L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XIX

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Parte terza - Capitolo XIX

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XIX.


Come Cyrus Smith raccontasse la sua esplorazione – Si spingono i lavori di costruzione — Un’ultima visita al ricinto — Combattimento fra il fuoco e l’acqua — Quello che rimane alla superficie dell’isola — Si decide di varare la nave — La notte dall’8 al 9 marzo.

Il domani mattina, dopo una giornata passata al ricinto, tutto essendo in perfetto ordine, Cyrus Smith ed Ayrton tornavano al Palazzo di Granito.

Subito l’ingegnere radunò i compagni, ed apprese loro che l’isola Lincoln correva un immenso pericolo, cui alcuna forza umana non poteva scongiurare.

— Amici miei, disse egli, e la sua voce svelava una profonda commozione, l’isola Lincoln non è di quelle che debbano durare quanto il globo medesimo. È votata ad una distruzione più o meno prossima, la cui causa è in lei ed a cui nulla potrà sottrarla.

I coloni si guardarono e guardarono l’ingegnere. Non potevano comprendere.

— Spiegatevi, Cyrus, disse Gedeone Spilett.

— Mi spiego, rispose Cyrus Smith, o meglio non farò che trasmettere la spiegazione, che nei nostri pochi minuti di colloquio segreto mi fu data dal capitano Nemo.

— Il capitano Nemo! esclamarono i coloni.

— Sì, ed è l’ultimo beneficio che ci ha voluto fare prima di morire.

— L’ultimo benefizio! esclamò Pencroff, l’ultimo [p. 80 modifica]beneficio! Vedrete che, così morto com’è, ce ne farà degli altri.

— E che cosa vi ha detto il capitano Nemo? do mando il reporter.

— Sappiatelo dunque, amici miei; l’isola Lincoln non è nelle condizioni in cui sono le altre isole del Pacifico, e una disposizione speciale, che mi ha fatto conoscere il capitano Nemo, deve tosto o tardi produrre lo spezzamento della sua ossatura sottomarina.

— Uno spezzamento! l’isola Lincoln spezzarsi! Oibò! esclamò Pencroff, il quale, malgrado tutto il rispetto che aveva per Cyrus Smith, non potè trattenersi dallo stringersi nelle spalle.

— Ascoltate, Pencroff, proseguì a dire l’ingegnere; ecco quello che aveva notato il capitano Nemo e che ho accertato io medesimo jeri nella mia escursione alla cripta Dakkar. Questa cripta si prolunga fin sotto al vulcano e non è separata dal condotto centrale se non dalla parete che ne forma il termine. Ora questa parete è solcata da fessure, che lasciano già passare i gas solforosi sviluppati all’interno del vulcano.

— Ebbene? domandò Pencroff corrugando la fronte.

— Ebbene, mi sono accorto che quelle fessure si allargano sotto la spinta interna, che quella muraglia di basalto si fende, e che in un tempo più o meno lungo essa lascerà passare le acque del mare che empiono la caverna.

— Buono! esclamò Pencroff tentando di scherzare un’ultima volta; il mare spegnerà il vulcano e tutto sarà finito.

— Sì, rispose Cyrus Smith, sì, tutto sarà finito. Il giorno in cui l’acqua del mare si precipiterà nel condotto centrale e penetrerà fin nelle viscere dell’isola, quel giorno Pencroff, l’isola Lincoln salterà in aria, come salterebbe in aria la Sicilia se il Mediterraneo penetrasse nell’Etna!

Nulla risposero i coloni a questa frase così affer[p. 81 modifica]mativa; avevano compreso qual pericolo li minacciasse.

Giova dire, d’altra parte, che Cyrus Smith non esagerava punto. Molti hanno già avuto l’idea che si potrebbero spegnere i vulcani, i quali si elevano quasi tutti in vicinanza dei mari o dei laghi, aprendo l’ingresso alle acque; ma non sapevano che per tal guisa si esponevano a far saltare in aria parte del globo, come una caldaja a vapore, perchè l’acqua, precipitandosi in un mezzo chiuso, la cui temperatura può essere valutata a migliaja di gradi, si evaporerebbe con tanta energia, che la crosta terrestre non potrebbe resistere.

Non vi era dunque dubbio che l’isola, minacciata da una formidabile dislocazione, durerebbe solo tanto quanto la parete della cripta Dakkar. E non era già questione di mesi, nè di settimane, ma di giorni, forse di ore.

Il primo sentimento dei coloni fu un profondo dolore. Essi non pensavano al pericolo che li minacciava, ma alla distruzione di quel suolo che li aveva accolti, di quell’isola che avevano fecondato, di quell’isola che amavano e che volevano rendere florida un giorno! Quante fatiche spese inutilmente, quanti lavori perduti!....

Pencroff non potè trattenere una grossa lagrima, che non cercò di nascondere.

La conversazione proseguì alcun tempo ancora. Vennero discusse le speranze su cui i coloni potevano tuttavia contare, ma a mo’ di conclusione si riconobbe che non vi era un’ora da perdere e che si doveva spingere con prodigiosa alacrità la costruzione della nave, quello essendo il solo scampo degli abitanti dell’isola Lincoln.

Tutte le braccia si posero all’opera. A che avrebbe servito oramai mietere, andare a caccia, aumentare le provviste del Palazzo di Granito? Quello che con[p. 82 modifica]tenevano le dispense doveva bastare ad approvvigionar la nave per una traversata lunghissima. L’importante era che fosse a disposizione dei coloni prima che avvenisse l’inevitabile catastrofe.

Furono ripresi i lavori con ardore febbrile. Verso il 23 gennajo la nave era fasciata a mezzo. Fin’allora nessuna modificazione era avvenuta nel cratere del vulcano. Erano sempre vapori, fumo misto a fiamme e traversato da pietre incandescenti che sfuggivano dal cratere.

Ma durante la notte dal 23 al 24, sotto la spinta delle lave che giunsero al livello del primo piano del vulcano, questo perdette il cono che formava cappello. Si udì un formidabile rumore.

I coloni credettero sulle prime che l’isola si spezzasse, e si precipitarono fuor del Palazzo di Granito. Erano circa le due del mattino; il cielo era in fiamme; il cono del vulcano, masso enorme, che pesava miliardi di libbre, fu gettato sull’isola, che ne tremò tutta. Fortunatamente, questo cono pendeva verso il nord, e cadde sul piano di sabbie e di tufi, che si estendeva tra il vulcano ed il mare.

Il cratere largamente aperto gettò al cielo una luce così intensa, che per semplice effetto della riflessione l’atmosfera sembrava infuocata. Al medesimo tempo un torrente di lave, gonfiandosi alla nuova vetta, traboccava in lunghe cascate, come l’acqua che sfugge da una vasca troppo piena, e mille serpenti di fuoco strisciavano sulla balza del vulcano.

— Il ricinto! il ricinto! esclamò Ayrton.

Era infatti verso il ricinto che scendevano le lave in causa dell’orientazione del nuovo cratere, e per conseguenza erano le parti fertili dell’isola, le sorgenti del rivo Rosso, i boschi di Jacamar che erano minacciati da una imminente distruzione.

Al grido di Ayrton i coloni s’erano precipitati verso la stalla degli onaggas, il carro era stato aggiogato, [p. 83 modifica]tutti avevano un solo pensiero: correre al ricinto e mettere in libertà gli animali che conteneva.

Prima delle tre del mattino erano giunti al ricinto. Urla orribili indicavano il terrore dei mufloni e delle capre. Già un torrente di materie liquefatte cadeva dal contrafforte sulla prateria e rodeva questa parte della palizzata. La porta fu aperta bruscamente da Ayrton, e gli animali fuggirono come pazzi in tutte le direzioni.

Un’ora dopo la lava empiva il ricinto, volatilizzava l’acqua del rigagnolo, incendiando l’abitazione come un falò e divorando fin l’ultimo palo della cinta.

Più nulla rimaneva del ricinto!

I coloni avevano voluto lottare contro quell’invasione, e si erano provati strenuamente, ma inutilmente, giacchè l’uomo è disarmato contro quei grandi cataclismi.

Era venuto il giorno 24 gennajo. Cyrus Smith ed i suoi compagni, prima di tornare al Palazzo di Granito, vollero osservare la direzione definitiva che avrebbe preso quell’inondazione di lave. Il pendio generale del suolo s’abbassava dal monte Franklin alla costa est, ed era a temersi che, non ostante i fitti boschi di Jacamar, il torrente si propagasse tino all’altipiano di Lunga Vista.

— Il lago ci coprirà, disse Gedeone Spilett.

— Lo spero, rispose Cyrus Smith.

Null’altro.

I coloni avrebbero voluto inoltrarsi fino alla pianura su cui era caduto il cono superiore del monte Franklin, ma allora le lave sbarravano il passaggio. Esse seguivano da una parte la vallata del rivo Rosso e dall’altra quella del rivo della Cascata, facendo evaporare i due corsi d’acqua nel loro passaggio. Nessuna possibilità di attraversare il torrente; bisognava tornare indietro. Il vulcano svettato non era più riconoscibile. Una specie di tavola rasa lo terminava allora e sostituiva l’antico cratere. [p. 84 modifica]

Per due gole, scavate nei suoi fianchi, al sud ed all’est, traboccavano di continuo le lave, formando due correnti distinte. Al disopra del nuovo cratere una nuvola di fumo e di ceneri si confondeva coi vapori del cielo, addensati sopra l’isola; si udivano scoppi di folgore confusi col brontolio della montagna, dalla cui bocca si avventavano massi infuocati, che, spinti a più di mille piedi, scoppiavano nelle nuvole e si disperdevano come mitraglia. Il cielo rispondeva coi lampi all’eruzione vulcanica.

Verso le sette del mattino, i coloni che si erano rifugiati nel lembo del bosco di Jacamar, non potevano durare più oltre. Non solo i projettili cominciavano a correre intorno ad essi, ma le lave, straripando dal letto del rivo Rosso, minacciavano di tagliare la via del ricinto.

Gli alberi delle prime file presero fuoco, e la loro linfa, trasformata di un tratto in vapore, li fece scoppiare come fuochi d’artifizio, mentre altri meno umidi rimanevano intatti in mezzo all’inondazione.

I coloni avevano preso la via del ricinto camminando lentamente, rinculoni, per così dire. Ma in causa dell’inclinazione del suolo, il torrente guadagnava in rapidità all’est, e quando gli strati inferiori delle lave si erano induriti, altre zone bollenti li ricoprivano tosto.

Frattanto la principale corrente della valle del rivo Rosso diveniva sempre più minacciosa. Tutta quella parte della foresta era infuocata, ed enormi volute di fumo si svolgevano sulle vette degli alberi, il cui tronco già crepitava nella lava.

I coloni s’arrestarono presso al lago, a mezzo miglio dalla foce del rivo Rosso. Or si doveva decidere per essi una quistione di vita o di morte. Cyrus Smith, abituato a tener nota delle situazioni gravi, e sapendo d’aver a fare con uomini ca paci d’intender il vero, disse allora: [p. 85 modifica]

— O il lago arresterà questa corrente, ed una parte dell’isola sarà preservata da una devastazione completa, oppure la corrente invaderà le foreste del Far-West, e non un albero, non una pianta rimarrà alla superficie del suolo. Non avremo più in prospettiva su queste nude roccie altro che una morte che l’esplosione dell’isola non ci farà aspettare.

— Allora, esclamò Pencroff incrociando le braccia e picchiando la terra col piede, è inutile lavorare al battello, non è vero?

— Pencroff, rispose Cyrus Smith, bisogna fare il proprio dovere fino alla fine.

In questo momento il fiume di lava, dopo di essersi aperto un passo attraverso agli alberi che divorava, giunse al confine del lago. Colà era un certo rialzo del terreno, che, se fosse stato maggiore, avrebbe forse bastato a trattenere il torrente.

— All’opera! esclamò Cyrus Smith.

Il pensiero dell’ingegnere fu subito compreso. A quel torrente bisognava, per così dire, porre una diga e costringerlo a versarsi nel lago. Corsero i coloni al cantiere, e tornarono con zappe, accette e vanghe; poi per mezzo di cumuli di terra, ed alberi atterrati, riuscirono in poche ore a rizzare una diga alta tre piedi e lunga qualche centinajo di passi. Pareva loro, quando ebbero finito, che non avessero lavorato che pochi minuti.

Era tempo. La materia liquida giunse quasi subito alla parte inferiore della spalla. Il fiume si gonfiò come per una piena e minacciò di straripare e di vincere il solo ostacolo che poteva impedirgli d’invadere tutto il Far-West.... Ma la diga pervenne a trattenerlo, e dopo un minuto di esitazione terribile, la costrinse a versarsi nel lago Grant con una cascata alta alcuni piedi.

I coloni, ansimanti, senza fare un gesto, senza proferire parola, guardarono allora quella lotta dei due elementi. [p. 86 modifica]

Quale spettacolo, codesto combattimento tra l’acqua ed il fuoco! E quale penna potrà descrivere quella scena d’un orrore meraviglioso? Qual pennello dipingerla?

L’acqua fischiava evaporandosi al contatto delle lave ribollenti. I vapori spinti nell’aria turbinavano ad incomparabile altezza, come se le valvole d’un’immensa caldaja fossero state aperte ad un tratto. Ma per quanto grande fosse la massa d’acqua contenuta nel lago, doveva finire coll’essere assorbita, poichè non si rinnovava, mentre il torrente, alimentandosi ad una inestinguibile scaturigine, svolgeva di continuo nuovi flutti di materia infuocata. Le prime lave che caddero nel lago si solidificarono e si accumularono in guisa da emergere poco dopo. Alla superficie scivolarono altre lave, che divennero pietre alla lor volta, ma spingendosi verso il centro.

Si formò a questo modo uno scogliere che minacciò di colmare il lago, il quale non poteva straripare, perchè il soverchio delle sue acque si spandeva in vapori. Fischi e stridi fendevano l’aria con assordante rumore, ed i vapori, trascinati dal vento, ricadevano in pioggia sul mare. La scogliera si allungava ed i massi di lava, solidificati, s’ammucchiavano gli uni sugli altri; colà dove si stendevano una volta acque tranquille, appariva un cumulo enorme di roccie fumanti, come se un sollevamento del suolo avesse fatto sorgere migliaja di scogli.

S’immaginino queste acque messe sossopra durante un uragano, poi ad un tratto solidificate da un freddo di venti gradi, e si avrà l’aspetto del lago tre ore dopo che l’irresistibile torrente vi aveva fatta invasione. Questa volta l’acqua doveva esser vinta dal fuoco. Pure fu una circostanza fortunata per i coloni che il crescere delle lave si fosse diretto verso il lago Grant, poichè avevano almeno qualche giorno di tregua.

L’altipiano di Lunga Vista, il Palazzo di Granito [p. 87 modifica]ed il cantiere di costruzione erano pel momento al sicuro: ora – questi pochi giorni bisognava spenderli nel fasciare la nave e calatafarla con cura, dopo di che la si varerebbe in mare e vi si andrebbe a bordo, salvo ad attrezzarla quando la fosse nel suo elemento.

Col timore dell’esplosione che minacciava di distruggere l’isola, non si era più al sicuro stando in terra.

Quel ricovero del Palazzo di Granito, per lo innanzi così sicuro, poteva da un momento all’altro richiudere le sue pareti di sasso!

Nei sei giorni che seguirono, dal 25 al 30 gennajo, i coloni lavorarono nella nave come avrebbero potuto fare venti uomini. A mala pena alla sera si riposavano qualche momento, ed il bagliore delle fiamme, che spicciavano dal cratere permetteva loro di poter continuare notte e giorno.

L’eruzione del vulcano durava sempre, ma forse era scemata. E fu ventura, perchè il lago Grant era quasi del tutto colmo, in modo che se le nuove lave fossero scivolate alla superficie delle vecchie, si sarebbero inevitabilmente sparse sull’altipiano di Lunga Vista e di là sulla spiaggia.

Ma se da questo lato l’isola era protetta, non così avveniva nella parte occidentale.

Infatti, la seconda corrente di lava che aveva seguìto la vallata del rivo della Cascata, vallata larga i cui terreni si deprimevano da ogni parte del rivo, non doveva trovare alcun ostacolo. Il liquido incandescente si era dunque sparso attraverso la foresta del Far-West. A quel tempo dell’anno in cui le essenze erano disseccate da un calore torbido, la foresta prese fuoco istantaneamente, in guisa che l’incendio si propagò ad un tempo dalla base dei fusti e degli alti rami, il cui viluppo ajutava i progressi dell’incendio. Parve perfino si scatenasse più presto la cor[p. 88 modifica]rente di fiamme alla vetta degli alberi che non la corrente di lava ai loro piedi.

Accadde allora che gli animali, come impauriti, belve di ogni sorta, juguari, cinghiali, cabiais, kulas, selvaggine di pelo e di penna, si riparassero verso la Grazia e nell’acquitrino delle Tadorne al di là della via del porto Pallone. Ma troppo erano occupati del fatto loro i coloni, e non badarono neppure ai più formidabili di questi animali. Avevano d’altra parte abbandonato il Palazzo di Granito, senza nemmeno cercare rifugio nei Camini, e si accampavano sotto una tenda, presso alla foce della Grazia.

Ogni giorno Cyrus Smith e Gedeone Spilett salivano sull’altipiano di Lunga Vista; talvolta Harbert li accompagnava, ma non mai Pencroff, il quale non voleva vedere nel suo nuovo aspetto l’isola cotanto devastata.

Era uno spettacolo desolante invero.

Tutta la parte bassa dell’isola era ora denudata.

Un gruppo solo d’alberi verdi sorgeva all’est della penisola Serpentina. Qua e là si vedevano le smorfie di alcuni ceppi sramati ed anneriti.

Più orrido dell’acquitrino delle Tadorne era l’aspetto della foresta distrutta.

Qui l’invasione delle lave era stata completa, e dove un tempo crescevano quelle verzure ammirabili, il terreno non era più che un selvaggio cumulo di tufi vulcanici.

Le vallate del fiume della Cascata e della Grazia più non versavano alcuna goccia d’acqua, ed i coloni non avrebbero avuto modo di cavarsi la sete se il lago Grant fosse stato intieramente asciugato.

Ma per fortuna la sua sponda sud era stata rispettata e formava una specie di stagno contenente tutto quanto rimaneva d’acqua potabile nell’isola.

Verso il nord-ovest si disegnavano in aspre e vive creste i contrafforti del vulcano, che raffiguravano un artiglio gigantesco piantato nel suolo. [p. 89 modifica]

Quale spettacolo doloroso, quale spaventevole aspetto e quanti rammarichi per quei coloni, che d’un dominio fertile coperto di foreste inaffiate da correnti d’acqua, ricco di messi, si trovavano in un istante trasportati sopra una rupe devastata, su cui, senza le loro provvigioni, non avrebbero neppure trovato da scampare la vita!

— Spezza il cuore! disse un giorno Gedeone Spilett.

— Sì, Spilett, rispose l’ingegnere; il cielo almeno ci dia il tempo di finire questo bastimento, che è oramai l’unico nostro rifugio.

— Non vi pare, Cyrus, che il vulcano voglia calmarsi? Erutta ancora delle lave, ma meno abbondanti, se non sbaglio!

— Poco monta, rispose Cyrus, il fuoco è sempre ardente nelle viscere della montagna, ed il mare può precipitarvisi da un momento all’altro. Noi siamo nella condizione di passeggieri, la cui nave sia divorata da un incendio che non possono spegnere, e che sanno che tosto o tardi giungerà alla soda delle polveri! Venite, Spilett, venite, non perdiamo un’ora!

Per otto giorni ancora, vale a dire fino al 7 febbrajo, le lave continuarono a spandersi, ma l’eruzione si mantenne nei limiti indicati. Cyrus Smith temeva più d’ogni cosa che le materie liquefatte venissero a versarsi sul greto, ed in questo caso il cantiere di costruzione non sarebbe stato risparmiato.

Frattanto, intorno a questo tempo, i coloni sentirono, nell’ossatura dell’isola, vibrazioni che li inquietarono molto.

Si era al 20 febbrajo, ed abbisognava un mese ancora prima che la nave fosse in istato da prendere il mare. Doveva l’isola resistere fino a quel tempo? L’intenzione di Pencroff e di Cyrus Smith era di varare la nave appena il suo scafo fosse abbastanza saldato. Il ponte, l’accastellamento, i preparativi interni, e gli attrezzi si dovevano far poi; ciò che [p. 90 modifica]importava era che i coloni avessero un rifugio sicuro fuori dell’isola; forse anche converrebbe condurre la nave al Porto Pallone, vale a dire il più lungi possibile dal centro eruttivo, perchè al centro della Grazia fra l’isolotto e la muraglia di granito correva rischio d’essere schiacciata in caso di dislocazione. Tutti gli sforzi dei lavoratori furono rivolti al compimento dello scafo. Giunsero così al 3 marzo, e poterono far conto che l’operazione del varamento avrebbe luogo fra una decina di giorni.

Tornò la speranza al cuore dei coloni così tribolati in questo quarto anno del loro soggiorno all’isola Lincoln! Lo stesso Pencroff parve uscito alquanto dalla tetraggine taciturna in cui l’avevano immerso la rovina e la devastazione del suo dominio. Egli non pensava più allora, è vero, che a quella nave su cui si concentrava ogni sua speranza.

— La termineremo, diss’egli all’ingegnere, la termineremo, signor Cyrus, ed è tempo, perchè la stagione s’avanza e saremo presto in pieno equinozio. Ebbene, se è necessario, ci fermeremo all’isola Tabor per passarvi l’inverno. Ma l’isola Tabor dopo l’isola Lincoln! Ah! disgrazia della vita mia! Poteva io credere di vedere mai una cosa simile?

— Affrettiamo! rispondeva invariabilmente l’ingegnere.

E si lavorava senza perdere un istante.

— Padrone, chiese Nab al giorni più tardi, se il capitano Nemo fosse ancor vivo, credete voi che tutto ciò sarebbe accaduto?

— Sì, Nab, rispose Cyrus Smith.

— Ebbene, io non lo credo, mormorò Pencroff all’orecchio di Nab.

— E nemmeno io, rispose seriamente Nab.

Nella prima settimana di marzo il monte Franklin ridivenne minaccioso. Migliaja di fili di vetro fatti [p. 91 modifica]di lava fluida cadevano come pioggia sul suolo. Il cratere s’empì nuovamente di lave che traboccarono da tutti gli orli del vulcano. Il torrente corse alla superficie dei tufi induriti e finì di distruggere i magri scheletri d’alberi che avevano resistito alla prima eruzione. E la corrente, seguendo stavolta la riva sud-ovest del lago Grant, si portò al di là del rivo Glicerina ed invase l’altipiano di Lunga Vista.

Quest’ultimo colpo portato all’opera dei coloni fu terribile. Del mulino, dei fabbricati, del cortile, delle stalle, più nulla restava, ed i volatili spaventati sparirono in tutte le direzioni. Top e Jup davano indizi del massimo terrore, ed il loro istinto li avvertiva che era vicina una catastrofe.

Buon numero degli animali dell’isola erano periti nella prima eruzione. I superstiti non trovarono altro rifugio fuorchè l’acquitrino delle Tadorne, salvo alcuni ai quali l’altipiano di Lunga Vista offrì asilo. Ma quest’ultima ritirata fu contesa alla fine, ed il fiume di lave, scavalcando la cresta della muraglia di granito, continuò a precipitare sulla spiaggia le sue cataratte di fuoco.

Il sublime orrore di questo spettacolo sfugge ad ogni descrizione. Durante la notte si sarebbe detto un Niagara di bronzo liquido co’ suoi vapori incandescenti in alto e le sue masse ribollenti al basso.

I coloni erano ridotti alla loro ultima trincea, e benchè le coste superiori della nave non fossero peranco calatafate, risolvettero di metterla in mare.

Pencroff ed Ayrton procedettero adunque ai preparativi del varamento, che doveva aver luogo il domani, nella mattina del 9 marzo.

Ma in quella notte, dall’8 al 9, un’enorme colonna di vapori, sfuggendo dal cratere, salì, in mezzo a spaventose detonazioni, a oltre tremila piedi d’altezza. Le pareti della caverna Dakkar avevano evidentemente ceduto sotto la pressione dei gas, ed il mare, preci[p. 92 modifica]pitandosi dal camino centrale nell’abisso ignivomo, si evaporava ad un tratto. Ma il cratere non poteva dare sfogo suficiente a quei vapori. Un’esplosione, che si sarebbe intesa a mille miglia di distanza, com mosse gli strati dell’aria, pezzi di montagna ricaddero nel Pacifico, ed in pochi minuti l’oceano ebbe ricoperto l’area in cui era stata l’isola Lincoln.