La Costa d'Avorio/25. La Città Santa del Dahomey

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25. La Città Santa del Dahomey

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25. La Città Santa del Dahomey
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Capitolo XXV

La Città Santa del Dahomey


Alle 4 del pomeriggio, la carovana si metteva in marcia verso il nord-est, direzione che doveva condurla nella borgata di Toune e quindi nella città santa del Dahomey.

La traversata dell’ultimo tratto della grande boscaglia, si effettuò senza incidenti e prima che il sole declinasse, giungeva sul margine della grande pianura la quale si estendeva a perdita d’occhio verso il nord e verso l’est, coperta da un’erba assai fitta, alta da un metro a due, ma già mezza disseccata dagli implacabili raggi dell’astro diurno.

Guardando verso il nord-est, Alfredo ed Antao scorsero distintamente una serie di altipiani che s’innalzavano in grandi scaglioni o piattaforme immense, cosparsi di gruppi di punti biancastri indicanti attruppamenti di capanne. Sui fianchi di quelle alture dovevano esservi numerosi villaggi.

Anche nella pianura si vedevano sorgere fra le alte erbe, le punte aguzze di molti casolari, ma pareva fossero disabitati, poichè nessuna colonna di fumo si vedeva innalzarsi, quantunque fosse l’ora del pasto serale.

— È la guerra che qui ferve quasi sempre, che ha scacciati i proprietari, — disse Alfredo. — Triste paese questo, condannato a diventare un cimitero immenso, se le nazioni civili non imporranno a questi re sanguinari di abolire le orrende feste dei costumi.

— Credi che le bande del Dahomey abbiano fatto delle scorrerie su queste terre?...

— Lo temo, Antao. Quando non riescono a sorprendere le popolazioni dei regni vicini ed a raccogliere schiavi pei sacrifici, [p. 181 modifica]si gettano contro i loro stessi compatrioti delle frontiere. Sono negri al pari degli altri uomini, eguali agli altri e basta.

— Ma distruggono la popolazione del regno.

— Che importa a Geletè?... Si rifarà più tardi rubando altri schiavi ai Krepi ed ai Togo, ai Yoruba del Benin, al povero Tofa, alle repubbliche del Piccolo e Grande Popo o agli Egbas di Abeokuta.

— Che sia capace di fare schiavi anche noi?...

— Non l’oserà, Antao. Geletè è sanguinario, ma non è così barbaro come si crede e rispetterà gli ambasciatori che appartengono ad una nazione bellicosa, che potrebbe creargli dei gravi imbarazzi sulle lontane ed indifese frontiere del settentrione.

— Credi che ti riceverà cortesemente adunque?...

— Porto a lui dei regali che mi costano una somma non lieve, Antao.

— A quel furfante!...

— Ed anche a Kalani ne porto.

— Anche a lui?...

— È necessario per rendercelo propizio. È lui che custodisce mio fratello e solo da lui potremo avere il permesso di vederlo.

— Ed hai quei regali nelle tue misteriose casse?...

— Sì, Antao.

— Ora comprendo perchè ti premeva acciuffare i ladri.

— Se non riuscivo a riaverle, saremmo stati costretti a tornare a Porto Novo per ricorrere ai magazzini delle fattorie europee. Nemmeno nella capitale degli Ascianti sarebbe stato possibile trovare ciò che ci era necessario. —

Mentre chiacchieravano, Asseybo ed i dahomeni avevano rizzate le tende sul margine della foresta ed allestita la cena.

I due cacciatori, avvertiti che tutto era pronto, scesero dalle cavalcature e s’accomodarono presso i fuochi accesi, trattenendosi molto tardi con l’amazzone e coi tre negri a discorrere dei loro futuri progetti.

Alle quattro antimeridiane, dopo un sonno di sei ore, non interrotto da alcun avvenimento, si avventurarono sulla grande pianura, impazienti di giungere a Toune od a Tado.

S’accorsero ben presto di calpestare quella terra innaffiata dal sangue di tante migliaia di vittime. Ogni qual tratto, in mezzo alle folte erbe, vedevano alzarsi stormi immensi di corvi e di avvoltoi e vedevano fuggire branchi di sciacalli e di iene, [p. 182 modifica]occupate a spolpare numerosi cadaveri umani già imputriditi dall’intenso calore.

Incontravano poi capanne mezze distrutte, alcune abbattute ed altre mezze divorate dal fuoco, palizzate sfondate, poi altri scheletri d’uomini ed anche non pochi d’animali. Pareva che le feroci bande di Geletè avessero fatto delle razzie in quei luoghi ed in un’epoca molto recente, forse qualche settimana prima.

Temendo d’incontrare i razziatori, la carovana evitò di accostarsi a Toune, grossa borgata che si trova quasi ad eguale distanza fra i fiumi Mono e Koufo, e cominciò ad avanzarsi con grande prudenza. Quella seconda notte non accese i fuochi, per non attirare l’attenzione di quelle bande di predoni che potevano catturarla e saccheggiarla. Essendo però gli animali feroci numerosi fra quelle alte erbe, e non potendo tenerli lontani coi fuochi, dovette rifugiarsi in una capanna.

Non ostante quelle precauzioni, il terzo giorno, a quattro o cinque miglia da Tado, altro popoloso borgo che si trova più al nord di Toune, fecero improvvisamente l’incontro d’una truppa di dahomeni, la quale formava forse la retroguardia delle colonne predatrici.

Si erano inoltrati in una boscaglia, quando si videro circondare da una cinquantina di guerrieri che pareva si fossero fino allora tenuti nascosti in mezzo ai più fitti cespugli, per piombare addosso alla carovana all’improvviso.

Erano tutti bei pezzi di negri dalla tinta bronzina a riflessi rossastri, dai lineamenti più regolari degli abitanti della Costa, vestiti con una giacca bianca e sottanina dell’egual colore e col capo coperto da uno stravagante berretto che si rialzava ai lati, in forma di due corna.

Erano tutti armati di fucili di vari calibri, alcuni moderni ma altri assai antiquati e di larghi coltellacci dalla lama assai pesante, ma tagliente come un rasoio.

— Morte di Nettuno!... — esclamò Antao. — Ecco i lupi di Geletè!...

— O meglio i leopardi del Dahomey, — disse Alfredo, arrestando i suoi uomini che si preparavano ad armare le carabine ed a disporre in circolo gli animali, onde servissero di barriera ai loro padroni.

I guerrieri dahomeni, quantunque dieci volte superiori di [p. 183 modifica]numero e coraggiosissimi, invece di gettarsi impetuosamente sulla carovana come insegna la loro tattica, si erano arrestati, guardando con un certo stupore Alfredo ed Antao i cui ricchi costumi dovevano produrre un certo effetto su di loro, e soprattutto i due ombrelli, distintivi di persone altolocate o di famiglia principesca.

Il loro comandante, un negro di statura gigantesca, che indossava una lunga camicia di color verde, stretta alla cintura da una larga fascia rossa, dopo un po’ di esitazione si fece innanzi avvicinandosi ad Alfredo, il quale guardava alteramente tutti quegli armati, senza fare alcun gesto.

— Chi siete voi e dove vi recate?... — chiese il capo.

— Chi sei tu, innanzi tutto?... — domandò Alfredo, con tono imperioso.

— Un capo banda delle truppe del re.

— Non è con te adunque che io ho da fare.

— Ma tu non sei del paese.

— E cosa intendi di dire?...

— Che io posso catturarti ed anche ucciderti, se ciò mi aggrada.

— Tu!... — esclamò Alfredo, fissandolo con due occhi pieni di disprezzo. — I principi del Borgu non sono schiavi tuoi.

— Ah!... Voi siete principi?... — disse il capo, con tuono più umile. — Ma cosa fate qui, sulle terre del mio re?...

— È a Geletè che vedrò fra due giorni, che devo dirlo.

— Al re!... — esclamò il negro spaventato.

— Sì, a Geletè.

— E tu ti rechi da lui?...

— E mi attende.

— Potevi dirlo prima ed io non avrei osato arrestare degli uomini che il re aspetta.

— È sgombra la via che conduce a Kana?... — continuò Alfredo, coll’egual tono altero.

— Troverai altre bande.

— Che mi fermeranno e che mi costringeranno a lamentarmi con Geletè.

— Non farlo, principe, od il re farà tagliare la testa a tutti noi della retroguardia. Io ti farò una scorta che ti farà largo.

— Basterà uno dei tuoi uomini. Una scorta numerosa mi sarebbe d’imbarazzo. — [p. 184 modifica]

Il capo si volse verso i suoi guerrieri e fece cenno ad uno di essi di avvicinarsi:

— Tu condurrai questi uomini a Kana, — gli disse. — Il re li aspetta e mi risponderai di essi colla tua testa.

— Sta bene, capo, — rispose il soldato.

— Buon viaggio, — disse poi, rivolgendosi verso i due ambasciatori. — Più nessuno vi susciterà ostacoli. —

Ad un suo ordine la truppa si divise e la carovana sfilò fra quei feroci negri che le presentavano le armi come i soldati europei.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao, respirando a pieni polmoni. — Non credevo che questo incontro terminasse così felicemente; sei un diplomatico da dare dei punti ai più astuti.

— Ho voluto prendere sul serio la mia parte, — disse Alfredo, ridendo, — ed ho voluto cominciare con un felice colpo di testa. Non era d’altronde una cosa così difficile come sembrava, sbarazzarci da quelle canaglie. In questo paese basta pronunziare il nome del re, per far tremare grandi e piccoli.

— Ma tu hai detto a quel capo che il re t’aspetta, mentre non è vero.

— Che importa?...

— Se Geletè sapesse che tu hai mentito?...

— Nessuno oserebbe andarglielo a dire, Antao.

— Ma cosa faremo ora di quella mignatta, che il capo ci ha appiccicato ai fianchi?...

— Del negro che ci serve di salvacondotto?... Quando saremo a Kana, lo manderemo indietro con qualche regalo pel capo.

— Temo che tu giuochi delle carte pericolose, Alfredo.

— Lo so anch’io, ma non possiamo fare diversamente. È giunto il momento di giuocare d’audacia per salvare la nostra pelle e mio fratello.

— Quando saremo a Kana, farai avvertire il re del nostro arrivo?...

— Certo, Antao.

— Speri di venire ricevuto?...

— Lo credo.

— Sai che mi sento venire la pelle d’oca, pensando che dovremo trovarci con quel barbaro sanguinario, a cui un solo sospetto sarebbe sufficiente per mandarci all’altro mondo?...

— Non temere, Antao. Nessuno potrà sospettare in noi degli [p. 185 modifica]europei, purchè non ti lasci sfuggire uno dei tuoi pianeti morti o vivi.

— Comincerò da quest’oggi a sopprimerli tutti, — disse il portoghese. — Morte di Net... Diavolo! Bisognerà che mi tagli la lingua o mi scapperà fuori sempre qualche pianeta.

— O renderla muta, Antao.

— Bella trovata!... Dinanzi a Geletè fingerò di essere muto.

— E credo che farai bene. —

Mentre così chiacchieravano, cavalcando l’uno vicino all’altro, il soldato dahomeno, un giovane negro, ma dall’aspetto marziale e dagli sguardi assai intelligenti, marciava con passo rapido attraverso a dei sentieri aperti fra la foresta e forse a lui solo noti.

Giunti sulla vetta d’una piccola collina, la carovana raggiunse un’altra banda di soldati composta d’un centinaio d’uomini tutti armati, i quali si spingevano innanzi due dozzine di prigionieri fra maschi e femmine.

Questi disgraziati, destinati molto probabilmente a venire sacrificati nella prima festa dei costumi, procedevano su due file, legati gli uni agli altri con solide corde e sotto una continua pioggia di bastonate, date senza misericordia, e ricevute con una rassegnazione inaudita.

Per impedire loro di gridare, i feroci guardiani avevano messo sulle bocche di quelle future vittime dei bavagli di legno in forma di croci, che dovevano farli anche crudelmente soffrire, poichè l’estremità a punta era applicata sulla lingua, in modo che questa non potevano muoverla in modo alcuno, nè articolare qualsiasi suono.

Alcuni soldati, vedendo la carovana, armarono precipitosamente i fucili, ma una parola della guida bastò per arrestarli, anzi, tutti si ritrassero precipitosamente per far largo ad Alfredo ed al suo compagno, i quali tenevano ben alti i loro ombrelli per dimostrare la loro alta posizione sociale.

— Canaglie!... — borbottò Antao, gettando uno sguardo compassionevole sui prigionieri. — Se non vi fosse da salvare il ragazzo, vorrei trattare come si meritano questi soldatacci.

— E credi che io non frema, — disse Alfredo, che allungava involontariamente le mani verso la carabina sospesa all’arcione. — Ma un allarme perderebbe noi ed anche il mio Bruno e non dobbiamo commettere una tale imprudenza. — [p. 186 modifica]

Aizzando i cavalli per tema di non sapersi frenare, i due bianchi sorpassarono ben presto quella colonna, ridiscendendo nella pianura, in mezzo alle cui erbe si scorgevano dei piccoli villaggi.

Ma anche laggiù altri drappelli di soldati s’incontravano di frequente e quasi tutti avevano dei prigionieri. La guida però apriva dovunque il passo alla carovana, pronunciando semplicemente il temuto nome di Geletè.

Alla sera i viaggiatori fecero alto a Tado, un villaggio popoloso che si trova a dieci miglia dal fiume Koufo, all’intorno si erano accampate altre bande armate, le quali fecero tutta la notte un baccano infernale, impedendo ai due bianchi di chiudere gli occhi. Urlavano a squarciagola, bevevano grandi quantità di liquori per festeggiare il felice esito della loro triste spedizione, ma anche altercavano di frequente, adoperando le armi da fuoco.

Quando Alfredo ed i suoi compagni ripresero la marcia, numerosi cadaveri erano sparsi per gli accampamenti. Alcuni forse erano di schiavi, ma molti di soldati, uccisi durante quelle risse.

— Auff?... — esclamò Antao. — Ne ho abbastanza di queste canaglie e sarei contento di giungere a Kana senza la loro pericolosa compagnia. Finirò per perdere la calma e commettere qualche imprudenza.

— Saremmo costretti ad inerpicarci sugli altipiani attraverso a boscaglie pullulanti di serpenti, — rispose Urada, che cavalcava presso di loro, — mentre in breve possiamo giungere sulla via reale che è una delle più belle di tutto il paese e la più comoda.

— È vero, — disse Alfredo. — Ho udito parlare della bellezza della strada reale.

— Ma sarà piena di soldati, Alfredo.

— È probabile, ma cercheremo di lasciarceli dietro.

— Ed assisteremo ad altri orrori.

— Pur troppo, Antao, la prudenza però ci consiglia di chiudere gli occhi e di non intervenire. Quegli orrori si commettono per volere di Geletè, e non possiamo suscitare sospetti su di noi. Siamo ambasciatori e come tali dobbiamo conservare la più stretta neutralità. D’altronde prima del tramonto giungeremo forse a Kana, è vero Urada?... [p. 187 modifica]

— Sì, padrone, — rispose la giovane negra, — e là potrò offrirvi un comodo alloggio nella casa di mio padre.

— Sei di Kana, adunque?...

— Sì, padrone.

— E tuo padre vive ancora?...

— Lo spero.

— Ma chi è tuo padre?...

— Un tempo era un cabecero addetto alla vigilanza delle tombe reali e che godeva la fiducia del re, ma intrighi di corte e gelosie d’altri aspiranti a quel posto importante, lo fecero cadere in disgrazia.

— Ah!... Tuo padre era un cabecero!... — esclamarono i due bianchi.

— Sì, — rispose Urada, con tristezza.

— Ma tu, figlia d’un capo, perchè sei diventata una semplice amazzone?... — chiese Alfredo, con sorpresa.

— Per calmare il re la cui collera poteva tornare fatale a mio padre. Le amazzoni del nostro paese non sono ragazze appartenenti a famiglie di bassa condizione, come da taluni si crede.

Si reclutano fra le fanciulle rimaste orfane, ma appartenenti alla classe dominante, fra le ragazze che per malvagità s’imputano di offese alla casa reale e che s’intende di punire coll’arruolamento e fra le figlie di coloro che sono caduti in disgrazia. Questo è il miglior modo per stornare le collere feroci di Geletè e salvare i genitori da una morte certa.

— È numeroso il corpo delle amazzoni?...

— Conta tremila ragazze, padrone.

— E formano una guardia destinata esclusivamente pel servizio del re?...

— Sì, ma guarda lassù, padrone, — disse in quell’istante Urada, indicandogli un attruppamento di punti biancastri, appollaiati sul margine d’un altipiano che s’alzava al di là del Koufo.

— Kana, forse?... — chiese Alfredo.

— Sì, la Città Santa, padrone, la mia città natìa, — rispose Urada, con una viva emozione.

— La rivedrai volontieri?

— Per mio padre.

— E poi ci lascerai, — disse Antao, con un tono di voce che aveva qualche cosa di triste. [p. 188 modifica]

— No, — disse la ragazza, con accento risoluto. — Urada non abbandonerà gli uomini bianchi, ai quali deve la vita e la libertà.

— Lasceresti il tuo paese senza rimpianti?... — chiese Alfredo.

— Sì, ma con mio padre. Il nostro paese è cattivo, dovunque si uccide, e mio padre un dì o l’altro potrebbe venire sacrificato come tanti altri caduti in disgrazia. Qui non si è sicuri di potere vivere ventiquattro ore senza tremare.

— Ebbene Urada, rimani con noi, — disse Antao. — Conto di acquistare anch’io sulla Costa d’Avorio una fattoria e tuo padre non avrà da lamentarsi di noi, è vero, Alfredo?...

— Sì, Antao, — rispose l’amico. — Ti abbiamo salvata la vita, Urada, e penseremo noi al tuo avvenire. —

La conversazione fu interrotta dall’incontro di nuove bande di guerrieri che conducevano lunghe colonne di schiavi incatenati e gran copia di bottino, consistente in un numero considerevole di buoi, destinati forse al pari di quei disgraziati prigionieri, a cadere sotto i coltelli dei sacrificatori nelle feste dei costumi.

La guida, come già altre volte, aprì il passo ai due ambasciatori, quantunque quei feroci soldati avessero già preparate le armi per gettarsi sulla carovana, malgrado gli ombrelli protettori.

Alfredo ed Antao nauseati dal modo con cui quei bruti percuotevano a sangue i prigionieri per farli marciare rapidamente, quantunque quei miseri fossero enormemente carichi di grandi panieri ricolmi di provvigioni rubate nei loro villaggi, spinsero i cavalli al galoppo per lasciarsi alle spalle quelle bande di predoni.

Alle 10 del mattino, dopo una marcia rapidissima di quattro ore, la carovana, che aveva già passato a guado il Koufo, il quale è uno dei più importanti fiumi del Dahomey, incrociava la strada reale che dalla capitale del regno mette a capo a Widah sulla costa.

Questa strada, che ha una lunghezza di circa ottanta miglia è una delle migliori, ombreggiata per un grande tratto da splendidi palmizi, ma è anche una delle più faticose, essendo aperta fra terreni composti, specialmente sugli altipiani, d’una specie di minerale granuloso che stanca assai uomini ed animali. [p. 189 modifica]

Alfredo, che non voleva affaticare troppo i cavalli, i quali potevano diventare preziosissimi nel caso che il colpo di mano ideato non dovesse riuscire e che una rapida fuga diventasse necessaria per salvare la vita di tutti, concesse un riposo di parecchie ore.

Alle tre pomeridiane, la carovana ripartiva, volendo giungere a Kana prima del tramonto, avendo detto Urada che era vietato l’ingresso nella città dopo calate le tenebre.

Attraversata la palude di Co, allora asciutta, la guida si diresse verso Vodu, altro grosso villaggio, poi verso le sei della sera faceva salire ai cavalieri l’ultimo altipiano, su cui si eleva la Città Santa.

Un’ora più tardi, quando il sole cominciava a tramontare dietro gli altipiani dell’ovest, Alfredo ed i suoi compagni entravano nella città natìa dell’amazzone.