L'uomo e le scimie
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L'UOMO E LE SCIMIE. LEZIONE PUBBLICA DETTA IN TORINO LA SERA DELL'11 GENNAIO 1864 DA F. DE FILIPPI.
Immerfort wierderholte Phrasen sich zuletzt
zur Ueberzeugung verknöcherten, und die
Organe des Anschauens völlig verstumpften.
GOETHE.
La infinitamente bella e grande varietà di forme di piante e di animali che popolano ora la superficie della terra, non è apparsa tutta insieme d’un sol getto, ma è stata preceduta da una successione di altre forme diverse, di altri mondi di viventi, che hanno lasciate, a documento della loro passata esistenza, spoglie più o meno complete negli strati della corteccia terrestre.
Serviamoci pure di una locuzione assai usata; parliamo pure ancora di epoche della natura. Quando, con quella potenza che solo è data alla mente umana, si facciano rivivere le generazioni passate, e si contemplino nel loro ordine cronologico, si è colpiti da questi due fatti: che ogni grande epoca della storia fisica del nostro globo è distinta da un complesso di forme organiche sue proprie; che grandissima è la differenza fra le piante e gli animali delle prime epoche della creazione, in confronto delle forme ora esistenti; ma che, procedendo regolarmente da quelle più lontane epoche, siffatte differenze andarono mano mano scemando verso l’epoca attuale che ha per suo proprio distintivo la presenza dell’uomo.
Questi sono risultati puri e semplici dell’osservazione. Quale uso ne faremo noi? Quale sarà il senso di queste pagine del gran libro della creazione? Qui non v’è a scegliere che fra due ipotesi, che avremo il coraggio di chiamar teorie.
L’una fa intervenire direttamente nella apparizione d’ogni forma organica l’azione plastica d’una causa prima, d’una forza creatrice; e nella scomparsa di queste forme l’azione distruttiva delle rivoluzioni telluriche: fa passare la vita e la morte in periodica vicenda sulla faccia della terra, come il gesso e la spugna sulla tavola nera d’un maestro di scuola. Secondo questa teoria i tipi specifici sono inalterabili, fissi, ed al posto di quelli che si sono estinti, altri sono ricomparsi successivamente per nuova immediata creazione.
Come facilmente concepite, o signori, questa teoria si risolve in una serie di postulati per loro natura non discutibili; è di una semplicità che innamora, ma d’una semplicità che inganna. Respinge tutte le questioni, ma è posta in estremo imbarrazzo da una che la sarcastica finezza del volgo move celiando ai naturalisti: se prima sia stato creato l’uovo o la gallina. Insomma non ha tampoco il carattere d’una teoria; è un’ipotesi grossa e spicciativa, che segue i destini della geologia cataclistica e, colla caduta ormai pronunciata di questa, ha perduto ogni fondamento, direi quasi ogni pretesto di essere.
La seconda teoria parte da un principio diametralmente opposto: dalla variabilità indefinita dei tipi specifici. Essa ammette lo svolgimento continuo e moltiforme di una creazione unica non mai interrotta, ammette pure (e come potrebbe altrimenti?) lo stesso ordine cronologico delle varie forme di animali e di piante che hanno successivamente popolata la terra, ma le deriva da un processo di semplice trasmutazione continua e progressiva e stabilisce, per esempio, fra gli animali di un’epoca e quelli di un’epoca susseguente, un nesso genetico, come fra antenati e discendenti.
Anche questa teoria è ipotetica, ma almeno è in perfetta armonia col fatto massimo dello sviluppo progressivo della creazione organica, è appoggiata al doppio principio filosofico dell’azione costante e del minimo d’azione e le sue premesse fondamentali sono discutibili coll’appoggio di fatti che si rinnovano sotto i nostri occhi.
Le difficoltà della sua applicazione a casi concreti sono ancora assai gravi, ma in massima parte dipendenti dalla grande penuria di materiali presenti e conosciuti in confronto di quelli che sono ancora nascosti all’occhio umano. Anche per questo, di affrontare coraggiosamente un mare di questioni confidando nel tempo e nelle ulteriori scoperte della scienza, questa teoria deve aver la preferenza sopra un’altra che a tutte di proposito volga il tergo.
Le prime idee sulla variabilità delle specie, sulla loro figliazione genealogica, tralucono già negli scritti di alcuni filosofi della natura del secolo scorso, in Erasmo Darwin, in Goethe, in Geoffroy di S. Hilaire, ma poi si sviluppano meglio e si combinano in corpo di dottrina nella filosofia zoologica di Lamarck. Ed è sì prepotente la naturale direzione delle scienze naturali per questa via che, malgrado la prevalente autorità di Cuvier, una sorta di fatale necessità ad abbandonar il dogma della immutabilità della specie spunta ad ogni tratto negli scritti di molti osservatori, come quei germi di malcontento delle masse che preannunciano le rivoluzioni sociali. Ed è una vera rivoluzione della filosofia zoologica quella che finalmente fu operata da Carlo Darwin, nipote di Erasmo, in un’opera che forma epoca nella scienza per la ricchezza delle osservazioni, l’acume sintetico, la irresistibile forza dei ragionamenti.
Non è mio proposito il discutere qui, e né tampoco esporre in riassunto, le idee fondamentali del celebre autore dell’Origine delle specie; solo premetterò alcuni pochi cenni fra quelli che più direttamente interessano il mio soggetto.
Non è chi non conosca l’origine di tante razze diverse de’ nostri animali domestici da un unico stipite. Molte di queste razze si distinguono fra di loro per caratteri di importanza almeno uguale, soventi maggiore, di quelli sui quali sono fondate le distinzioni delle specie. Noi vediamo coi nostri occhi accidentali deviazioni dal tipo originario, direi quasi mostruosità di primo grado, fissarsi e trasmettersi per eredità e così aversi una progenie perpetuantesi, la quale è di qualche grado, e talvolta anche di grado notevolissimo, diversa dai genitori. Nel 1770, in America, un toro nato accidentalmente senza corna fu stipite di una razza, che tutt’ora si mantiene e si propaga, di buoi scornuti. Noi diciamo che questa è una razza e non una specie, perché siamo stati noi stessi testimoni della sua origine. Senza questa circostanza, quale naturalista, incontrando de’ buoi senza corna in qualche remoto angolo della terra, esiterebbe a farne una specie affatto particolare od anche, più che una specie, un genere? E quante razze non distinguiamo noi, oltre che di buoi, di montoni, di cavalli, di cani, razze che l’uomo perpetua o modifica o trasforma in tante guise a suo talento, secondo i suoi propri bisogni?
È in questo modo che è sorta una vera industria che ben si può chiamare creatrice e che forma uno dei rami più importanti dell’economia rurale, industria nella quale gli Inglesi saranno sempre maestri a tutto il mondo.
Potrei citare vari altri particolari esempi, ma ne sceglierò uno solo e lo prenderò dal libro immortale sull’origine delle specie. In Inghilterra è invalsa la moda dell’allevamento di una moltitudine di razze di colombi; è invalsa con quella specie di manìa, ma con quella intelligente ostinazione che anima, fra i biondi figli di Albione, siffatto genere di passatempi. La cosa andò al punto da dare origine alla fondazione di vari clubs di colombicoltori.
Or bene, Darwin ha fatto uno studio affatto particolare delle varie razze di questi uccelli, ed ha trovato che la loro variabilità tocca veramente il maraviglioso. Il becco, il colore e la qualità della piuma, il numero delle penne timoniere, la proporzione delle remiganti, il numero delle vertebre, i caratteri delle gambe, dello sterno, i costumi stessi, tutto varia da una razza all’altra. Non v’è più un carattere che tenga fermo fra quelli che sono di maggior valore come distintivi delle specie ornitologiche.
Eppure non possiamo a meno che riconoscere la derivazione di tutte queste razze da un’unica specie, che è il colombo torraiuolo (Columba livia). Cercate di far accettare questa conclusione ad un semplice amatore di piccioni, vi risponderà con una ripulsa non meno energica di quella che ci possiamo aspettare da un naturalista della vecchia scuola, davanti all’idea logica e conseguente di derivare alla loro volta da un unico e solo più lontano stipite comune tutte le specie de’ colombi.
Vero è che in tutte le variazioni delle nostre specie di animali domestici interviene sempre l’azione dell’uomo più o meno diretta, ora metodica, ora incosciente. Ma l’uomo non fa in tali casi che mettere in giuoco e dirigere cause naturali per vederne gli effetti più presto. D’altra parte l’accumulazione in razze permanenti di varietà accidentali non è soggetta soltanto a questa che Darwin chiama elezione umana, ma eziandio all'elezione naturale, ossia alla legge di conservazione di quelle fortuite variazioni dal tipo, che pongono gli individui in cui si sono manifestate in grado di riuscire in modo speciale vincitori nella lotta per l’esistenza1.
Quegli assembramenti sistematici sempre più complessi che i naturalisti chiamano varietà, specie, generi, famiglie, ordini, classi, sono creazioni della nostra mente come le compagnie, i battaglioni, i reggimenti, le brigate nell’organizzazione militare. L’estensione di ciascuno di questi assembramenti è arbitraria, è regolata dalle vedute particolari di chi li compone, da ragioni che ognuno valuta a suo modo. Di ciò hanno sempre convenuto i naturalisti; solo per riposare su di un assioma, erano convenuti in questo: che le specie esistono in natura; anzi avean fatto di più: aveano reso più complicato e più solenne l’assioma, traducendolo con questa frase divenuta tradizionale e come sacra nelle scuole: "Tante sono le specie, quante in origine furono create ". Ma poi al caso pratico si è molto soventi nell’impossibilità di distinguere con precisione ciò che è razza da ciò che è specie: fra due specie primitivamente molto bene distinte, si scoprono molto soventi, troppo soventi per la comodità delle determinazioni sistematiche, variazioni intermedie costanti che i naturalisti incominciano già a chiamare specie darwiniane. Infine l’ultimo risultato è questo: che il famoso assioma è andato a far compagnia ad altri spezzati ceppi del libero pensiero. Una determinazione fisiologica della specie è impossibile, ed ormai non possiamo più parlare che di specie sistematiche, di specie di convenzione. Quelle che siamo abituati a chiamar razze o varietà, sono specie incipienti; quelle che noi diciamo specie sono varietà ben definite e sovratutto sanzionate da un’origine lontana.
Infine l’insieme delle specie create può essere rappresentato da un albero: i rami verdi dell’annata sono le specie attuali, i bottoni sono le varietà o razze o in altre parole le specie dell’avvenire, i rami legnosi delle annate precedenti sono le specie passate, stipiti delle specie attuali. Fra questi rami i vecchi germogli inariditi e sopraffatti dagli altri, in quella che Darwin chiama lotta per l’esistenza, sono le specie estinte senza successione.
Cerchiamo ora di applicare queste premesse ad un solo soggetto, a quello che è il nodo della grande quistione che ci proponiamo discutere.
Nella grande famiglia delle scimie tre si distinguono per la loro rassomiglianza all’uomo: le così dette scimie antropoidi; e sono l’orang-outang di Borneo, il chimpansé di Guinea, il gorilla del Gabon, tutte superiori alle altre scimie per le grandi dimensioni, per la mancanza della coda, delle borse alle guancie, delle callosità deretane e per l’incesso tra il verticale ed il carpone, nel quale non mettono a terra la palma delle mani, ma il dorso delle dita piegate. Ciascuno di questi tre nomi volgari corrisponde ad un’unica specie, secondo l’opinione generale dei naturalisti; ma Blyth vorrebbe distinguere quattro specie di orang-outang, Duvernoy due di chimpansé, Du Chaillou, autorità invero alquanto sospetta, altre due specie di questo stesso genere. Siffatta quistione si può risolvere nella possibilità di altrettante razze o specie dell’avvenire, figliate per elezione naturale da ognuna delle tre specie sistematiche comunemente accettate.
Le tre scimie antropoidi sono proprie, come vedemmo, dell’emisfero orientale, di quell’emisfero nel quale è pur da rintracciarsi la culla del genere umano. Ora, lasciando da parte le scimie americane, che formano un gruppo separato e relativamente inferiore, le altre scimie si possono aggruppare in modo da costituire tre serie, terminanti ciascuna alla sua propria specie antropoide. I babbuini si legano al gorilla, i macachi al chimpansé, i cercopiteci, i semnopiteci, i gibboni, all’orang-outang. Queste tre serie sono state stabilite con molto acume d’ingegno da Gratiolet, indipendentemente dalle idee del celebre riformatore inglese, prima che queste idee fossero lanciate nel mondo scientifico, e furono stabilite dietro la sola considerazione de’ caratteri del cervello, che per ciascuna serie si tiene ad un proprio tipo secondario; ma poi ricevono anche la sanzione da altri caratteri di organizzazione e dalla rispettiva posizione geografica. - Insomma il gorilla è un babbuino perfezionato, il chimpansé un macaco perfezionato, l’orang-outang un gibbone perfezionato. Gratiolet non emette proprio la frase esplicita, ma la fa risultare da tutto il mirabile contesto delle sue ricerche sulle pieghe cerebrali dei primati.
Ora ecco qui tre serie che io vorrei risolutamente chiamare serie darwiniane. Nell’albero simbolico in cui abbiamo per un istante rappresentato il regno animale, le specie o varietà più distinte di babbuini devono corrispondere a tanti rami verdi laterali di un ramo stipite che porta come ramo terminale il gorilla. Sieno aggruppati adesso nell’egual modo i macachi ed il chimpansé, i cercopiteci, i semnopiteci, i gibboni e l’orang-outang. Ora fatto il primo passo, non v’è ragione per arrestarsi e non fare il secondo; e così, fedeli al medesimo principio, riuniremo alla loro volta i tre rami stipiti su di un ramo stipite più vecchio; e retrocedendo sempre logicamente, nella serie delle epoche preumane, saremo condotti a far derivare tutte le scimie da uno stipite comune.
Ora abbiamo preparato il campo ad altro ben più grave problema. Qual’è il posto dell’uomo nell’impero della natura? Quali sono e di qual grado le sue affinità zoologiche? Voi sapete, o signori, lo scherzo fatto a Platone da Diogene. Platone definisce l’uomo un animale bipede implume, e Diogene gli getta un gallo spennacchiato, esclamando: "Ecco il tuo uomo". In tutte le scuole non si fa che ripetere press’a poco la definizione di Platone, con questa sola spettacolosa riforma di dire che l’uomo è un animale bimano, piuttosto che un bipede.
Ecco adunque il posto che ci han fatto i naturalisti.
Secondo Linneo noi apparteniamo alla classe dei mammali, all’ordine de’ primati; capi fila è vero, ma in fila colle scimie.
Blumenbach e Cuvier, tirando uno steccato fra i primati di Linneo, fondano al di qua tutto per noi l’ordine de’ bimani, al di là quello dei quadrumani. In questo nuovo posto incominciavamo appena a sentirci meglio assisi sul trono della natura, quando ecco sorgere Geoffroy S. Hilaire a tentare di ristabilire l’antico consorzio, dimostrando che noi pure in origine siamo stati quadrumani.
Owen ha voluto fare meglio: ha cercato nella testa dell’uomo quel titolo di nobiltà che gli veniva tolto dai piedi, ed ha fondato l’ordine degli archencefali, ossia dei mammali con grandi emisferi cerebrali ricchi di circonvoluzioni e coprenti per intiero il cervelletto ed i lobi olfattori; ma la scienza livellatrice avanzatasi di nuovo, è rimasta ancora padrona del campo.
Infine i precisi confini fra l’uomo e la scimia sono ancora oggi la tortura degli anatomici; e sempre le differenze che si presentano da prima nette e precise svaniscono sotto l’analisi. Il fantasma di un’odiosa parentela, stuzzicato, sorge più severo ed umiliante. Non ci resta a fare che una sola cosa: affrontarlo.
Non crediate, o signori, che io vada, pel semplice gusto de’ paradossi, a risuscitare una questione isolata di qualche cervello balzano dei tempi andati. E questa una quistione viva e cocente rimasta sotto la cenere, in aspettazione di un momento opportuno per quindi presentarsi in tutta la sua grave pienezza.
Ed il momento venne pochi anni sono, quando un viaggiatore americano, il sig. Du Chaillou, reduce dell’occidente dell’Africa equatoriale, portò a Londra molte spoglie di gorilla e raccontò di questo orrendo scimione maravigliose cose ai cercatori di novità piccanti. Il gorilla diventò la bestia alla moda, il beniamino de’ giornali e delle conversazioni della City, ricomparendo ad ogni tratto al suo posto d’onore, fra il cotone e la politica misogalla. Una viva lotta s’impegnò fra i due più valorosi campioni della scienza anatomica in Inghilterra, fra Owen ed Huxley; ed il pubblico d’oltre la Manica, così colto e così desideroso di coltura, la seguì con quell’attenzione, con quel freddo fanatismo, e con quegli scoppi umoristici che sono un’espressione costante del suo carattere. La partita era così impegnata: Owen da un lato studiando strappare l’uomo dallo stretto consorzio delle scimie; Huxley dall’altro lato lavorando a rafforzar i legami anatomici che ve lo trattengono.
Val dunque la pena di occuparsi di questa quistione.
Le scimie colle quali dobbiamo sopportar il confronto sono queste tre che conoscete, l’orang-outang, il chimpansé, il gorilla, e delle quali vi stanno schierate dinanzi le spoglie.
La prima impressione in guardarle è che differiscono dall’uomo siffattamente da non comprendere come mai sia messa in questione una sì grande distanza; da provare una decisa avversione a subire questo supplizio di Mesenzio a cui certi curiosi cervelli di naturalisti ci vogliono condannare. Ma l’uomo che si sente uomo non si rifiuta mai dallo spingere lo sguardo sotto il velame delle apparenze.
Mettiamo sulla bilancia le differenze e le analogie dell’uomo colle scimie: notate bene che parlo di bilancia e di misure, perché il nostro esame deve ora aggirarsi soltanto su quello che si può vedere, toccare e pesare.
La diversità grandissima della faccia si presenta qui per la prima. Quella del chimpansé è la meno lontana dall’aspetto umano; quella del gorilla invece spaventosamente bestiale. Ma non mettiamo a confronto con queste scimie la testa di Napoleone o dell’imperatore Nicolò, prendiamo quella di un Papou, di un nero dell’Australia, ed allora la distanza fra i due soggetti di confronto scema d’assai. L’angolo faciale delle razze umane oscilla fra due estremi che sono 85° e 64°; ma nelle scimie troviamo un massimo poco discosto dal minimo umano; nel giovane orangoutang, in cui la prima dentizione non sia ancora compiuta, l’angolo faciale è di 60°. Una diversità fra l’uomo e la scimia da questo lato esiste senza dubbio, ma una diversità di grado e nulla più.
Enorme è la lunghezza delle estremità anteriori nell’orang-outang; colle dita distese giungono fin presso al calcagno; e da questo lato vincono il chimpansé ed il gorilla. Le estremità anteriori giungono in quello fino alla metà, in questo fino al terzo superiore della gamba. Ma le estremità anteriori ci offrono materia a ben più importante considerazione.
Nell’uomo e nelle scimie di rango più elevato, la lunghezza del braccio oltrepassa quella dell’antibraccio, nelle scimie americane incomincia la proporzione inversa, cioè la prevalenza dell’antibraccio sul braccio; anche la lunghezza relativa della mano è in proporzione crescente, partendo dalla specie umana. Sono due caratteri combinati di degradazione, che si pronunciano però sempre più evidenti, e con grande costanza, scendendo nella serie dei mammali; ma incominciano già a palesarsi nella specie umana, nella razza nera. In questa la supremazia del braccio sull’antibraccio è già minore che nella razza caucasica, e la mano ha dita più lunghe, più scarne, colle eminenze tenare ed ipotenare, meno sporgenti; e le estremità anteriori distese sui fianchi arrivano qualche poco al di là della metà della coscia, ove si arrestano invece nell’europeo. E venendo ora alle scimie antropoidi, nell’ordine degli annunciati caratteri, il gorilla ed il chimpansé hanno un vantaggio deciso sull’orang-outang, nel quale la grande lunghezza delle estremità anteriori riflette particolarmente l’antibraccio e la mano, e le dita sono relativamente più sottili e più scarne.
Or si presenta la differenza la più importante, quella che si esprime col dire che l’uomo è bimano e le scimie sono quadrumani. Ma qui bisogna intenderci sui caratteri che distinguono la mano in confronto del piede.
Dapprima bisogna riconoscere che la mano ed il piede sono parti fra di loro perfettamente omologhe, come lo sono tutte le singole parti delle estremità anteriori, colle corrispondenti delle posteriori: là circolo scapulare, qui circolo pelvico; là omero, poi radio ed ulna, qui femore, poi tibia e fibula; là carpo, metacarpo e falangi, qui tarso, metatarso e falangi. Ma nella sfera di questa omologia, è possibile una tale modificazione per cui la parte terminale di un’estremità si dica mano, quella dell’altra si dica piede. I caratteri comunemente assegnati alla mano sono la mobilità delle dita, di tutte e di ciascuno, e sovratutto la mobilità del pollice divergente dalle altre dita ed a queste opponibile. Veramente questi caratteri spiccano nelle estremità posteriori delle scimie; ma, come Bory de S. Vincent ha fatto osservare, il piede può acquistare la facoltà di afferrare, quindi il carattere della mano, per la forza dell’esercizio, anche nell’uomo; e Geoffroy di S. Hilaire è andato più in là, è andato fino a sostenere che originariamente l’uomo stesso era un quadrumano.
Nelle statue antiche, il pollice de’ piedi è rappresentato divergente dalle altre dita, indizio della primitiva indipendenza de’ suoi movimenti. Con un resto di questa indipendenza si è conservato presso alcune popolazioni fra le quali non si è propagato l’uso della calzatura. I Charruas, tribù indiana dell’America meridionale, forti cavalcatori, usano in luogo di staffa un semplice anello nel qual impegnano il solo pollice dei piedi, tenendovisi strettamente; gli Indiani dell’Orenoco, quelli del Jucatan, i neri dell’Australia, possono colle dita de’ piedi raccoglier monete dal terreno, afferrare sassi e lanciarli; i Bengalesi sanno servirsi anche de’ piedi per menare il remo; infine, quante cose non si fanno co’ piedi!
Ma tutto questo non basta ancora a costituire una mano. Nella famosa lotta fra Owen e Huxley, quest’ultimo ha dimostrato all’evidenza che la così detta mano posteriore de’ quadrumani è un vero piede, al quale si attacca un muscolo lungo peroneo, le cui dita sono munite di un muscolo flessore breve e di un estensore breve, il cui tarso si compone di sette ossa disposte come nel piede umano; e così respinge assolutamente la denominazione di quadrumani consacrata dall’autorità di Cuvier e dal lungo uso; e ristabilisce l’antico ordine dei primati, comprendente l’uomo e le scimie, non, come aveva fatto Geoffroy di S. Hilaire, riconducendo noi uomini al tipo quadrumano, ma invece rendendo bimani anche le scimie.
È vero che nelle scimie il pollice dei piedi è assai più corto del pollice delle altre dita, mentre il contrario è nel piede umano; ma guardate come si allunga già il pollice nel chimpansé e nel gorilla, per questo carattere superiori all’orang-outang.
L’incesso delle scimie è affatto particolare e ben diverso da quello dell’uomo: esse mettono a terra non la pianta ma il margine esterno del piede, facendo arco delle dita e rivolgendo all’indentro la parte plantare che, meno esercitata dalla pressione continua, rimane così molto meno larga della corrispondente del piede umano. Or bene, la pianta dei piedi del gorilla è già più larga in confronto di quella dell’orang-outang e dello stesso chimpansé; e la parte di essa che tocca la terra è maggiore; ed il tallone è più robusto. Per questo carattere il gorilla vince le altre scimie antropoidi.
D’altra parte osservate i primi passi del bambino: nell’incertezza di quei movimenti esso tiene i piedi rivolti all’indentro, come a ricordo di un carattere originario che deve presto cancellarsi. Io vi chieggo perdono, o madri che mi ascoltate. La scienza, per essere fedele ed integra, è costretta ora a profanare le vostre più serene gioie.
Il pelo fino, cortissimo e diradato su tutto il corpo, insieme al contrasto della folta capigliatura, costituisce un altro distintivo dell’uomo, ma anche qui il distintivo non è che del più o del meno. L’orang-outang ha il pelo molto diradato, specialmente alla faccia, alle parti anteriori del tronco e nell’interno delle coscie, nelle quali parti il nudo prevalente della pelle lascia trasparire attraverso il livido un po’ di rosso-carneo; ed alla region posteriore del vertice il pelo più lungo e disposto a rosa attorno di un centro, accenna già ad una disposizione analoga a quella che si osserva nella capigliatura umana.
Insistendo nell’esame comparativo de’ caratteri della pelle, le analogie fra l’uomo e le scimie saranno maggiori delle differenze. Nella generalità delle scimie, come nei mammali tutti, il pelo dell’antibraccio ha la stessa direzione che sul braccio; è diretto cioè verso la mano. Assai diversamente è nell’uomo ma non nel solo uomo: anche nell’orang-outang, nel chimpansé e nel gorilla: in tutti il pelo, alla metà inferiore dell’antibraccio, è diretto all’esterno, poi gradatamente salendo si rivolge in su verso il cubito.
Rivolgiamo ora la nostra attenzione alla pelle propriamente detta: anche qui troveremo l’uomo e le scimie far causa comune fra di loro e separata da quella degli altri animali. Per condizioni particolari, inerenti alla sua struttura elementare, la pelle dell’uomo, specialmente sotto i brividi del freddo, prende quella particolare scabrezza che è conosciuta col nome di pelle d’oca. Per lungo tempo questo fenomeno è stato considerato come proprio dell’uomo, finché poi non lo si venne a scoprire anche nell’orang-outang.
La pelle della palma della mano e della pianta del piede nell’uomo si presenta colla medesima ricchezza di papille, col medesimo modo di loro aggruppamento, colla medesima ricchezza di nervi e terminazione de’ nervi nelle papille stesse; e per tali caratteri è differente dalla pelle delle altre regioni del corpo. L’esercizio del senso attivo, localizzato, del tatto è in stretta relazione colla mentovata particolare condizione anatomica. Se agli occhi vostri non fosse abbastanza provata l’omologia perfetta fra la mano ed il piede, aggiungete pure anche questo argomento. Or bene, la palma delle così dette quattro mani delle scimmie presenta ancora le stesse papille medesimamente aggruppate, coi medesimi fili nervosi terminati nel medesimo modo; e questi caratteri cambiano affatto al di là delle scimie.
Le differenze leggere ed incostanti che nell’uomo e nelle scimie presentano i muscoli delle varie parti del corpo non sono pel nostro soggetto gran fatto importanti. Ve n’ha però che, senza il soccorso dello scalpello anatomico, l’occhio scorge immediatamente, come per esempio quelle che si disegnano nelle forme esterne. Lo sviluppo dei glutei e dei muscoli gemelli che formano il polpaccio, danno alla statua umana rilievi e rotondità che si cercano invano nella scimia, ma notate bene, parlo della statua umana tipica realizzata nell’europeo: che la razza nera invece, anche per questo carattere, fa passaggio ai quadrumani.
Rivolgiamo ora la nostra attenzione allo scheletro e prima di tutto al cranio.
Quanto alla forma generale il cranio delle scimie si distingue subito dal cranio umano per il prolungamento delle ossa mascellari e della mandibola, per l’inclinazione de’ denti incisivi, d’onde in gran parte deriva l’acutezza dell’angolo facciale. In stretta correlazione con questo carattere, conformemente alla legge di Daubenton, il foro occipitale si trasporta all’indietro; quindi la posizione meno accentrata del cranio sulla colonna vertebrale, e quindi ancora la necessità di una maggior forza dell’aponeurosi occipito-cervicale e de’ suoi attacchi. La fronte depressa, sfuggente all’indietro, le occhiaie ravvicinate, gli archi sopraorbitali rilevati, le ossa nasali piccole e depresse, concorrono alla particolar fisionomia delle scimie.
Ma indipendentemente dal trattarsi qui ancora di semplici differenze di quantità e di proporzione, si deve osservare che la enorme distanza fra due estremi, quali sarebbero per esempio un cranio della razza umana caucasica ed un cranio di babbuino, scema mettendo a confronto da un lato un cranio di un nero dell’Australia, o meglio ancora un cranio della primitiva razza dell’epoca della pietra, dall’altro lato un cranio di chimpansé nella prima età.
Un fatto anatomico che non ha tanta importanza scientifica quanta importanza storica è il seguente. In tutti i mammali i denti incisivi superiori sono piantati in due ossicini particolari, combacianti fra loro lungo la linea mediana della faccia, e lateralmente colle attigue ossa mascellari. Quegli ossi sono perciò chiamati dagli anatomici ossi incisivi od intermascellari. Nel solo uomo, fu detto, questi ossi mancano e i denti incisivi sono allora portati dalla parte anteriore de’ mascellari stessi. Galeno, astretto dai pregiudizi del suo tempo a studiar anatomia sulle scimie, li aveva già conosciuti, e Silvio, notandone la mancanza nella specie umana, incappava in una strana opinione che non viene mal a proposito oggi, allorquando diceva che l’uomo li avesse perduti per l’effeminato e pervertito suo modo di vivere. Sul finire del secolo scorso una scoperta, dovuta al genio di Goethe, dell’autore dell’Ifigenia e del Faust, segna un’epoca nella scienza, imprimendo una nuova spinta alla filosofia anatomica: la scoperta, voglio dire, degli ossicini intermascellari anche nell’uomo, ma nell’uomo nei primordi della sua vita, prima che veda la luce del sole, saldandosi questi ossicini prestissimo coi mascellari corrispondenti. E d’altra parte questi ossi intermascellari od incisivi si trovano nelle medesime precise condizioni di fugace esistenza nel chimpansé, nella scimia che pe’ caratteri del cranio primeggia sulle altre. Nell’orang-outang e nel gorilla invece gli ossi intermascellari persistono distinti fin molto avanti nella vita e non si saldano co’ mascellari se non nella tarda età, quando cioè si pronuncia la tendenza alla scomparsa di tutte le suture. In queste due specie la forma del cranio, col progredir dell’età, devia rapidamente dal tipo umano: coll’allungarsi delle mascelle deve crescere la potenza muscolare che move la mandibola, e l’accrescimento de’ muscoli, specialmente dei temporali, determina una maggior estensione della loro base; questi due muscoli estendono il loro attacco fin quasi ad incontrarsi sul vertice, ed ivi determinano la formazione di una forte cresta lungitudinale; nel medesimo tempo la necessaria sempre crescente forza dell’aponeurosi occipito-cervicale che tiene il posto del legamento cervicale de’ veri quadrupedi, determina la formazione di una grande cresta ossea trasversale sull’occipite, d’onde la enorme deformazione del cranio nell’orang-outang e nel gorilla adulti.
Per servire di robusto attacco all’estremità opposta di questa aponeurosi, sviluppansi straordinariamente in queste due specie i processi spinosi delle vertebre cervicali, come vedete specialmente in questo scheletro di vecchio gorilla che vi sta dinanzi agli occhi.
Lasciamo il cranio, ed allora per la larghezza dello sterno, per la forma della scapola, per l’ampiezza e la direzione del bacino, capace a sostenere la massima parte del peso dei visceri addominali, è il gorilla che prende il sopravanzo sulle altre due scimie rivali.
Ma il grosso della quistione sta nel contenuto della scatola del cranio, abisso dei più grandi misteri! Qui c’è da perdersi; quanti forti ingegni vi entrarono baldanzosi e non seppero trovar la porta d’escita! Sia questa una lezione di prudenza per noi; stiamo alle cose più esterne e materiali; accettando questa restrizione, ci resta ancora, per buona sorte, spazio di moverci nelle più discrete esigenze del nostro argomento.
Voi sapete, o signori, che il cervello non è un organo, ma un complesso di organi. Bisogna distinguere prima di tutto, al davanti nella cavità del cranio, gli emisferi cerebrali, separati fra di loro da un solco che si approfonda sino alla lamina trasversale di congiunzione, che è il così detto corpo calloso. Dietro sta il cervelletto; e fra quelli e questo, al disotto di entrambi, il midollo oblungato, il quale poi si continua col midollo spinale, che si interna nel canale delle vertebre.
Volendo stare a questa divisione grossolana, rispettabile per vetustà, diremo che il midollo oblungato è la massa centrale d’onde hanno origine i nervi de’ sensi e de’ movimenti delle varie parti della testa, ed oltre ciò un paio di nervi, i più importanti di tutti, che, scendendo ai lati del collo, penetrano nel torace e vanno ai polmoni, al cuore, allo stomaco.
Il cervelletto è l’organo regolatore de’ movimenti. Gli emisferi sono lo strumento materiale per l’esercizio di quelle facoltà che si comprendono sotto la parola generica di intelligenza. Dobbiamo distinguere in essi la parte che sta alla base del cranio, da quella che si rivolge in alto e, nel caso di esuberanza, si porta indietro fino a coprire più o meno il cervelletto. La prima somministra essa pure fili nervosi ad organi sensori, come sono quelli dell’olfatto e della vista; la seconda è quella in cui propriamente si concentrano quelle nobili attribuzioni che nel linguaggio ordinario sono riconosciute agli emisferi cerebrali in complesso. È questa la parte dell’intera massa del cervello che presenterà nella serie animale le più grandi variazioni, conformi al vario sviluppo delle attività intellettuali; è questa che troviamo più sviluppata ne’ mammali che negli uccelli, e ne’ vari mammali più negli intelligenti che negli stupidi, più nelle scimie, per esempio, che ne’ conigli.
Le scimie e l’uomo posseggono intanto in comune questi distintivi, che già si possono discernere d’un colpo d’occhio sul complesso della massa encefalica: gli emisferi cerebrali si prolungano anteriormente al di là de’ lobi olfattori rudimentali, e posteriormente fino a coprir tutto il cervelletto, talvolta a sopravanzarlo, e lo sopravanzano realmente sì nell’uomo che nelle scimie superiori. Dei tre lobi del cervelletto, il mediano è molto impiccolito, e ridotto a quello che gli anatomici chiamano verme.
La superficie degli emisferi è in molti mammali, e ne’ soli mammali, segnata da pieghe e solcature tortuose dalle così dette circonvoluzioni cerebrali.
Queste circonvoluzioni sono di una grande importanza, ed in generale possiamo dire che la loro complicatezza è un indizio di superiorità nella scala animale: ma guardatevi bene dal prender questa espressione in senso assoluto. La vera legge è questa: che lo sviluppo degli emisferi è in ragion diretta del grado di intelligenza degli animali, ma non sempre questo sviluppo si esprime colla formazione delle circonvoluzioni, perché a questo concorre un altro fattore: la capacità del cranio, relativamente alle dimensioni dell’intiero corpo. Or bene questa relazione è tale che, diminuendo nella serie animale le dimensioni generali del corpo, non diminuisca in egual proporzione la capacità del cranio, ma in proporzione minore. Concepite facilmente che se negli animali di piccola corporatura la capacità del cranio è rimasta relativamente grande, gli emisferi cerebrali potranno svilupparsi, senza formare quelle ripiegature della loro sostanza, nelle quali propriamente consistono le circonvoluzioni. Ecco il perché troverete pieghe e solcature cerebrali negli stupidi montoni, cervello liscio invece ne’ vispi, graziosi e maliziosetti ovistiti.
La prevalenza degli emisferi, particolarmente della porzione loro superiore, in confronto delle altre parti della massa encefalica è massima nell’uomo, grande ancora nelle scimie antropoidi, decresce partendo da queste ne’ quadrumani inferiori. Per il mio assunto il paragone diretto de’ pezzi che avete sott’occhio è sufficiente, e mi dispensa dall’entrare in particolari di misure comparative di peso o di volume.
I due emisferi cerebrali sono, alla loro estremità anteriore o frontale, che s’avanza sui lobi olfattori, larghi ed arrotondati nell’uomo e nelle scimie antropoidi, più o meno acuminati invece nelle altre scimie.
Di pari passo con questi caratteri di superiorità cammina lo sviluppo delle circonvoluzioni cerebrali, le quali sono al massimo grado di complicatezza, di rilievo delle pieghe, di profondità de’ solchi interposti, nella specie umana; poscia nell’orang-outang e nel chimpansé. Anche per questo carattere il gorilla rimane inferiore nel confronto. È singolare infatti la povertà delle circonvoluzioni cerebrali in questa scimia; difetto tanto più significativo, quando si pensi alla statura del gorilla, maggiore che nelle altre due scimie antropoidi, e alla legge qui violata, del crescere il numero e la complicatezza delle circonvoluzioni del cervello ne’ mammali, coll’aumentare della mole del corpo. La forma e la direzione delle circonvoluzioni cerebrali non sono arbitrarie, ma seguono un tipo determinato per ognuno de’ grandi scompartimenti della classe de’ mammali. Il costante ordine di loro distribuzione nel cervello umano fu per la prima volta dimostrato dal nostro Rolando.
Alla parte laterale ed inferiore degli emisferi bisogna dapprima distinguere un gran solco che gli anatomici da lungo tempo hanno distinto col nome di solco del Silvio; e notate innanzi tutto che esso è caratteristico dell’uomo e delle scimie. Divaricati i margini di questo solco, si scopre nel suo interno un piccolo lobo, la così detta isola (lobo centrale di Gratiolet), attorno al quale lobo sono distribuite le circonvoluzioni o pieghe cerebrali, in modo da formare quattro province bene distinte, ciascuna comprendente un certo numero di pieghe parallele fra loro, e discordanti da quelle delle province vicine. Gratiolet, al quale è debitrice la scienza del lavoro più importante intorno a questo argomento, dà a queste province il nome di lobi, e distingue allora un lobo frontale, un parietale, un temporale ed un occipitale. Non posso entrare in minuti particolari sulla distribuzione delle pieghe cerebrali in ognuno di questi lobi; solo aggiungerò che la complicazione delle pieghe superiori del lobo frontale ed il grande sviluppo di questo lobo, sollevano, è vero, il cervello dell’uomo in confronto di quello delle scimie antropoidi, ma ancora nella linea delle semplici quantità relative. Fra i lobi parietali e l’occipitale stanno altre pieghe (quattro, quando in numero normale), che Gratiolet chiama pieghe di passaggio, tutte esterne nel cervello umano, nel quale impiccoliscono assai il lobo occipitale e fanno sparire il solco perpendicolare che lo separa dai lobi parietali: altro carattere di supremazia! Queste pieghe di passaggio sono invece nelle scimie più o meno coperte e nascoste nell’anzidetto solco; meno però nell’orang-outang che nelle altre due scimie rivali.
Il principale risultato delle ingegnosissime ricerche di Gratiolet è questo: che la distribuzione delle pieghe o circonvoluzioni cerebrali segue, ne’ così detti quadrumani, un piano caratteristico, diverso da quello delle altre grandi divisioni de’ mammali, e che a questo piano si accomoda perfettamente anche il cervello umano, come il grado più elevato di una grande serie che, per le scimie antropoidi, si continua nelle altre vere scimie e termina al grado infimo degli ovistiti.
Ma esiste forse nel cervello umano qualche organo nuovo che manchi alle scimie? Owen ha creduto poterlo indicare in una prominenza che si trova nel prolungamento posteriore delle cavità interne degli emisferi, ossia de’ ventricoli cerebrali, in quella prominenza che gli anatomici chiamano piccolo piede d’ippocampo; eppure Cuvier l’avea già data come caratteristica dell’uomo e delle scimie in comune, e Tiedemann almeno come propria di alcune delle scimie antropoidi. L’asserzione della grande e legittima autorità di Owen ha mosso altri anatomici inglesi alla caccia del piccolo piede d’ippocampo: ed il piccolo piede d’ippocampo fu trovato anche nel chimpansé ed anche, sebben ridotto, nelle altre scimie. Ultima illusione svanita!
Stando adunque ai puri caratteri anatomici del cervello, l’uomo non dista dalle scimie più di quanto le principali famiglie sistematiche di queste distino fra di loro; più di quanto, per esempio, dalle scimie comuni distino gli ouistiti.
Prendiamo finalmente in esame un altro sistema organico che ha i più stretti rapporti colla vita psichica degli animali, l’apparato della voce. Io devo qui particolarmente indicare le due saccocce laringee che esistono nelle tre scimie antropoidi e mancano nell’uomo. Queste saccocce laterali che si gonfiano quando l’animale grida, e crescono allora la ributtante ferocia del suo aspetto, devono influire grandemente a dare altresì alla sua voce una rauca asprezza tutta particolare. Nel chimpansé sono piccole, grandi invece nell’orang-outang, maggiori ancora nel gorilla, nel quale comunicano inoltre con una terza enorme saccoccia mediana complicata da espansioni laterali. Spunta per un istante la speranza di trovar qui almeno, in questo organo nobilissimo, un qualche carattere deciso, non di sola quantità, per cui l’uomo si distingua dalle scimie: ma anche questa speranza si dilegua davanti alla circostanza che in un medesimo genere di scimie, in quelli per esempio dei macachi e dei babbuini, vi sono specie con saccocce laringee e specie che ne sono prive.
Riassumendo il fin qui detto, voi vedete, o signori, che se vogliamo trincerarci nel campo della nuda anatomia, la gran barriera fra bimani e quadrumani, deve essere definitivamente abbattuta, e l’ordine dei primati ristabilito. Nel secolo delle unificazioni, dovremmo far anche questa.
Sarebbe del più grande interesse il rintracciare le prime origini dell’uomo nella storia del mondo, il conoscere i caratteri precisi delle razze primitive ed il far poi il confronto diretto di questi caratteri con quelli delle scimie antropoidi, ma siamo ancora assai lontani dal possedere materiali sufficienti a tanto uopo.
Voi sapete, o signori, come da ogni parte affluiscano fatti che ci obbligano a respingere l’origine della schiatta umana molto più indietro nella serie de’ secoli che non si credesse dapprima. Certamente l’uomo ha vissuto in Europa in compagnia di varie specie di mammali che sono da lungo tempo estinte, coll’orso delle caverne, col leone delle caverne, col cervo delle grandi corna, col rinoceronte dal setto nasale, coll’elefante velloso (mammouth), coll’elefante meridionale. Avanzi di scheletri umani e di oggetti lavorati dalla mano dell’uomo si trovano, insieme a resti di queste specie, entro depositi incontestabilmente naturali, non rimescolati o sconvolti dopo la loro formazione: ne’ depositi immediatamente superiori alle marne ed alle sabbie subapennine. Stando alle osservazioni sin qui fatte, si direbbe che l’uomo non discende più in basso nella serie delle formazioni geologiche.
Le scimie hanno senza dubbio abitata l’Europa prima dell’uomo. Nella celebre collina di Sansan, al sud della Francia, Lartet ha scoperto ossami di una scimia antropoide affine a’ gibboni; un’altra specie di scimia si trova in una breccia ossifera di Grecia: l’una e l’altra formazione spettano a quel terreno che i geologi dicono terziario medio o terreno mioceno. Se dobbiamo stare a qualche raro frammento fossile, le scimie discendono probabilmente ancora di un grado più in basso nella serie delle formazioni geologiche: nel terreno terziario inferiore od eoceno.
Stando a quegli scarsi materiali che finora si posseggono, si dovrebbe credere che abbia primitivamente esistito in Europa una razza umana diversa da quelle che attualmente la abitano, una razza dal fronte depresso, dagli incisivi inclinati all’infuori; ma è ancora oggetto di questione se questa razza sia apparsa in Europa sola oppure insieme ad altre razze differenti. Sono pochi anni soltanto che tali studi, per loro stessi cotanto astrusi e delicati, sono all’onor della scienza, e quindi sarebbe temerario il precipitare ora delle asserzioni nell’uno o nell’altro verso. Non devo però passare sotto silenzio la maravigliosa scoperta fatta nel 1858 in una piccola grotta a Neanderthal presso Dusseldorf, di alcuni avanzi di uno scheletro umano assai probabilmente contemporaneo dell’elefante velloso (E. primigenius), e che sarebbero rappresentanti di un tipo umano affatto piteciforme, veramente bestiale: il cranio è segnalato dalla forte sporgenza dell’orlo superiore dell’orbita, dalla grande depressione del fronte obbliquo all’indietro, dall’occipite obbliquo al davanti, dalla grossezza delle pareti. Anche alcune ossa lunghe, sole residue del tronco di quello scheletro che andò in gran parte disperso, si distinguono per la grossezza delle pareti e per le scabrosità molto pronunciate degli attacchi muscolari.
Basti ora la nuda esposizione dei fatti. A quali conclusioni essi trascinino la mente ritrosa, è quasi inutile che io dica. Se l’uomo per la sua compage, per la sua configurazione, è un animale dell’ordine dei primati, appena separato dalle scimie per quella distanza che separa un genere dall’altro in un ordine zoologico; se è razionale il far derivare tutti i primati da un unico stipite; se, nella successione cronologica degli esseri viventi, le scimie hanno preceduto l’uomo, l’ultima conseguenza si presenta da se stessa, senza cercarla. Quando Lamarck, per la forza de’ suoi ragionamenti, si trovava al punto di supporre una derivazione dell’uomo dalla scimia, nessuno avrebbe mai creduto che una simile proposizione potesse da senno essere sostenuta un istante. Or bene eccoci, dopo tanti anni, all’istesso punto. La mostruosa proposizione, non rabbrividite, è quanto ci è rimasto della grande lotta che il gorilla ha suscitata in Inghilterra. Potete immaginare se gli stessi spiriti di quella nazione, impassibili per abitudine ad ogni eccentricità, siansi accomodati facilmente a così inatteso blasone. Alla grandine di proteste che sotto ogni forma lo assaliva, Huxley oppose freddamente daprima le ragioni della scienza, poi queste memorande parole: se io dovessi scegliere i miei antenati fra un uomo che si vale del suo ingegno per deridere la ricerca della verità, od una scimia perfettibile, preferirei la scimia.
Ascoltate, o signori. La teoria di Darwin non ha nulla di allarmante. Vi fu chi trovò eterodossa questa teoria, ortodossa la teoria contraria; ebbene, si potrebbero forse invertire le partite, ma io non voglio suscitare ora questo vespaio; io mi limiterò a perorare per la libertà della discussione, e a dire che ogni teoria di filosofia naturale deve essere giudicata in sé, co’ suoi propri criteri, non per quelle precipitate illogiche deduzioni che possono presentarsi alla mente di taluno. Bisogna avere fiducia nella scienza. Se quello che vi urta è un errore, la scienza stessa lo troverà colla discussione pacata, condotta con quel rigoroso metodo che le è proprio; se invece è la verità, allora dobbiamo allontanare da noi il timore che due verità si contradicano.
Dire che l’uomo deriva da una scimia, non è altro che esprimere un fatto anatomico e connetterlo, pei suoi vincoli più naturali, ad una induzione fisiologica; e finché non si prova che uno de’ due elementi od entrambi sono falsi, la loro connessione deve essere accettata.
Sarebbe per noi profondamente umiliante se ad una scimia fosse toccato l’onore della creazione diretta ed a noi l’onta della derivazione; ma non è così. Bisogna accettare la teoria di Darwin in tutto il suo sviluppo o respingerla per intiero, o non fare il primo passo o fare anche tutti gli altri. In questa, come in tante vicissitudini in cui è posto l’ingegno umano, il peggiore sistema è quello de’ sistemi misti, di quelli ibridi filosofici che si mascherano troppo soventi sotto la speciosa parola di eclettismo. L’uomo è una derivazione delle scimie, e queste sono una figliazione del ramo de’ lemuri, il quale, alla sua volta, s’impianta sul ramo delle falangiste, che si collega ad altro stipite, e così via via si discende per l’albero genealogico degli animali, fino al tronco, fino ad uno stipite unico per tutti2. Ed allora cos’è questo se non un modo di concepire la creazione organica? Cos’è questo se non un senso che verrebbe dato alla parola creare, che entra così spesso nel nostro discorso ed alla quale non è congiunta alcuna idea determinata? In un pesce, per esempio in un ganoide, sviluppare in apparato polmonale la doppia vescica natatoria, è un creare il tipo rettile; abolire in un rettile il condotto arterioso, rivestire di penne il tegumento, è un creare il tipo uccello3; fare che in una scimia sia reso più elevato il fronte, meno acuto l’angolo facciale, più capace il cranio, più sviluppato il cervello, si allunghino le estremità posteriori, si allunghi ancora in queste il pollice dei piedi, è un creare l’uomo anatomico. Infine cosa fa la scienza? Essa non fa che sostituire alla forma simbolica della polvere della terra, la forma scientifica di un organismo, a costituire il quale ha concorso tutta la creazione precedente. La parentela colle scimie è così tutta assorbita in una parentela più generale; e lungi dall’esserne umiliato, l’uomo si sublima, pensando a quanto si riassume in lui, termine della creazione.
Concedete ora ch’io mi sbarazzi di un’altra quistione che pare secondaria, ma che pure è importante. Ammessa la derivazione primitiva dell’uomo dalla scimia, quale sarà il nostro antenato diretto, quale sarà il nostro più prossimo parente, fra le attuali tre scimie antropoidi? Io ho cercato di mostrarvi che nessuna di esse ha titoli assoluti di preminenza sulle altre due; che se l’una sembra prevalere per un carattere, decade poi per l’altro; che se per i caratteri del cervello, per la distribuzione del pelo, l’orang-outang vince le scimie rivali, per la forma del capo, per le proporzioni delle estremità, per il minor sviluppo delle saccocce laringee, il chimpansé vince alla sua volta l’orang-outang; che se il gorilla è l’ultima delle scimie antropoidi pe’ caratteri del cervello e del cranio e per la complicatezza de’ sacchi laringei, è poi superiore a tutte pe’ caratteri osteologici del tronco e della estremità. Mi pare che da tutto ciò derivi chiaramente la conseguenza che noi non dobbiamo cercare in alcuna di queste scimie antropoidi il nostro stipite primitivo, bensì in una forma perduta nelle epoche preumane; in altre parole, che le scimie attuali sono il ramo cadetto e noi il ramo principale del comune tronco genealogico4.
Ritorniamo ora al nostro principale soggetto. Fin qui noi non abbiamo considerata se non la parte dell’uomo che si rileva col metro, colla bilancia, colla camera fotografica. Sarebbe ora tutto finito? Basterebbe forse, a far l’uomo, prendere una scimia, allungarvi le gambe, ottundervi l’angolo facciale, dilatare la capacità del cranio e mettervi dentro qualche grammo di sovrapeso di quella pasta fosforica che si chiama cervello? Non è serbata al naturalista qualche cosa al disopra del vano amore di Pigmalione?
Lo studio della struttura, della forma, dei rapporti degli organi, è il primo fondamento della filosofia zoologica, ma non è l’edifizio. Nulla di quanto riflette la vita degli animali, le loro azioni, i moventi di queste azioni, deve esser lasciato in disparte dal naturalista. Lyonnet colla stupenda sua anatomia del bruco del salice, Huber e Réaumur colle non meno stupende loro osservazioni sui costumi degli insetti si completano vicendevolmente.
Ogni osso, ogni muscolo, ogni protuberanza cerebrale dell’uomo, ha il suo perfetto riscontro negli animali: i fatti dell’uno vanno fin qui paralleli coi fatti degli altri; vediamo ora se questo parallelismo si mantiene passando alle manifestazioni istintive ed intellettuali. Ora da questo punto incomincia invece una divergenza che tutti i naturalisti riconoscono; disputano sul grado, ma la riconoscono. Sono certo di avervi tutti consenzienti, o signori, in questo ragionamento elementare: quanto più si appianano le disuguaglianze fisiche fra l’uomo e la scimia, tanto più crescono d’importanza e più si dimostrano indipendenti, le disuguaglianze che restano, le differenze virtuali. Il posto dell’uomo nella natura vuol essere determinato non da quel più o da quel meno di caratteri morfologici soggetti a variare negli stessi angusti confini della specie, ma dal confronto della virtualità propria dell’uomo con quella degli animali. Finché il naturalista ha potuto dimostrare che non v’ha altra differenza che di proporzioni, ed ancora ben lieve, tra il cervello dell’uomo e quello della scimia, ha fatto quanto la scienza chiedeva da lui. Non è più solo ora a giudicare se non vi sia del pari che una differenza di grado fra l’istinto e la ragione, o tra la ragione bestiale e la ragione umana. Quando egli avrà creduto di finir la quistione coll’asserire che tanto nell’uomo come negli animali ha sede un medesimo principio virtuale, o che non ve n’ha né in quello né in questi, vedrà avanzarsi, come una poderosa falange nel punto decisivo della battaglia, la coscienza generale, e dovrà cederle il campo.
Più che le pregiudicate dichiarazioni del naturalista, io amo qui raccogliere le sue tacite confessioni: sono molto eloquenti. Egli vede in un alveare una società mirabilmente ordinata: una regina, una corte, un popolo di industriosi proletari, poi combattenti, e vincitori che rimangono, e vinti che sono cacciati in esilio; sulle aduste spiagge dell’Africa vede grandi cumuli di fango rassodato, e dentro un altro regno, quello delle termiti, pure con regine, e sciami di cortigiani e schiere di soldati ed eserciti immensi di operai; lungo le più solitarie rive dei fiumi del Canadà, vede i villaggi e gli argini de’ castori; nelle foreste vergini di Borneo le rozze capanne dell’orang-outang. Qui è nel suo dominio; qui deve guardare, ricercare, studiare, e non avrà mai guardato, ricercato, studiato abbastanza; qui è tutto, fuorché legislatore. Deve ora il naturalista, coll’istessa franchezza di autorità legittima e sola, investigare le forme, le ragioni, i principi direttivi, degli edifizi, dei consorzi, delle industrie, delle guerre, di quest’altro animale che si chiama uomo? Certamente non v’è naturalista che pretenda tanto, non v’è alcuno che voglia far della zoologia la scienza universale. Degli animali tutto sottomette il naturalista alle sue proprie investigazioni, dell’uomo non vuole che il solo cadavere. D’onde ciò, se non in qualche cosa per cui, anche senza volerlo, egli si sente astretto a fare all’uomo un posto distinto nella creazione.
In uno strato di sabbia, in uno strato d’argilla, insieme ad ossa di elefanti e di rinoceronti, nel centro della dotta Europa, il naturalista rinviene qualche frammento di carbone, qualche ciottolo scheggioso, qualche osso scalfito, e non esita un istante ad esclamare; ecco tracce dell’uomo primitivo; e non gli è mai passata per la mente l’idea di attribuire queste semplicissime fatture ad una scimia. Perché la scimia sia capace di accendere un ramo secco, di percuotere un sasso contro un altro, bisogna che diventi uomo.
Ecco tacitamente e, per consenso unanime, riconosciuto un distintivo che val bene qualche cosa di più di quel povero piccolo piede d’ippocampo che ci è mancato nel bollore delle speranze; un distintivo fisicamente indeterminabile, ma più forte d’una sequela di sofismi.
Trapela da tutto questo un sentimento interno che guida logicamente ad una concessione più esplicita e formale: ma avete veduto cosa fa il naturalista. Lesinando, come l’avaro che misura il panno ai suoi famigliari, è già molto se si lascia strappare la concessione di un ordine distinto per l’uomo, sempre nella classe dei mammali. Or bene, non si sfugge da questo dilemma: o si vuole considerare soltanto la parte materiale dell’uomo, ed allora, in buona zoologia, non si può concedere questa separazione, v’è troppa rassomiglianza fra l’uomo e la scimia; o si vuole far entrare nel confronto anche la virtualità, ed allora, in miglior zoologia, v’è troppa distanza. Insomma, o signori, non saremo indiscreti se forzeremo la mano a questo dispensatore di blasoni. Cerchiamo francamente l’investitura di un regno: una voce interna ci dice abbastanza che lo meritiamo.
Invero questo diritto ci fu già da alcuni ampiamente riconosciuto, da Nees di Esenbeck, da Jan, da Quatrefages, ma il regno umano, quarto regno della natura, è posto, da alcune grandi potenze scientifiche, nelle stesse condizioni nelle quali si trova nel mondo politico l’Impero Germanico. Vediamo quale de’ due si costituirà più presto.
La legittimità di questo regno non può essere contrastata. Chi la acconsente e chi la rifiuta concorre egualmente a dimostrarla, poiché di tanti assoluti distintivi morali dell’uomo, di tanti suoi attributi esclusivi, due sono certissimi: quello di mettere se stesso in quistione, e l’altro di porsi in lotta co’ suoi propri sentimenti. Chi non vuol riconoscere come appannaggio esclusivo dell’uomo il dubbio filosofico, il sentimento morale, il religioso, dovrà vedere nel fondo del calice delle miserie umane queste affatto caratteristiche e proprie, che sono il maligno sospetto, la menzogna, il suicidio.
Come la virtualità decida sola sul posto di un essere vivente nella natura, io lo posso dimostrare cogli stessi procedimenti incontrastati della filosofia naturale.
I due regni vegetale ed animale formano, partendo, ciascuno per sé, dalle forme superiori e più complicate alle inferiori e più semplici, due serie convergenti e così immedesimate che i naturalisti disputano ora più che mai sul loro preciso limite. Anche qui i caratteri differenziali che sembravano per lo addietro così netti e precisi, fra animali e piante, coi progressi della scienza vennero l’un dopo l’altro a sparire, precisamente come fra gli animali e l’uomo. Il naturalista trova soventi, sotto il microscopio, minuti e semplicissimi esseri viventi ai quali non sa qual natura attribuire. Colla medesima precisa composizione, co’ medesimi precisi movimenti, l’uno assorbe acqua, acido carbonico ed ammoniaca, prodotti della decomposizione continua di sostanze organiche, e sarà un vegetale; l’altro invece introduce nel suo corpicino sostanze organiche indecomposte, insomma mangia, e sarà per questo solo un animale. Ecco due potenze virtuali affatto distinte, in due semplicissimi organismi affatto simili. Della natura di questi organismi non possiamo capire nulla, finché la virtualità o potenzialità propria di ciascuno non sia tradotta in azione. La forza della logica ci obbliga a continuare le conseguenze del principio di Darwin, fino ad un’origine comune agli animali ed alle piante: eppure la distinzione de’ due regni animale e vegetale è mantenuta. A nessuno è mai venuto in pensiero di toglierla, per ciò solo che è difficile, ed anzi praticamente in alcuni casi impossibile, separare con un taglio netto organismi inferiori de’ due regni.
Un’ultima considerazione, o signori.
Ripensate un istante alle immediate ed alle remote conseguenze di quel semplice atto che è l’accendimento d’un ramo secco, al qual non arriva la capacità della scimia. Di là si venne subito alla pentola, primo fondamento della famiglia, all’altare ardente ed alla fucina, primi fondamenti delle società umane. Ma non è ancora quello ch’io voglio dire.
Un pensiero che ho preso al volo in una conversazione famigliare con un mio dottissimo amico, mi pare conduca a riconoscere un’alta ragione teleologica nel regno umano. Per verità il naturalista deve stare bene in guardia contro il principio delle cause finali, per evitare il pericolo di fare della scienza sentimentale a capriccio; ma quando una manifestazione di questo principio scaturisce da sé, senza tormentare i fatti, io non vedo il perché si debba respingere come una tentazione funesta.
Ora ascoltate.
L’economia generale della natura si mantiene per l’azione combinata antagonista delle piante e degli animali. Le piante assorbono le sostanze elementari del loro organismo dal terreno in piccola parte ed in massima parte dall’aria, e fabbricano così la materia organica onde s’alimenta l’organismo animale. Sapete quanto ne’ tessuti della pianta, e specialmente nel legno, sia predominante il carbonio che resta sotto forma di carbone, quando gli altri principi elementari, l’ossigeno, l’idrogeno, l’azoto, siano eliminati. Ora le piante prendono tutto il loro carbonio dall’aria, ove esiste in quella combinazione che è detta acido carbonico. L’acido carbonico dell’aria è dunque il principale alimento delle piante. Tutto il carbonio che è solidificato o nell’organismo delle piante od in quello degli animali od in que’ grandi strati di lignite e di carbone fossile che fanno parte della corteccia terrestre, tutto fu preso dall’aria, e, per l’economia generale della natura, deve essere nuovamente nell’aria riversato. Ma quegli immensi strati di lignite e di carbon fossile sono un ingente capitale affatto perduto per la vegetazione, tagliato fuori intieramente dal circolo della vita. L’uomo solo è chiamato dalla natura a vivificare questo capitale, a restituirlo fruttifero per le mille e mille bocche delle sue risuonanti officine nel grande emporio dell’atmosfera. Lo stemma del regno umano abbia adunque la doppia corona dell’ordine morale e dell’ordine teleologico.
Appendice alla terza edizione (1865)
Nell’accingersi ad una ristampa di questa lezione l’editore mi domandò se mai vi avessi nulla da aggiungere, da togliere o da cambiare. La mia risposta fu di lasciarla intatta.
Però, se mi rassegno a passare agli occhi di taluno per un peccatore ostinato, vorrei evitare l’accusa di sordo volontario. Molto si è parlato intorno a me di questa lezione. Gli uni avrebbero voluto ch’io fossi stato più conseguente alle premesse, più franco e radicale; che dopo aver fatto camminare di pari passo ed in fila l’uomo colle scimie, non avessi poscia rotto violentemente questo, a loro credere, così bello, così naturale consorzio; altri, colpiti di scandalo alla semplice enunciazione dell’argomento, atterriti dalle conseguenze apparenti dei primi confronti, precipitarono il giudizio e non vollero sentir altro. Dai primi ho avuto semplici promesse di ragioni e di prove o disdegnose crollate di testa, come io domandassi che mi si facesse vedere il sole; fra i secondi i più furono intolleranti in modo assoluto e reciso, ma i pochi arrendevoli, dai quali ho potuto farmi ascoltare, finirono per convenire almeno in questo, che la tesi era scientificamente sostenibile e senza urto di coscienze.
Del resto, anche i più fervidi sostenitori della teoria della trasmutazione della specie e della naturale applicabilità di questa teoria alla ricerca dell’origine materiale dell’uomo, sanno benissimo due cose: da prima che in siffatti argomenti non si può pretendere all’assoluta certezza delle verità sperimentali; e poscia che le vecchie abitudini delle scuole formano una resistenza dura da vincere. Epperò sono essi i primi a desiderare un’ampia, una spassionata discussione, ma si oppongono a ciò che la pura sonora apparenza di questa mascheri la reale conclusione del non farsi luogo a discutere. Le rifritture rettoriche, in famiglia, di argomentazioni stantìe siano lasciate in pace. La sola arena nella quale simili quistioni si possono dibattere con dignità e con qualche speranza di successo, è l’arena della stampa, ed in questa io non trovo che un solo franco e leale avversario, il prof. Bianconi di Bologna5.
Troppe cose io sarei in grado di contraporre alla sua dotta memoria, se non che egli mi ha reso difficile l’assunto col non prestarmi filo per filo da seguire, col pregiudicar la discussione fino nel titolo che gli piacque dare alla teoria presa a combattere a botta calda. Come il professore Bianconi poteva imparzialmente giudicarla, esordendo in nome dell’umanità che si risente, del buon senso che rifugge, della conculcata sublimità dell’intelligenza? La prima impressione lo ha tradito, e così non si è accorto che tutta la sua diligentissima elucubrazione, quale invero si è in diritto di attendere da un naturalista pari suo, può passare tutta intiera nel campo contrario senza produrvi la benché menoma commozione. Tutto quanto dice il prof. Bianconi della differenza fra l’uomo e la scimia, è perfettamente vero; dirò di più, è noto, ammesso, riconosciuto da tutti indistintamente: col compasso e colla bilancia, non c’è a ridire. Non si tratta adunque di discutere di forza ed acutezza di denti canini, di capacità del cranio, di mobilità di dita, di estensione del legamento plantare. La vera, la sola questione è sull’origine della differenza di questi caratteri e sul loro valore; ed una così fondamentale quistione è dall’egregio professore di Bologna saltata a piè pari. Questo bisognava discutere per drizzar i colpi al vero regno, onorando in pari tempo l’avversario. Per difendere la teoria dell’immutabilità della specie non potevano mancare al professore Bianconi argomenti assai più gravi di quelli triti e rancidi della mummia che non prova nulla, e del fossile che prova il contrario. A mostrare infatti quanto sarebbe stato urgente per lui l’occuparsi della quistione generale prima che della particolare, prenderò le sue stesse conclusioni, alle quali controporrò altrettante, od equivalenti, od identiche, meno l’ultima, che infin de’ conti è la conclusione vera e che per me sarà in senso opposto.
Prof. Bianconi | Io | - | 1. Esistono distinzioni organiche, gravi e sicure fra l’uomo e le scimie antropomorfe. | 1. Esistono distinzioni organiche gravi e sicure fra le scimie antropomorfe e le capucine. | - | 2. Tali distinzioni e differenze più emergono salienti ed accertate, quanto più l’analisi è profonda. | 2. Tali distinzioni e differenze più emergono salienti ed accertate, quanto più l’analisi è profonda. | - | 3. Sussistono in tutta la loro integrità le antiche divisioni di bimani e quadrumani. | 3. Sussistono in tutta la loro integrità le antiche divisioni di scimie catarrine e platirrine. | - | 4. L’uomo è una creazione a parte, ed a sé, indipendente affatto da quella degli altri animali. | 4. E nullameno le scimie antropomorfe NON sono una creazione a parte e indipendente affatto da quella degli altri animali. | }
Ho già toccato nella mia lezione quali sieno le principali ragioni che fanno preferire la teoria della continuata produzione genealogica della specie a quella delle creazioni dirette e successive. Aggiungerò ora che, entrati una volta in quest’ordine d’idee, io non so veramente trovare due teorie antagoniste, ma soltanto l’alternativa del pensare o del non pensare. Una creazione di getto non è concepibile da alcuno, mentre è accessibile ad ogni mente, e fino ad un certo punto effettivamente verificabile, la trasmutazione di una forma nell’altra. Per derivare teoreticamente da un prototipo tutta la successione delle specie, non si ha bisogno che di poter disporre con larghezza d’un solo elemento, del tempo, e di questo ne abbiamo a discrezione. Ma i nostri avversari siano anche alquanto ragionevoli e non ci domandino prove impossibili: quelle che siamo in grado di presentare saranno sempre migliori delle loro. Non ci si imponga di fare come quello scolastico, il quale, avendo sentito che i corvi campano due secoli, ne acquistò uno per fare la prova di sua propria testimonianza. Le obbiezioni fatte alla teoria detta di Darwin sono di due sorta: le une attaccano il principio generale della mutabilità della specie, le altre il concetto particolare del naturalista inglese sul perpetuarsi delle variazioni col mezzo dell’elezione naturale. Ad alcune di queste obbiezioni, sovratutto fra le prime, si è abbondantemente risposto o si può rispondere, e coloro che le ripetono puramente e semplicemente senza farsi carico delle repliche, non fanno che confessare la propria incompetenza. I precedenti scientifici del prof. Bianconi lo escludono assolutamente da questo numero ed il suo silenzio intorno alla quistione fondamentale riesce per ciò tanto meno concepibile. Egli non poteva esimersi dal mostrare che i caratteri organici pei quali l’uomo si distingue dalle scimie sono di tal natura da non potersi derivare da modificazioni sporadiche divenute permanenti. Se io posso far vedere che differenze, dal punto di vista zoologico, assai più gravi si sono viste nascere per cause indeterminabili, poscia trasmettersi per eredità, in un periodo definito dell’ordine tellurico ed in una ristretta porzione di questo periodo, sarò ampiamente autorizzato a supporre molto probabile la produzione da prima, e quindi la perpetuazione ereditaria in un lasso di tempo illimitato, ed attraverso vicende geologiche, di particolarità organiche più importanti, ed a maggior ragione di meno importanti. Gli esempi riferiti nella mia lezione mi sembrano di gran forza, e quando se ne richiedessero altri non ve ne sarebbe penuria. Ne sceglierò ancora uno perché recente ed interessante al maggior grado. Dalla presenza o dalla mancanza della clavicola, o dalle clavicole perfette od imperfette, si desume in zoologia un carattere di importanza assai più che specifica, perfino più che di genere, un carattere di famiglia o di sottordine. Ora in qualche raro caso si è verificato la mancanza totale o parziale di quest’osso nella specie umana. Un caso di mancanza della metà acromiale della clavicola fu narrato lo scorso anno dal professor Gegenbaur di Jena6; e ciò che è più importante si è che tale difetto, originario in una donna, è stato da questa trasmesso alla sua prole di due letti, senza che rimanesse menomamente lesa la piena libertà dei movimenti delle braccia. Di induzione in induzione, fondandosi sempre sulla legge fisiologica dell’eredità, potremmo facilmente arrivare a supporre possibile la formazione di una stirpe priva della parte acromiale od anche di tutta la clavicola. Or bene, se fra i distintivi organici dell’uomo in confronto colle scimie ci fosse anche questo, il prof. Bianconi non avrebbe esitato un istante a metterlo in prima linea: fors’anco non avrebbe creduto necessario lo scendere fino ai caratteri molto subordinati delle zanne, dell’arcata zigomatica, del legamento plantare; e nel supposto caso avrebbe avuto molto maggior ragione che non nel caso concreto. Nessun ordine zoologico è fondato su caratteri organici equivalenti a quelli sui quali il prof. Bianconi stabilisce l’ordine de’ bimani: che se egli ha in suo favore la continuata tradizione delle scuole, non deve dimenticarsi che è appunto la legittimità di questa tradizione che si vuol discutere. Egli avrebbe forse proceduto in altro modo ove la quistione fosse stata semplicemente sulla possibile derivazione delle scimie dai maki. La cagione di questo diverso contegno è perfettamente chiaro. Egli è che insieme alla quistione zoologica ne è stata travolta un’altra di assai diversa natura, ed una reazione scusabile appena in chi viva fuori del mondo delle cose reali, ha dato il prisma all’occhio del naturalista. Quante volte non si è detto che l’uomo è il riassunto di tutta la creazione organica, senza che gli spiriti più eccitabili, le coscienze più timorate, non ne risentissero offesa! La nuova teoria non fa che ridurre a forma più scientifica questa frase astratta. Al dire che l’uomo è l’ultimo termine della catena degli esseri creati, nessuno si commuove: quando si contano e si denominano gli anelli di questa catena, sorgono proteste da ogni parte. È uno strano modo questo di concepire la dignità umana! Che! l’origine dell’uomo sarà forse meno divina, quando la biblica zolla diventi tutta la creazione organica? Il prof. Bianconi si fa questa domanda: se dunque io derivo da una scimia, come sorse il primo raggio dell’intelligenza? Ebbene: si ripeta la risposta medesima che si dà quando crede di esser derivato da un pezzo di impuro fango. Faccia questo, e poscia io sarò con lui in riconoscere che l’uomo è una creazione a parte, ma soltanto come essere intelligente e morale. In questo senso io lo credo, e così profondamente, che alla mia volta parmi sentir rintronare le grida dell’umanità rifuggente dal vedersi registrata nelle tabelle zoologiche, o si parli di primati, o si parli di bimani. Da tutto ciò si deduce un utile insegnamento che vale un sistema, ed è che nel trattare quistioni di filosofia naturale non bisogna mai lasciarsi condurre da considerazioni estranee, né falsare i risultati per drizzarli forzatamente contro scopi prestabiliti. La filosofia naturale non ha nulla a che fare colla rivelazione, non può adoperarsi né pro né contro di essa. I razionalisti fanno cattivo uso della ragione, quando studiano l’opposizione de’ risultati scientifici alla credenze od ai sentimenti religiosi, come questa opposizione fosse per sé un criterio probativo di verità fisiche; ed i teologi fanno male alla religione quando vogliono darle sostegni che essa non chiede, dei quali non abbisogna, e che, essendo concessi assolutamente alla libera discussione, possono essere rovesciati.
Sul punto di correggere le bozze di stampa, mi venne gentilmente comunicato uno scritto recentissimo, nel quale un altro professore dell’Università di Bologna trae occasione per dichiararsi risoluto avversario della teoria che ho cercato di propugnare7. Se il principio d’autorità potesse per sé solo troncare d’un tratto una quistione di filosofia naturale, sarebbe questo il caso di darsi per vinto e non fiatar più. Mi permetta però l’illustre professore Calori, che io sottometta al suo giudizio le stesse osservazioni fatte al suo collega. La quistione non s’aggira punto sulla differenza fra il gorilla e l’uomo, ma veramente sulla derivazione di queste differenze. Certo il gorilla non genera che gorilla, e gli stessi più entusiasti darwinisti non pensano altrimenti. La vera quistione è assai più generale e può esprimersi così: se quelle che noi diciamo ora differenze specifiche non abbiano avuta, nella lunga successione de’ periodi geologici, la stessa origine di quelle altre differenze che ora veggiamo coi nostri propri occhi prodursi e perpetuarsi e che per ciò solo consideriamo come di varietà o di razze. E poiché il professore Calori fa esso pure intervenire come argomento necessario in siffatta quistione l’idea di una Sapienza infinita, di un autore supremo della natura, mi sia lecito il ripetere che l’autore delle forme organiche è pure l’autore delle leggi che le governano e singolarmente e nel complesso, e che in queste, più che nelle prime, si manifesta la Sapienza infinita; che si può essere profondamente atei ammettendo la formazione di getto delle specie organiche, mentre un vero sentimento religioso è conciliabile colla dottrina della figliazione genealogica della specie da un tipo primitivo, come l’esclamazione ascetica "non casca foglia che Dio non voglia" è conciliabile col pieno riconoscimento delle leggi della gravità.
Note
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