo al Palazzo di Granito. Per quanto ben fornita fosse l’abitazione del ricinto, non si poteva trovarvi il comodo del vasto edifizio di Granito. Senza dire che non offriva la medesima sicurezza e che i loro ospiti, malgrado la sorveglianza, stavano sempre sotto la minaccia delle schioppettate dei deportati. Laggiù, al contrario, in mezzo a quella rôcca inespugnabile ed inaccessibile, nulla avrrebbero a temere, e qualsiasi tentativo contro la loro persona dovrebbe andar fallito.

Aspettavano adunque impazienti il momento in cui Harbert potesse esser trasportato senza danno, ed erano determinati a compiere quel trasporto, sebbene le comunicazioni attraverso i boschi del Jacamar fossero difficilissime.

Si era senza notizie di Nab, ma pur senza inquietudini rispetto a lui. Il coraggioso negro, stando nelle profondità del Palazzo di Granito, non si lascerebbe certo sorprendere. Top non era stato più rimandato, essendo parso inutile esporre il fedele cane a qualche schioppettata che avesse a privare i coloni del loro ausiliario più utile. Si aspettava dunque, ma i coloni avevan fretta di esser riuniti al Palazzo di Granito. Doleva all’ingegnere di veder le proprie forze divise, [p. 90 modifica]perchè era servire il gioco dei pirati. Dopo la scomparsa di Ayrton, non erano più che quattro contro cinque, giacchè Harbert non poteva contare ancora; e non era il più piccolo affanno del bravo figliuolo il sapersi d’imbarazzo ai compagni.

Si trattava di decidere come si dovesse comportarsi nelle condizioni presenti contro i deportati, ed il quesito fu discusso a fondo nella giornata del 29 novembre tra Cyrus Smith, Gedeone Spilett e Pencroff, in un momento in cui Harbert, assopito, non li poteva intendere.

— Amici miei, disse il reporter, dopo che si fu parlato di Nab e dell’impossibilità di comunicare con lui, io credo al par di voi che arrischiarsi sulla via del ricinto sia esporsi a ricevere una schioppettata senza poterla restituire. Ma non credete voi che il più conveniente sarebbe di dar la caccia addirittura a quei miserabili?

— Ci pensavo appunto, rispose Pencroff; noi non temiamo certamente una palla, e quanto a me, se il signor Gedeone dice di sì, sono pronto a gettarmi nella foresta. Diamine! un uomo ne val ben un altro.

— Ma ne vale egli cinque? domandò l’ingegnere.

— Andrò io con Pencroff, rispose il reporter, ed entrambi, ben armati, accompagnati da Top....

— Caro Spilett, e voi Pencroff, soggiunse Cyrus Smith, ragioniamo freddamente: se i deportati fossero rintanati in un punto dell’isola, e questo punto ci fosse noto e non si trattasse che di stanarneli, comprenderei un assalto diretto; ma non è invece da temere che essi siano certi di sparare il primo colpo?

— Eh, signor Cyrus, esclamò Pencroff, una palla non va sempre al suo indirizzo!

— Quella che ha colpito Harbert non si è smarrita, Pencroff, rispose l’ingegnere; e poi osservate che se entrambi lasciate il ricinto, rimango io solo [p. 91 modifica]per difenderlo, e siete voi certi che i deportati non vi vedranno uscirne o non vi lasceranno addentrare nella foresta per assalirlo poi durante la vostra assenza, sapendo di non trovar qui che un fanciullo ferito ed un uomo?

— Avete ragione, signor Cyrus, rispose Pencroff, cui una sorda collera enfiava il petto, avete ragione, essi faranno di tutto per riprendere il ricinto che sanno ben provveduto, e da solo non potrete reggere contro di essi. Ah! se fossimo al Palazzo di Granito!

— Se fossimo al Palazzo di Granito, rispose l’ingegnere, la cosa sarebbe molto differente! Colò non temerei di lasciar Harbert con uno di noi, mentre gli altri tre andrebbero a frugare nelle foreste dell’isola. Ma siamo al ricinto, e conviene restarvi fino a che possiamo lasciarlo tutti insieme.

Non vi era nulla da rispondere ai ragionamenti di Cyrus Smith.

— Almeno Ayrton fosse ancora con noi! disse Gedeone Spilett. Povero uomo! il suo ritorno alla vita sociale è stato breve.

— Se pure è morto, aggiunse Pencroff con accento bizzarro.

— Sperate voi dunque che i furfanti l’abbiano risparmiato? domandò Gedeone Spilett.

— Sì, se hanno avuto interesse di farlo, rispose Pencroff.

— Come, immaginereste che Ayrton, ritrovando gli antichi complici, abbia dimenticato tutto quanto ci deve!...

— E chi ne sa qualche cosa? rispose il marinajo, che però esitava nel fare questa brutta supposizione.

— Pencroff, disse Cyrus Smith pigliandolo per il braccio, voi avete un cattivo pensiero e mi affliggerete molto continuando a parlare a questo modo. Io garantisco la fedeltà di Ayrton.

— Ed io pure, aggiunse il reporter. [p. 92 modifica]

— Sì... sì... signor Cyrus, disse Pencroff, ho torto, è infatti un cattivo pensiero che ho avuto e nulla lo giustifica...; ma che volete, non ho tutto il mio cervello; quest’imprigionamento nel ricinto mi pesa, mi opprime! Non sono mai stato così impaziente come ora!

— E bisogna essere pazienti, Pencroff, rispose l’ingegnere. Fra quanto tempo, caro Spilett, credete che Harbert possa essere trasportato al Palazzo di Granito?

— È difficile determinarlo, rispose il reporter, perchè un’imprudenza potrebbe produrre funeste conseguenze. Ma peraltro la sua convalescenza procede regolarmente, e se fra otto giorni gli sono tornate le forze, allora vedremo.

— Otto giorni!

Ciò faceva differir il ritorno al Palazzo di Granito ai primi di dicembre; a quel tempo la primavera aveva già due mesi di data, la stagione era bella, il caldo incominciava a divenire intenso. Le foreste dell’isola eran tutte fronzute, e si avvicinava il momento in cui si dovevano fare le solite messi. Il ritorno all’altipiano di Lunga Vista doveva dunque esser seguito dai gran lavori agricoli; la dilazione interromperebbe la spedizione disegnata nell’isola.

Si comprenderà adunque quanto quella chiusura nel ricinto dovesse nuocere ai coloni. Ma se essi erano obbligati a curvarsi dinanzi alla necessità, non lo facevano senza impazienza.

Una o due volte il reporter si arrischiò sulla via, e fece il giro della palizzata accompagnato da Top, e colla carabina armata, pronto ad ogni avvenimento.

Non fece alcun brutto incontro e non trovò alcuna pedata sospetta. Il cane, del resto, l’avrebbe avvertito di qualsiasi pericolo, e siccome Top non abbajò, si poteva arguire non vi fosse nulla da temere, almeno in quel momento, e che i deportati fossero occupati in un’altra parte dell’isola. Pure, in una se[p. 93 modifica]conda sortita (27 novembre) Gedeone Spilett, il quale si era avventurato nei boschi per un quarto di miglio al sud della montagna, notò che Top sentiva qualche cosa. Il cane non aveva più i suoi modi indifferenti. Andava e veniva, frugava nell’erba e nei cespugli, come se l’odore gli svelasse qualche cosa sospetta.

Gedeone Spilett seguiva Top, lo incoraggiò, lo eccitò colla voce tenendosi pronto colla carabina spianata, ed approfittando del riparo degli alberi per coprirsi.

Non era probabile che Top avesse sentito la presenza d’un uomo, perchè in questo caso l’avrebbe annunziato con latrati trattenuti, e con una specie di collera sorda. Ora, poichè non faceva udire alcun brontolío, bisognava arguire che il pericolo non fosse nè vicino, nè imminente.

Passarono così cinque minuti circa. Top frugando, seguendolo il reporter con prudenza; quando d’un tratto il cane si precipitò verso un fitto cespuglio e ne estrasse un brandello di stoffa. Era un pezzo di veste maculata, lacera, che subito Gedeone Spilett portò al ricinto. Colà i coloni lo esaminarono, e riconobbero in essa un pezzo della veste di Ayrton, fatta di quel feltro unicamente fabbricato all’officina del Palazzo di Granito.

— Lo vedete, Pencroff, fece osservare Cyrus Smith, il disgraziato Ayrton ha resistito, i deportati l’hanno trascinato suo malgrado! Dubitate voi ancora della sua onestà?

— No, signor Cyrus, rispose il marinajo, e già da un pezzo mi sono pentito della mia diffidenza d’un momento; ma mi pare che bisogni dedurre una conseguenza da questo fatto.

— Quale? domandò il reporter.

— Questa, che Ayrton non fu ucciso nel ricinto, che fu trascinato vivo, dal momento che ha resistito, e che perciò vive forse ancora. [p. 94 modifica]

— Può essere infatti, rispose l’ingegnere, il quale rimase pensoso.

Ecco adunque una speranza che sorrideva ai compagni di Ayrton. In fatti avevano essi dovuto credere che, sorpreso al ricinto, Ayrton fosse caduto sotto qualche palla, al pari di Harbert; ma se i deportati non l’avevano ucciso a bella prima, se l’avevano trascinato vivo in qualche altra parte dell’isola, si poteva ammettere che fosse ancora loro prigioniero.

Fors’anco alcuni di essi avevano ritrovato in Ayrton un antico compagno d’Australia, il Ben Joyce, il capo dei deportati evasi, e chissà se non avessero concepito la speranza impossibile di riguadagnarlo alla propria causa pensando che, pur di farne un traditore, potrebbe loro tornar utile?

Quest’incidente fu adunque interpretato favorevolmente, e non parve più impossibile che si avesse a ritrovare Ayrton.

Dal canto suo, se era soltanto prigioniero, Ayrton farebbe di tutto, senza dubbio, per fuggir di mano ai banditi e divenire un potente ausiliario dei coloni.

— Ad ogni modo, fece osservare Gedeone Spilett, se per fortuna Ayrton riesce a salvarsi, gli è al Palazzo di Granito che andrà direttamente, perchè non conosce il tentativo d’assassinio di cui Harbert fu vittima, e per conseguenza non può credere che noi siamo imprigionati al ricinto.

— Ah! vorrei che ci fosse al Palazzo di Granito, esclamò Pencroff, e che ci fossimo anche noi! perchè infine se i furfanti non possono tentar nulla contro la nostra casa, possono pero saccheggiar l’altipiano, le piantagioni, il cortile.

Pencroff era divenuto un vero fittajuolo, e gli stavano a cuore i suoi raccolti; ma bisogna dire che Harbert era più di tutti impaziente di tornare al Palazzo di Granito, perchè egli sapeva quanto la pre[p. 95 modifica]senza dei coloni vi fosse necessaria. Ed era lui che li tratteneva al recinto!

Perciò quest’unica idea gli assediava lo spirito: lasciare il ricinto, lasciarlo ad ogni costo; egli credeva di poter sopportare il trasporto al Palazzo di Granito e diceva che le forze gli tornerebbero più presto nella sua cameretta, coll’aria e colla vista del mare.

Molte volte fece premura a Gedeone Spilett; ma costui, temendo con ragione che le piaghe mal cicatrizzate si riaprissero per via, non dava l’ordine di partire.

Pure avvenne un incidente che indusse Cyrus Smith ed i suoi due amici a cedere ai desiderî del giovane, e sa Dio quanti dolori e quanti rimorsi poteva cagionar loro questa determinazione.

Si era al 29 novembre, erano le sette del mattino, e i tre coloni cianciavano nella camera di Harbert, quando intesero Top mandare vivi latrati.

Cyrus Smith, Pencroff e Gedeone Spilett brandirono i fucili, sempre pronti a far fuoco, ed uscirono di casa.

Top, essendo corso a’ piedi della palizzata, saltava, abbajava, ma per contentezza, non per collera.

— Qualcuno viene.

— Sì.

— Non è un nemico.

— Nab forse?

— O Ayrton?

Erano appena state scambiate queste parole fra l’ingegnere ed i suoi due compagni, quando un corpo, balzando sulla palizzata, ricadeva entro il ricinto.

Era Jup, mastro Jup in persona, al quale Top fece accoglienze da vero amico.

— Jup! esclamò Pencroff.

— È Nab che ce lo manda, disse il reporter.

— Allora deve aver qualche biglietto, disse Cyrus Smith. [p. 96 modifica]

Il reporter si precipitò verso l’orangotano. Evidentemente se Nab aveva qualche cosa da far conoscere al suo padrone, non poteva adoperare un più sicuro messaggero, il quale potesse passare in quei luoghi dove i coloni non avrebbero potuto essi stessi. Cyrus Smith non s’era sbagliato: dal collo di Jup pendeva un sacchetto, e nel sacchetto si trovava un biglietto tracciato di mano di Nab.

Si giudichi della disperazione dei coloni quando lessero queste parole:

“Venerdi, 6 antimeridiane,

“Altipiano invaso dai deportati.

Nab.”


Rientrarono in casa. Che dovevano fare? L’altipiano invaso dai deportati, voleva dire il disastro, la rovina.

Quando Harbert vide rientrare i coloni, e vide Jup, temette che la situazione fosse pericolosa.

— Signor Cyrus, disse, voglio partire, io posso sopportare il viaggio, voglio partire!

Gedeone Spilett s’accostò ad Harbert e, dopo averlo guardato, disse:

— E sia pure, partiamo.

Non si stette molto a deliberare se si dovesse condurre Harbert in barella o nel carro che era stato portato da Ayrton. La barella avrebbe avuto movimenti più dolci per il ferito, ma rendeva necessarî due portatori, e toglieva così due fucili alla difesa in caso d’assalto per via. Non conveniva invece, pigliando il carro, lasciare tutte le braccia disponibili? Era egli possibile collocare il materasso sul quale riposava Harbert, ed avanzare tanto lenti da impedire qualsiasi urto?

Sì, che si poteva. Fu condotto il carro, e Cyrus Smith vi aggiogò l’onagga. Pencroff ed il reporter [p. 97 modifica]sollevarono il materasso e lo deposero sul fondo del carro fra i due ridoli. [p. 207 modifica]Cyrus Smith vi aggiogò l’onagga.

Vol. V, pag. 96.

Il tempo era bello. Vivi raggi di sole si cacciavano attraverso gli alberi.

— Sono pronte le armi? domandò Cyrus Smith.

Erano pronte. L’ingegnere e Pencroff, armati ciascuno d’un fucile a due colpi, e Gedeone Spilett brandendo la carabina, più non avevano che a partire.

— Stai bene, Harbert! domandò l’ingegnere.

— Ah! signor Cyrus, rispose il giovane, state tranquillo, non morrò lungo la strada.

Così parlando si vedeva che il povero fanciullo faceva appello a tutta la sua energia e che con un supremo sforzo di volontà tratteneva le forze che stavano per spegnersi.

L’ingegnere si sentì stringere dolorosamente il cuore. Esitò ancora a dare il segnale della partenza, ma sarebbe stato far disperare Harbert e forse anco ucciderlo.

— In cammino, disse Cyrus Smith.

La porta del ricinto fu aperta; Jup e Top, che sapevano tacere a tempo e luogo, si precipitarono innanzi. Il carro uscì, la porta fu chiusa, e l’onagga, guidato da Pencroff, s’avanzd a passo lento.

Certo meglio sarebbe stato prendere altra via da quella che moveva direttamente dal ricinto al Palazzo di Granito, ma il carro avrebbe trovato gran difficoltà a muoversi sotto i boschi. Bisogno dunque seguir quella via, benchè dovesse essere conosciuta dai deportati.

Cyrus Smith e Gedeone Spilett camminavano dai due lati del carro pronti a rispondere ad ogni attacco; pure non era probabile che i deportati avessero ancora abbandonato l’altipiano di Lunga Vista. Il biglietto di Nab era evidentemente stato scritto e mandato appena i deportati vi si erano mostrati.

Ora quel biglietto era datato dalle sei del mattino, [p. 98 modifica]e l’agile scimmia, avvezza a venire di frequente al ricinto, non aveva impiegato più di tre quarti d’ora a percorrere le cinque miglia che la separavano dal Palazzo di Granito. La via doveva adunque esser sicura in quel momento e non si aveva da fare le schioppettate prima d’essere in vicinanza del Palazzo di Granito. Per altro, i coloni si tenevano pronti.

Top e Jup, quest’ultimo armato del suo bastone, ora andando innanzi, ora frugando nei boschi ai lati del cammino, non segnalavano alcun pericolo. Il carro avanzava lentamente sotto la direzione di Pencroff. Avevano lasciato il ricinto alle sette e mezza. Un’ora dopo, quattro miglia delle cinque erano percorse, nè alcun accidente era accaduto. Deserta era la via, al pari di tutta quella parte del bosco del Jacamar che si estendeva fra la Grazia ed il lago. Non ci fu alcun allarme. I boschi sembravano deserti come nel giorno in cui i coloni approdarono nell’isola. Si era già appresso all’altipiano, ancora un miglio e si doveva vedere il ponticello del rivo Glicerina.

Cyrus Smith non dubitava che il ponticello fosse al suo posto, sia che i deportati fossero passati di colà, o sia che, dopo d’aver attraversato uno dei corsi d’acqua, avessero presa la precauzione d’abbassarlo per prepararsi la ritirata.

Alla fine, attraverso gli alberi si vide l’orizzonte del mare, ma il carro continuò il suo viaggio, perchè nessuno dei difensori poteva pensare ad abbandonarlo.

In questo momento Pencroff arrestò l’onagga ed esclamò con voce terribile:

— Ah, i miserabili!

E mostrò colla mano un denso fumo che turbinava sul mulino, sulle stalle, e sul cortile.

Un uomo s’agitava in mezzo a quei vapori.

Era Nab.

I suoi compagni mandarono un grido: Nab li riconobbe e corse loro incontro. [p. 99 modifica] I deportati avevano abbandonato l’altipiano da mezz’ora circa, dopo d’aver devastato ogni cosa.

— Ed il signor Harbert? esclamò Nab.

Gedeone Spilett tornò allora al carro.

Harbert aveva smarrito i sensi.