La Sovrana del Campo d'Oro/XXX

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XXX - Nelle mani di mastro Simone

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XXIX XXXI
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CAPITOLO XXX


Nele mani di mastro Simone


Mastro Simone, sempre più risoluto a strappare al suo fortunato rivale la bellissima fanciulla dai capelli d’oro, che gli aveva accesa nel cuore una passione furiosa, non si era scoraggiato per la cattiva riuscita dell’assalto al treno.

Certo di poter conquistare Annie, presto o tardi, aveva definitivamente assoldati i vaqueros per raggiungere Harris nel Gran Cañon e dargli battaglia.

Rimasto indietro, dopo l’inseguimento dei soldati giunti col treno di soccorso, si era diretto con la sua banda a Kramer, e quivi aveva fatto allestire un treno speciale per raggiungere i fuggitivi e possibilmente sorpassarli, poichè voleva tendere loro un altro agguato nella prateria.

Come abbiamo veduto, era giunto a Peach Springs, con un vantaggio di quasi dodici ore sul suo rivale, e il suo primo pensiero era stato quello di accaparrare tutte le corriere, per impedire ad Harris di farsi condurre nel Gran Cañon.

Riuscito infruttuoso anche quel piano, per l’onestà di Koltar, il vecchio conduttore della corriera di California, mastro Simone si era slanciato decisamente nella prateria, nella speranza di arrestare i viaggiatori, prima che giungessero all’abisso.

Invece aveva corso il pericolo di morire, assieme con i suoi banditi, fra le fiamme, e solo le gambe dei mustani, cavalli scelti con grande cura, lo avevano sottratto al fuoco ed ai tomahawks degli indiani.

Il negro, però, aveva avuto fortuna in quella fulminea ritirata, perchè era riuscito a ritrovare i fuggiaschi, di cui aveva perdute le tracce, sulle rive del fiume dove Buffalo Bill si era accampato. La presenza dei cow-boys, quasi uguali per numero ai suoi vaqueros, e sopratutto la fama che godeva il loro capo, lo aveva trattenuto dall’assalirli.

Imboscati i suoi uomini non lungi dal fiume, il negro, guidato da Josè Mirim, li aveva seguiti fino sul margine del Gran Cañon, sorprendendoli e assediandoli nel cliff.

L’improvviso arrivo degli Apaches aveva sventati un’altra volta i suoi disegni, tuttavia quel sacripante non si era ancora dato per vinto. Dotato d’una tenacia straordinaria e fidando nella propria astuzia e nella propria forza, non disperava dell’esito finale della lotta. Poichè non aveva forze sufficienti per affrontare gli Apaches e strappare [p. 220 modifica]loro Annie, gli era balenata l’idea di cercare Will Roock e di unirsi a lui per condurre a termine l’impresa.

Conoscendo lo scopo che guidava Annie ed i suoi compagni nel Gran Cañon, prima di abbandonare Peach Springs aveva raccolte preziose informazioni sul bandito e sul luogo dove probabilmente si teneva nascosto, aiutato in questo dai vaqueros che avevano non poche che conoscenze in quella stazione. Gli era così stata indicata la miniera di Waterpoket, la sola — come aveva riferito un minatore che era stato compagno di Will, — che potesse servire di sicuro asilo anche contro gl’indiani.

— Fra banditi, — aveva pensato il negro, — non sarà difficile intendersi, ed il denaro non ci manca.

Josè Mirim aveva approvato pienamente quel progetto e la banda si era messa risolutamente in marcia, dopo aver fatto saltare il masso che otturava l’entrata del cliff, non già con l’intenzione di lasciare liberi i cow-boys del colonnello, bensì col sinistro scopo di sorprenderli e di fucilarli, per sbarazzarsi d’un nemico pericoloso.

Quest’idea venne però loro troppo tardi, quando già avevano iniziata la discesa nel Gran Cañon: risaliti sino al cliff e fatta saltare la rupe che l’ostruiva, l’avevano trovato ormai vuoto.

Buffalo Bill ed i suoi compagni se n’erano già andati.

Il Re dei Granchi non se n’era affatto inquietato, credendo in buona fede che si fossero rifugiati a Peach Springs, per non cadere nelle mani degl’indiani, ed aveva ripresa la marcia verso il fondo del Gran Cañon, accampandosi alla base della grande muraglia.

Come abbiamo veduto, quella fermata, che Buck non aveva prevista, aveva dato nelle mani dei banditi i due poveri californiani.

Pochi minuti dopo, il Re dei Granchi e la sua banda si mettevano in marcia verso il centro del Gran Cañon, conducendo con se i prigionieri, solidamente legati ai due più robusti mustani, in una posizione così dolorosa da strappare grida furiose al poco paziente scrivano.

Josè Mirim, come aveva promesso, li aveva legati all’indiana, ossia con le gambe strette al collo dei cavalli ed il dorso appoggiata sulla schiena degli animali, in modo che la testa appoggiava sulla coda delle cavalcature.

Le alte selle messicane erano però state levate e sostituite con una gualdrappa di pelle di montone, per non rompere le costole o la spina dorsale ai due prigionieri.

Coricati a quel modo, col viso esposto ai cocenti raggi del sole, che cadevano a piombo nel baratro, non dovevano certo trovarsi a loro agio e, come abbiamo detto, lo dimostravano le imprecazioni dello scrivano, il quale si sentiva stiracchiare le membra in tutti sensi, ad ogni passo del mustano. [p. 221 modifica]

Harris, più paziente, taceva, quantunque non si trovasse meglio del suo disgraziato vicino.

Fortunatamente la banda giunse ben presto ad una foresta di querce e vi si addentrò: l’ombra era fitta sotto quelle piante, e i prigionieri poterono così riaprire gli occhi. La marcia attraverso la foresta durò quattro ore, poi la truppa si fermò a breve distanza dalla riva del Colorado, in mezzo ad una piccola radura circondata da altissimi pini.

I due prigionieri furono staccati dai cavalli, ma appena messi a terra, caddero, mandando grida di dolore.

— Cane d’un negro! — urlò Blunt. — Ho le ossa spezzate!

— Non avevo una carrozza da mettere a vostra disposizione, rispose tranquillamente il Re dei Granchi. — Un’altra volta provvederò.

— Tu sei peggio d’un Pelle-Rossa, — disse Harris.

— Sono un povero negro, signor ingegnere, e mio padre era un selvaggio della costa d’Angola, che non aveva mai potuto godere dei benefici della civiltà bianca.

— No, era un mandrillo, uno scimpanzè, un orang-utan, tuo padre! — gridò Blunt.

— Che fracassava una testa con un solo pugno, però, — rispose Simone, ridendo. — Josè, legate questi uomini al tronco d’un albero.

— Ancora! — esclamò Blunt, digrignando i denti.

— Vorreste che vi lasciassi scappare? Oh! Per quanto io sia d figlio di un selvaggio, non sarò così sciocco.

— Crepa, negro dannato!

— Non prendetevela tanto calda, mastro Blunt, o mi vedrò costretto a mettervi un bavaglio, cosa non molto piacevole con quest’aria soffocante.

Quattro vaqueros, ad un cenno di Josè, afferrarono i prigionieri, li sollevarono di peso e li fecero sedere ai piedi d’una quercia, legandoli al tronco.

— Ora discorriamo, — disse il Re dei Granchi, mettendosi di fronte a loro, mentre i suoi banditi toglievano le selle ai cavalli ed accendevano il fuoco per arrostire il bicornie ucciso da Buck Taylor, che non si erano dimenticati di raccogliere.

— Spiegatemi che cosa volete da noi, — disse Harris, — e non dimenticate che vi sono delle leggi in America per la protezione dei cittadini.

— Delle vostre leggi io me ne infischio, — disse mastro Simone. — Vengano ad applicarle qui, in fondo al Gran Cañon, se ne sono capaci, i vostri magistrati. [p. 222 modifica]

— Quest’uomo ragiona come un selvaggio, signor Harris, — disse Blunt. — Vediamo fin dove giungerà.

— Lo saprete più tardi.

— Ah! Già, mi scordavo che aveva giurato di scorticarmi. Una vera vendetta d’antropofago.

— Mastro Blunt! — gridò il Re dei Gracchi, lanciandogli una occhiata torva. — Comincerò col tagliarvi la lingua, innanzi tutto, se non la finite.

— Non è ancora lo scorticamento.

— Basta!

— Tacete, Blunt, — disse Harris. — Spiegatevi, signor Re dei Granchi. Che cosa volete da noi?

— Sapere dove gli Apaches hanno condotta miss Clayfert.

— Vi preme sempre? — chiese l’ingegnere, ironicamente.

— Ho giurato che quella fanciulla diverrà la Regina dei Granchi, e non indietreggerò dinanzi a nessun ostacolo, pur di riuscirvi.

— Vatti a cercare una negra o meglio ancora una scimmia, — disse Blunt.

Simone non rilevò la frase.

— Mi capite, signor Harris, — continuò, =— quella fanciulla mi ha bruciato il cuore e bisogna che diventi mia.

— Ed io?

— Voi? Eh? Ve ne sono ben altre fanciulle bianche a San Francisco.

— E anche delle brutte negre degne di te, — disse Blunt.

Mastro Simone alzò la destra in atto di minaccia, mostrando il suo pugno enorme.

— Mia! — ripetè digrignando i denti. — Mia, dovessi stritolarvi tutti!

— Andatevela a prendere dunque fra gli Apaches, — disse l’ingegnere.

— E noi poi ve la riprenderemo, — aggiunse l’incorreggibile scrivano.

— Ditemi dov’è, intanto. Dovreste anche voi preferire che si trovasse in mia mano piuttosto che fra quei feroci guerrieri, i quali potrebbero farle subire la tortura del palo.

— Si trova nel Gran Cañon, — disse Blunt.

— Anche i sassi lo sanno, — rispose Simone. — Il Gran Cañon è immenso.

— Non sappiamo nemmeno noi il luogo esatto in cui si trovano gli Apaches, — disse Harris. — Noi siamo fuggiti prima di giungere al loro atepetl.

— Mentite! — gridò il Re dei Granchi. [p. 223 modifica]

— Se non fossimo scappati prima, a quest’ora non saremmo più vivi.

— È vero, mastro Simone, — disse Josè Mirim, che assisteva all’interrogatorio. — Gli Apaches non risparmiano mai i prigionieri di guerra e, se questi uomini fossero stati condotti all’atepetl, non sarebbero sfuggiti alla tortura del palo.

— Hai udito, mandrillo? — gridò Blunt.

Il Re dei Granchi questa volta scattò in piedi come, una belva infuriata, e alzò il pugno sullo scrivano, urlando:

— Ti accoppo!

Josè Mirim, a cui forse non spiaceva la mordacità e l’audacia del giovane, afferrò il polso del negro, dicendogli:

— Eh, lasciatelo dire. Si sfoga come può e la lingua non ha mai rotte le ossa ad alcuno.

— Più tardi lo scorticherò.

— Sì, ma non ora. Questi uomini possono diventare preziosi. Pazientate, mastro Simone.

— Non irritatelo più, Blunt, — diceva frattanto Harris allo scrivano, che stava per aprire la bocca, per lanciare probabilmente qualche altra insolenza. — Siamo nelle sue mani.

— No, nelle sue zampe, — corresse Blunt.

— Basta, amico.

Il Re dei Granchi, dopo essersi sfogato con una filza di bestemmie e di minacce da far rabbrividire, riprese, rivolgendosi ad Harris: — Chi era l’uomo che vi guidava, e che uccise il montone di montagna?

— Un pastore che abbiamo incontrato sull’orlo del Gran Cañon, e che fuggiva dinanzi ai Navajoes, i quali gli avevano distrutto il rancho.

— Non era un cow-boy del colonnello Cody?

— Di Buffalo Bill? No.

— Volete ingannarmi?

— Non ne vedo il motivo.

— Perchè allora è fuggito, vedendoci?

— Sfido io, lo avete subito preso a fucilate e lui credette di aver a che fare con banditi di Will Rook!

— Lo conosceva quell’uomo?

— Sembra.

— Non vi ha detto dove si trovava?

— No.

— Ma lo sappiamo noi. Per ora basta. Riprenderemo più tardi questa conversazione.

— Tanto più che il montone è arrostito a puntino, e noi abbiamo una fame tremenda, — disse Blunt. [p. 224 modifica]

— Fiuta il profumo, tu, — rispose il Re dei Granchi, mostrandogli i pugni.

— Allora mangerai un uomo ben magro, se non mi nutrisci.

— Mi credi un antropofago?

— Chi lo sa?

Josè Mirim tagliò corto, conducendo il negro presso il fuoco dove si trovavano radunati i suoi banditi.

Il montone, cucinato intero, era già stato fatto a pezzi, ed esalava un profumo così appetitoso da far venire l’acquolina in bocca allo scrivano.

— Che cosa fare ora, Josè? — chiese mastro Simone, che pareva assai malcontento dell’esito di quel colloquio. — Consigliatemi.

— Andiamo a cercare Will Roock.

— Per strappagli il padre della fanciulla?

— Più tardi, mio caro signore, — rispose il messicano. — Offriamogli innanzi tutto di unirsi a noi per liberare miss Clayfert, premettendogli un grosso premio. Centomila dollari, per esempio.

Il Re dei Granchi fece una smorfia.

— Poi, per riscattare il padre e la figlia ne vorrà duecento o trecentomila.

— Chi dice di mantenere la promessa? Siamo anche noi in buon numero, ed al momento opportuno vi sbarazzeremo di quei furfanti, senza che dobbiate sborsare un dollaro.

— Li intascherete voi, cioè.

— Noi siamo onesti e ci accontenteremo dei cinquantamila che ci avete promessi.

— Che io pagherò senza fiatare pur di avere la fanciulla, anche senza il padre. Anzi, quello mi sarebbe di non minor imbarazzo di questi due imbecilli, che si sono lasciati cogliere così stupidamente. Anzi, che cosa ne faremo di loro?

— Quando un testimone può essere pericoloso si sopprime, — disse il messicano, freddamente. — Ho udito raccontare che la miniera di Waterpoket ha immense gallerie che s’inabissano nelle viscere della terra. Se ne fa crollare una con una cartuccia di dinamite e... m’intendete.

— Avrei preferito scorticarne qualcuno, quel Blunt che si fa beffe di me per esempio.

— Potrete ritirare più tardi la sua pelle, se vi farà piacere.

— Don Josè, siamo due gran birbanti, — disse Simone, ridendo. — Vi è qualcuno fra i vostri che sa dove si trova la miniera, vero?

— Sì, Diego, il salteador.

— È lontana?

— Si trova dall’altra parte del fiume. [p. 225 modifica]

— Se mandassimo lui ad aprire le trattative, ammesso che quel Roook si nasconda là dentro?

— Tale era anche la mia intenzione.

— Potrà attraversare il fiume col suo cavallo?

— Il Colorado non manca di guadi.

— Appena finita la colazione, parta subito. Cinquanta dollari se riesce a trovare quel bandito.

— Andrà fino all’estremità settentrionale del Gran Cañon pur di scovarlo. Una simile somma non si guadagna tutti i giorni.

— Allora vada senza indugio. Noi aspetteremo qui il suo ritorno.

Appena terminata la colazione, il salteador, ricevute le istruzioni necessarie, saltava sul suo cavallo, allontanandosi al galoppo.

— Vi è certo qualche novità, signore, — disse Blunt ad Harris, vedendo il vaquero dirigersi verso il fiume.

— Lasciateli fare, — rispose l’ingegnere.

— Sperate che ci risparmino?

— Non oseranno sopprimerci.

— Eppure non mi fido di quel brutto mandrillo, signor Harris. Ci guadagnerebbe mandandoci all’altro mondo. Che cosa potrebbe farne di noi?

— Ci spillerà dei denari per pagare i suoi banditi.

— Che ci faccia pagare una taglia per lasciarci liberi?

— Lo sospetto, Blunt. Se non fosse così, a quest’ora ci avrebbe ammazzati.

— Preferirei scappare senza lasciargli un dollaro.

— Avete dimenticato Buck Taylor?

— Ah! È vero! C’è quel bravo cow-boy.

— E dietro di lui il colonnello. Quelle persone non ci abbandoneranno. Ne avete avuta una prova.

— Non disperiamo, — concluse lo scrivano. — Ma se riusciranno a liberarci, parola d’onore che quel mandrillo me la pagherà cara.

La giornata trascorse senza che il Re dei Granchi nè Josè Mirim li sottoponessero ad altri interrogatori. Alla sera i prigionieri ricevettero dell’acqua e un pezzo d’arrosto di montone con una pagnotta di mais. Scese le tenebre, i banditi improvvisarono con rami e foglie alcune tettoie e accesero due o tre fuochi per tenere lontane le belve, che non sono rare nel Gran Cañon, specialmente sulle rive del Colorado; poi due di loro si coricarono presso i prigionieri per prevenire qualsiasi tentativo di fuga.

Anche il giorno seguente nulla di straordinario accadde nell’accampamento. Il salteador non si era ancora fatto vivo.

Già il Re dei Granchi e Josè cominciavano ad essere inquieti. [p. 226 modifica]temendo che gli fosse toccata una disgrazia o che fosse stato catturato dagli indiani, quando, poco dopo il tramonto, Diego comparve col cavallo coperto di schiuma e mezzo rattrappito. Mastro Simone e Josè, che stavano per coricarsi, udendo l’allarme dato dagli uomini di guardia e la risposta del salteador, si erano precipitati fuori.

— Cominciavamo a dubitare di te, — gli disse il Re dei Granchi, traendolo sotto la tettoia. — Sei riuscito? L’hai trovato?

— Sì: il minatore di Peach Springs non si era ingannato. Will Roock si nasconde nella miniera di Waterpoket.

— Che uomo è?

— Una specie d’orso, alto e grosso come voi.

— Ha degli uomini con se? — chiese Josè.

— Sette banditi.

— Come ti ha accolto?

— Con diffidenza dapprima, anzi per un momento ho temuto che mi facesse precipitare in un pozzo della miniera.

— E poi?

— Quando ha udito il tuo nome, capo, è diventato meno sospettoso.

— Mi conosce? — chiese Josè stupito.

— Lui no, bensì uno dei suoi uomini, che mi disse d’aver lavorato con te molti anni or sono.

— Hai veduto il padre di miss Clayfert?

— No.

— È sempre con loro, però?

— Sì, anzi quei banditi sono furibondi, perchè non vedono giungere il prezzo del riscatto, e minacciano di ucciderlo, poichè sono stanchi di starsene rinchiusi nella miniera e temono di venire sorpresi dagl’indiani, — disse il salteador.

— Ha accettato le mie proposte? — chiese Simone.

— Prima di impegnarsi desidera vedervi.

— Vi andremo, — disse Josè. — Noi siamo in numero bastante per imporci a loro.

— Acconsente ad aiutarci? — chiese Simone.

— Purchè voi gli versiate in mano almeno la metà della somma pattuita. Mi ha detto che sa dove gli Apaches hanno il loro atepetl, e che la liberazione della ragazza non sarà così difficile come noi supponiamo.

— Dormiamo, e domani all’alba attraverseremo il Colorado, — disse Simone, stropicciandosi allegramente le mani. — Gli affari cominciano finalmente a procedere bene. Vedremo se miss Annie, quando saprà che a me solo deve la liberazione di suo padre e che il suo fidanzato è misteriosamente scomparso, si rifiuterà di diventare la Regina dei Granchi. [p. 227 modifica]

Si distese sulla coperta a fianco di Josè, e non tardò a russare placidamente.

Gli usignuoli di Virginia cominciavano appena a lanciare nello spazio le loro note dolcissime, e già i negri ed i vaqueros erano in sella. Blunt e Harris non erano stati legati nel. modo barbaro del giorno innanzi, perchè non corressero il pericolo di rimanere affogati nella traversata del Colorado. Cavalcavano liberamente, con le sole braccia legate dietro al dorso, guidati da due vaqueros che tenevano per le briglie i cavalli.

Il salteador, che si era messo alla testa, guidò la banda ad un guado dove l’acqua era profonda non più di un metro e mezzo; la corrente, poichè il fiume era in quel punto larghissimo e non aveva pendenza, era debolissima.

Risalita la riva opposta si trovarono fra terreni aridi, dove a stento cresceva qualche cactus, fra enormi massi caduti forse dai margini dell’immenso abisso.

Quantunque il sole non fosse ancora sorto, regnava su quelle terre un calore intenso. Pareva che dalle fenditure del suolo uscissero vampate terribili. Quella zona deserta, fortunatamente, non aveva che una estensione limitatissima, e ben presto i cavalieri raggiunsero un bosco di pini giganteschi, sotto cui regnava una oscurità profonda.

— Siamo lontani dalla miniera? — chiese il Re dei Granchi, che cavalcava a fianco del salteador.

— No, signore. Fra un paio d’ore vi giungeremo.

— E perchè hai impiegato tanto tempo, tu?

— Ho dovuto cercarla, signore, ed è stata una vera fortuna che io l’abbia trovata.

— Hai veduto indiani da queste parti?

— Nessuno, anzi ho saputo dagli uomini di Will Roock che in questo momento le orde dei Navajoes e degli Apaches stanno scorazzando il Marble Cañon.

— Non dobbiamo quindi temere il loro incontro?

— No, per ora.

Attraversata la foresta, che era vastissima, trovarono un’altra zona arida, tutta spaccatura e burroni: qua e là si ergevano rupi isolate, nere come se fossero composte di carbon fossile.

Pochi minuti prima del mezzodì, giungevano in fondo ad una forra, dai margini tagliati quasi a picco, ingombra di sterpi e di macchioni di cactus spinosi.

All’estremità si scorgevano alcune tettoie in rovina ed un pezzo di camino che si levava fra un cumulo immenso di macerie.

— La miniera, — disse il salteador.

Nel medesimo istante una voce rauca gridò, con tono minaccioso:

— Chi vive? Rispondete o faccio fuoco!