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La Tebaide/Libro decimo

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Libro decimo

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Libro nono Libro undecimo


LE INSIDIE NOTTURNE.
OPLEO E DIAMANTE.
CAPANEO FULMINATO.


 
Sorse l’umida notte, e il Sole ascose
innanzi tempo nell’esperie porte
per comando di Giove. Ei già non sente
delle tebane o delle argive schiere
5pietà; ma ben gli duol di tante genti,
senza colpa e straniere, il grave scempio.
Per molto sangue apparve allor del campo
orribil la sembianza, e l’armi sparse
giaceano e i buon destrier, su cui superbi
10andâr poc’anzi, e senza rogo e tomba
abbandonati i corpi e i membri incisi.
Colle lacere insegne e senza pompa
si dividon le schiere, e son le porte,
che fur strette a l’uscir, larghe al ritorno.
15D’ambe le parti è lutto, e pure in Tebe
senton conforto in rimirar fra i Greci
gir quattro squadre erranti e senza duci,
di navi in guisa in burrascoso mare
prive de’ lor nocchieri, e abbandonate
20a’ Numi, a la fortuna, a le tempeste.
Quindi di non tornar entro le mura
prendon consiglio, ed osservar che i Greci,
contenti solo di salvar le vite,
non fuggano notturni entro Micene.
25Si dà il nome pel campo, e son le scolte
per ordine disposte ed a vicenda.
Fu tratto a sorte in quella oscura notte
per capitan Megete, e a lui s’aggiunse
spontaneo Lico; al comandar de’ duci
30tosto s’apprestan l’armi e i cibi e i fuochi;
e il Re, mentr’essi van, vie più gl’infiamma:
        - Vincitori de’ Greci (il nuovo giorno
non è lontano, e non saranno eterne
queste, che li salvâr, cieche tenébre),
35accrescete l’ardire, e i forti petti
mostrate eguali al gran favor de’ Numi.
Già la gloria di Lerna è in tutto spenta,
e caddero i migliori: entro l’Inferno
della sua immanità porta le pene
40il barbaro Tideo: del greco vate
l’ombra improvvisa fe’ stupir la morte:
gonfio è l’Ismeno delle spoglie opime
d’Ippomedonte, e l’arcade garzone
degno non è che fra i trofei si conti.
45Stan nelle destre i premi: il campo ostile
più non apparirà fiero e temuto
per sette aurei cimieri e sette duci.
Forse d’Adrasto la cadente etade
può ritenerci, o il mio fratel peggiore
50nella sua giovanezza, o pur l’insano
sconsigliato furor di Capaneo?
Che più dunque si tarda? Ite, cingete
di vigilie e di fuochi i vinti Argivi;
nullo di essi timor: voi custodite
55le vostre prede e le ricchezze vostre.
Con tali detti i cuor feroci accende,
e le fatiche a rinnovar gli spinge.
Di polve aspersi, di sudor, di sangue
molli e deformi ancor, tornano indietro.
60Degli amici gl’incontri e le parole
soffrono appena, e le consorti e i figli
respingono da i baci e da gli amplessi.
Divisi in turme, d’inimici fuochi
cingon per ogni parte il greco vallo,
65a fronte, a tergo, a l’uno e a l’altro fianco.
        Così rabbiosi ed affamati lupi,
che invan le prede ricercâr ne’ boschi,
dal digiun spinti a le rinchiuse stalle
vengon fra l’ombre in isquadron ristretti.
70Il belar degli agnelli e il pingue odore,
che fuori n’esce, le narici pasce
di vana speme; e poi ch’altro non ponno,
provan contro le porte e l’unghia e il dente.
        Ma d’altra parte delle donne d’Argo
75la supplichevol turba a i patrii altari
prostrata implora da Giunone aita
ed il ritorno de’ consorti amati.
Tergon le pinte soglie e i freddi marmi
col crin disciolto, ed adorare i Numi
80insegnano a’ lor figli. Il dì si spense,
ma non cessaro i voti, e nella notte
vegliâr nel tempio e rinnovaro i fuochi.
A la pudica Diva offriro in dono,
degno di lei, regio purpureo manto,
85di cui mano infeconda, o dal marito
donna disgiunta non tessè il lavoro:
in varie guise ricamato e pinto
l’ostro risplende, e folgoreggia l’oro.
Ivi ella stessa non sposata ancora,
90ma promessa al Tonante, ed inesperta
di talami e di nozze, e che ben tosto
sta per deporre di sorella il nome,
cogli occhi bassi semplicetta e schiva
liba di Giove pargoletto i baci,
95da’ suoi furtivi amor non anche offesa.
Di cotal veste il simulacro santo
ornâr le donne, e fra i singulti e i pianti
dal profondo del cor così pregaro:
        - Mira, del ciel Regina, i tetti, e mira
100della tebana meretrice il nido.
Struggi l’infame tomba, e contro Tebe
scaglia (chè ben lo puoi) fulmin novello. -
Or che farà? Sa ben che a’ Greci suoi
sono i fati contrari e Giove irato,
105nè vorrebbe però mostrarsi ingrata
a tante preci, a così ricchi doni.
Ma il tempo a lei l’occasïone appresta
di memorabil fatto: essa da l’alto
vede le chiuse mura, e il vallo argivo
110di vigilie e di fuochi intorno cinto.
Punta da sdegno inorridì il sembiante,
e scosse il crine e il venerabil serto.
Non di tant’ira ardè, quando d’Alcide
Alcmena vide avere il sen fecondo;
115nè quando, suo malgrado, i due gemelli
innalzò Giove a popolar le stelle.
Dunque risolve di mandare a morte
da intempestivo sonno i Tirii oppressi.
Iride chiama, e degli usati raggi
120fa che si cinga, e quanto occor le impone.
Ubbidì a’ cenni la leggiadra Dea,
e giù dal cielo sì strisciò per l’arco.
        Colà dove la notte alberga e giace
fra caligini eterne, ove han soggiorno
125gli orïentali Etiopi, s’innalza
un pigro e a gli astri impenetrabil bosco.
Sotto fra cave rupi un antro s’apre
nel vuoto monte. All’ozïoso Sonno
ivi la reggia ed il sicuro albergo
130diè la stanca natura; in su le soglie
stan la Quïete opaca, e il lento Oblio,
e la languida Ignavia e non mai desta:
gli Ozi e i Silenzi senza batter penne
siedon muti nell’atrio, e lungi scacciano
135i rumorosi Venti, e foglia in ramo
non lascian che si scuota o che augel canti.
Ivi del mar, benchè per tutti i lidi
romoreggi d’intorno; ivi del cielo
non si sente il fragor: lo stesso fiume,
140che va scorrendo le vicine valli,
vicino all’antro, infra gli scogli e i sassi
il mormorio sospende: i neri armenti
a terra stesi, ed ogni gregge giace;
languiscono d’intorno i nuovi fiori,
145ed un terreo vapor l’erbette aggrava.
Egli riposa sopra molli coltri,
scarco di cure, nel muscoso speco
di sonnacchiosi fior tutto coperto:
gli trasudan le vesti, e il corpo pigro
150scalda le piume; un vapor nero esala
da l’anelante bocca; il crin sostenta,
da la sinistra tempia in giù cadente,
con una mano; abbandonato il corno
cade da l’altra; misti a’ falsi i veri,
155a’ tristi i lieti stangli intorno i Sogni
di varie innumerabili sembianze,
tenebroso corteggio della Notte:
sono a guisa di pecchie a’ travi affissi,
o su le porte, o stanno al suol distesi.
160Pallida incerta luce intorno a l’antro
moribonda s’aggira, e moribonde
son le lucerne, che al primiero sonno
con tremolante luce invitan gli occhi.
Da le cerulee sfere in questa grotta
165scese la vaga Dea fregiata e pinta
di ben mille colori: al suo passaggio
si rischiarano i boschi, e si rallegra
l’ombrosa Tempe: il sonnacchioso albergo
da’ rai percosso de’ lucenti globi
170dal sopor si risveglia e si riscuote.
Non però si risente il pigro Sonno
a la luce, al rumore ed a la voce,
ma nello stesso modo e russa e giace:
finchè con tutti i rai nelle pupille
175oppresse e gravi lo ferì la Dea:
indi in tal guisa a favellar gli prese:
        - O Sonno, o placidissimo fra i Numi,
la de’ nembi regina e produttrice
Giunone a te mi manda, e vuol che gli occhi
180delli sidonii duci e della fiera
gente di Cadmo in gran letargo opprima:
dell’empia gente che, superba e gonfia
dell’esterno trionfo, il vallo argivo
osserva e cinge, e le tue leggi infrange;
185non ricusar di tanta Diva i preghi:
rari son questi onori, e ben tu puoi
per lei sperar renderti amico Giove. -
        Così dice, e lo sgrida, e perch’ei senta,
tre volte e quattro gli percuote il petto.
190Egli a’ comandi, sonnacchioso e ottuso,
solo col capo d’ubbidir fa cenno.
Iride allor da quell’oscura grotta
esce aggravata da’ vapori, e i rai
umidi e quasi spenti accende al giorno.
195Il Sonno intanto accelerando i passi,
e delle tempie dibattendo i vanni,
fatto del manto un seno, entro v’accoglie
le fredde nebbie dell’ombroso cielo;
poi taciturno va per l’aria a volo,
200e già tutto sovrasta a i tirii campi.
Al grave respirare, al pigro fiato
cadono al suol distesi augelli e fere
e greggi e armenti, e ovunque ei gira il volo,
languido nel suo fondo si ritira
205il mar da scogli, ed ha co’ venti pace:
van più lente le nubi, e le alte cime
piegan le selve, e fur veduti a terra
cader molti astri dal sopito cielo.
A l’improvviso orror si accorse il campo
210dell’arrivo del Nume, e i gridi e i fremiti
del vulgo militare a poco a poco
andâr cessando, e si abbassâr le voci.
Ma poi che tutto si posò su loro
coll’umid’ale, e che distese l’ombre
215non mai più dense nelle aonie tende,
si aggravâr gli occhi, e s’inchinaro i colli,
e restâr tronche le parole a mezzo;
indi gli scudi rilucenti e i pili
cadder di mano, e sovra il petto i capi:
220e già tutto è silenzio, e il campo tace:
più non veggonsi in piedi i buon destrieri,
e un cenere improvviso i fuochi estingue.
        Ma sovra i mesti e timorosi Greci
tanta quïete non diffuse il Sonno;
225e la forza piacevole del Nume,
per la notte vagante, i nembi oscuri
allontanò da’ padiglioni afflitti.
Stan d’ogni parte in arme, ed hanno a sdegno
l’indegna notte e i vincitor superbi.
230Quando Tiodamante, il petto invaso
e da’ Numi agitato, ecco repente
s’accende d’un furor che il preme e sforza
con orribile strepito e tremendo
a rivelare i fati; o in lui Giunone
235tai sensi infonda, o al vate suo novello
benigno i detti ispiri e arrida Apollo.
Terribil nella voce e nell’aspetto
se ne va in mezzo al campo impazïente
del Nume, che l’invade e che ’l rïempie,
240di cui non è capace il petto angusto.
Stimolato dal Dio suda ed anela,
e l’interno furor nel volto appare:
talora impallidisce, e talor tinge
d’incerto sangue le tremanti gote;
245travolge gli occhi, e l’agitato crine
misto a le bende gli flagella il capo.
        Tal dagli aditi orribili e tremendi
Cibele tragge il sanguinoso frige,
e delle braccia lacerate e incise
250le ferite nasconde: egli col pino
percuote il petto, e la sanguigna chioma
agita e scuote, e delle piaghe il duolo
disacerba col corso; i prati intorno
n’hanno terrore e il pino stesso asperso
255di sangue, ed i leon traggono il carro
con maggior fretta attoniti e confusi.
        Giunge egli intanto al venerando ostello,
ove stanno le insegne, e del concilio
nella sala più interna, ove dolente
260per tante stragi, ed i perigli estremi
esaminando, invan consulta Adrasto.
Siedono a lui d’intorno i nuovi duci
più congiunti a gli estinti, e gli alti scanni
vedovi fatti di sì grandi eroi
265occupan mesti, ed han dolor che a tanto
onor gli abbia innalzati un tanto danno.
        In cotal guisa se interrompe il corso,
morto il primo nocchier, vedova nave,
tosto prende il timon colui che in cura
270avea la prora o il fianco, e ne stupisce
lo stesso legno abbandonato, e tardi
ubbidiscono vele, arbori e sarte;
e il Nume tutelar non siede al fianco
dell’inesperto condottier novello.
275 Ma il vate intanto i dubbïosi Achivi
in questi detti a miglior spene accende:
        - Gli ordini venerabili de’ Numi
e i lor consigli vi portiamo, o duci:
nostre non son le voci: a voi favella
280quegli a cui mi donaste, e le cui bende,
vostra mercè, lui consentendo, io cingo.
Questa mandano a noi notte opportuna
a le grand’opre ed a le insidie i Numi;
la virtude c’invita, e da noi chiede
285la Fortuna le destre: in grave sonno
posa l’oste tebana; or vendicate
gli estinti regi e l’infelice giorno.
Su via l’armi rapite, e delle porte
i ritegni spezzate; in questa guisa
290appresterem degni sepolcri e roghi
a i corpi esangui de’ compagni uccisi.
Io certo vidi nell’esterna pugna,
quando più afflitte eran le cose e il tergo
davamo a’ vincitori, io vidi (e il giuro
295per i tripodi sacri, e per l’onore
del nuovo sacerdozio) a me d’intorno
volar con lieti vanni augei felici.
Ma certo ora ne son. Quale discese
sotterra Anfiarao, tale mi apparve
300fra ’l notturno silenzio. I destrier soli
eran tinti dall’ombre: io non vi narro
notturne larve e non racconto sogni.
Egli così mi disse: "Adunque invano
lascerai tu che i pigri Greci (rendi
305a me le bende e gli affidati Dei)
perdan cotanta notte? o di me indegno
degenerante successore! I voli
così apprendesti degli erranti augelli
e gli arcani degli astri? A che più tardi?
310Su vanne, e almen di me prendi vendetta".
Sì disse, e mi sembrò che a queste soglie
m’incalzasse coll’asta e con il carro.
Ubbidiscasi dunque a i Numi, e intanto
non fia d’uopo pugnar: nel sonno immersa
315giace la guerra, e incrudelir n’è dato:
ma chi vien meco? E chi sarà che sprezzi,
invitato da i Fati, in sì grand’opra
fregiare il nome suo d’eterna fama?
Ecco di nuovo i fausti augelli: io seguo
320il lieto augurio, ancor che ogni altro cessi,
e vado solo; ecco il suonar de’ freni
di nuovo sento, e il gran profeta io veggio. -
        Così gridando in gran tumulto mette
la notte e il campo, e già son tutti accesi
325(qual se un medesmo Dio tutti rïempia)
i maggior duci, e già son tutti mossi.
Voglion seguirlo e accomunar le sorti.
Trenta ei ne sceglie i più robusti e audaci,
nerbo e vigor del campo. A lui d’intorno
330fremono gli altri, e di restar negletti
recansi ad onta in ozio vile e lento:
altri la stirpe illustre, altri de’ suoi
rammenta i gesti; altri le proprie imprese.
Altri voglion che i nomi insiem confusi
335si commettano al caso, e chiedon l’urna.
        Quale il signor del generoso armento
colà di Foloe su l’eccelse cime,
a cui son nati al rifiorir dell’anno
i nuovi parti, e rinnovato il gregge,
340gode in mirarli, altri per ardue coste
gir saltellando, altri nuotar ne’ fiumi,
altri emulare i genitor correndo:
indi tranquillo in suo pensier rivolge
quale al giogo destini, e qual sul dorso
345vaglia a portare il cavaliero, e a l’armi
qual sia nato e a le trombe, e qual prometta
nell’arena acquistar le palme elee:
tal era allor fra i Greci il vecchio Adrasto,
nè già manca all’impresa, e così esclama:
350 - E donde in noi sì tardi e sì improvvisi
scendono questi Numi? E quali siete,
o Dei, che a riveder le afflitte cose
d’Argo tornate? È forse il nuovo ardire
una virtù infelice? O pure in noi
355ferve l’antico sangue, e ce l’ispira
degli avi nostri il generoso seme?
Io certo approvo, o giovani feroci,
vostro nobil tumulto e men compiaccio:
ma noi tentiam notturna insidïosa
360guerra, e convien che stiano i moti ascosi,
e può la turba discoprir l’inganno.
Conservate l’ardire: il nuovo giorno
vendicator si appressa; allor palesi
saranno l’armi, allora tutti andremo. -
365Con tali detti li raffrena e molce.
        Non altrimenti avvien, quando il gran padre
Eolo incatena imperïoso i venti,
ch’eran già pronti a por sossopra il mare,
nell’antro noto, e con il sasso chiude
370la porta e lor divieta ogn’altra strada.
        Sceglie allor per compagni a l’alta impresa
Tiodamante il gran figliuol di Alcide,
Agilleo, e il saggio Attorre: è questi esperto
nel facondo parlar; quegli presume
375essere per vigor eguale al padre.
Ciascun di lor dieci guerrieri ha seco,
turba a i Tebani orribile e fatale,
quando ancor stesser desti. Il vate intanto,
che di furtivo Marte al nuovo assalto
380sen va inesperto, le adorate frondi
di Apollo scioglie e le depone in grembo
del Re canuto, e il sacro onor gli affida
della sua fronte, e la corazza e l’elmo,
dono di Polinice, intorno cinge.
385Ma il fiero Capaneo, che prende a sdegno
usar le frodi ed ubbidire i Numi,
del pesante suo brando il fianco aggrava
al condottiero Attorre; ed Agilleo
l’armi cambiò con il feroce Nomi.
390Ed a che prò fra l’ombre incerte gli archi
e l’armi usar dell’immortale Alcide?
Ma perchè lo stridor dell’alte porte
lungi non si oda, da i ripari a salti
precipitaro, ond’era il campo cinto;
395nè molto andâr, che ritrovâr distesa
immensa preda. Ivi di morti in guisa,
o come prima da più brandi uccisi,
giacevano i Tebani. Il vate allora
fatto sicuro, ad alta voce esclama:
400 - Ite, o compagni, d’inesausta strage
ove il piacer vi alletta; ite, vi prego,
e siate eguali al gran favor de i numi:
eccovi tutte oppresse in vil letargo
le inimiche coorti. Oh nostro scorno!
405E questi osâr cinger l’argivo campo
d’assedio intorno? Essi tenere a freno
tanti invitti guerrieri? - Ei così dice,
e il ferro tragge fulminante, e il passa
sul moribondo stuol con man veloce.
410Chi può le stragi annoverar? Chi i nomi
rimembrar degli estinti? I terghi e i petti
senz’ordine trafigge, e dentro gli elmi
lascia rinchiusi i gemiti, e nel sangue
l’anime intorno erranti insiem confonde.
415Quegli, che giace sopra molle strato;
questi che tardi cedè al sonno, e cadde
sovra lo scudo, e male i dardi impugna;
altri distesi fra le tazze e l’armi,
altri inclinati su le targhe: come
420ciascuno aveva in feral sonno oppresso
l’infelice sopor, l’estrema notte;
tutti senza pietade ei manda a morte:
nè lungi è il Nume: Giuno, ignuda il braccio,
curva face sospende, ed il sentiero
425rischiara, e i cuori accende, e i corpi addita.
Tacito sente che la Dea gli assiste
il sacerdote, e il suo piacere occulta.
Ma già lenta è la man, già il ferro ottuso,
e vacillanti in tante stragi l’ire.
430 In cotal guisa fiera tigre ircana,
che ha fatto scempio de’ maggiori armenti,
poichè d’immenso sangue il ventre immane
ha già satollo, e le mascelle stanche,
e le macchie del vello immonde e guaste
435da la putrida strage; il suo trïonfo
contempla, e duolsi che mancò la fame.
Tal nell’aonio strazio il sacerdote
intorpidisce, e cento braccia e cento
mani di aver desia; già già gl’incresce
440perdere l’ire invano, e di già brama
che sorga l’inimico a giusta guerra.
Da l’altra parte li Tebani uccide
d’Ercole il figlio, e da quell’altra Attorre.
Ciascuna turba per sentier sanguigno
445segue il suo duce: son di sangue infette
l’erbe, e di sangue un rapido torrente
scuote le tende. Fuma il suolo intorno,
e l’anelar del sonno e della morte
si confondono insieme. Un sol tebano
450non v’ha che il volto innalzi, o ch’apra gli occhi,
cotanto il Sonno gli avea oppressi, e solo
loro apre in morte l’ecclissate luci.
Vedute avea cader l’estreme stelle,
per non vedere il dì, fra i giuochi e i suoni,
455inni cantando in su la cetra a Bacco
Alcmeno, allor che il collo alto sopore
gli fe’ cader su la sinistra spalla
e su la cetra il capo; Agilleo il fere
al petto, e la man punge unita al plettro:
460tremâr le dita, e fer suonar le corde.
Turba le mense un liquor tetro, e un rio
scorre di sangue, e misto al sangue il vino
torna a le prime tazze, a i primi vasi.
Giace abbracciato col fratel Tamiro,
465e il fiero Attor l’uccide. Il tergo fora
d’Eteclo coronato il crin di serti,
Tago; Danao d’un colpo il capo tronca
d’Ebro, che il fato non prevede: lieta
fugge la vita sotto l’ombre, e il duolo
470della morte non sente; in sul terreno
umido e freddo infra le ruote e il carro
giacea Palpeto, e i corridori suoi,
che dell’erbe natie si facean pasto,
spaventava russando: esala il volto
475un sucido sudor, e ferve e anela
suffocato nel vino il grave sonno:
ecco di lui, che giace, entro la gola
Tiodamante il ferro immerge; il sangue
il vino espelle, ed il russar gli tronca:
480forse presaga la quïete a lui
e Tebe e il vate avea mostrato in sogno.
        La quarta parte del notturno corso
restava ancora, allor che di rugiade
il cielo i campi irrora, e molte stelle
485perdono il lume, e da più ardente carro
il carro di Boote in fuga è posto.
Nè più che far lor rimaneva; quando
il saggio Attorre al sacerdote vôlto:
- Deh basti (disse) l’insperata gioia
490al greco campo; nè pur un da morte
scampò, cred’io, fra tanta gente; solo
se alcuno fra i cadaveri e fra ’l sangue
non si celò, per conservar la vita.
Pon modo a la fortuna; i rei Tebani
495hanno anch’essi i lor Numi, e forse i nostri,
omai stanchi, da noi prendon congedo. -
Ubbidì il sacerdote, e al cielo alzando
le sanguinose mani, orò in tal guisa:
        - Queste, che tu additasti, eccelse spoglie,
500premi della tua notte, immondo e tinto
di sangue ancora (perocchè al tuo Nume
fei sacrifizio), io sacerdote fido
e de’ tripodi tuoi guerrier feroce,
a te, gran Febo, ora consacro in dono.
505Se a’ tuoi cenni ubbidii, se il tuo furore
sostenni, deh sovente in me ritorna
e la mente m’infiamma. Or noi ti diamo
crudele onor di sangue e d’armi tronche;
ma se avverrà che le paterne case
510noi rivediamo e i sacri tempii tuoi,
memore allor del voto, o licio Apollo,
da noi chieder potrai cotanti doni
a le tue sacre soglie, e tanti tori,
quanti per nostra man giacciono estinti. -
515Tacque ciò detto: e i forti suoi compagni
ei richiamò da la felice impresa.
        Eran fra questi il calidonio Opleo
e l’arcade Dimante, ambi a’ lor Regi
grati, ed ambi compagni, ed ambi a sdegno,
520dopo la morte loro, avean la vita.
Opleo a Dimante favellò primiero:
- Dunque, o caro Dimante, a te non cale
dell’Ombra errante del tuo Rege estinto?
Del tuo signor, che forse è fatto preda
525delli cani di Tebe e degli augelli?
E che di lui riporterete indietro
a i patrii Lari? Ecco la fiera madre
vi viene incontro, e vi domanda il figlio.
Ma privo di sepolcro il mio Tideo
530mi tien l’alma agitata, e pur le membra
ha del tuo più robuste, e come il tuo
degno tanto non è de’ nostri pianti,
come reciso nel bel fior degli anni.
Ma gire io voglio, e dell’infame campo
535cercarlo in ogni parte, entrare in Tebe,
qualor altrove ritrovar nol possa. -
        Ascoltollo Dimante, indi rispose:
- Per queste vaghe stelle, e per l’erranti
ombre del mio signor, che a me son Nume,
540ti giuro, ahi lasso, ch’uno stesso ardore
me ancora accende; ma lo spirto oppresso
dal grave lutto richiedea compagno,
ed or andrò primiero. - E così detto
ponsi in cammino, e verso il cielo alzando
545l’afflitto volto, in cotal guisa prega:
        - O Dea, che reggi il cheto orror notturno,
s’egli è pur ver che in triplicate forme
il Nume muti, e nelle selve scendi
sotto altro volto; quel già tuo seguace
550e de’ tuoi boschi alunno, il tuo fanciullo,
(or lo riguarda almen), quello si cerca. -
Abbassò il carro allor la Diva, e i corni
di maggior lume accese, e con un raggio
additò lor de’ regi i busti esangui:
555scoprirsi Citerone, i campi e Tebe.
        Così qualor tuonando irato Giove
spezza l’aria notturna, e l’atre nubi
sen vanno in fuga, ed al baleno e al lampo
chiari veggonsi gli astri, e di repente
560a gli occhi appare l’oscurato mondo.
        Seguì di Cintia il raggio il buon Dimante,
ed Opleo ancora ravvisò Tideo.
Lieti da lungi de’ trovati corpi
si diero il segno, e l’uno e l’altro al dolce
565peso del suo signor, come se in vita
tornato fosse o a fiera morte tolto,
sottopongono il dorso, e non ardiscono
di piangere o parlare. Il crudel giorno
già s’avvicina, e lo minaccia il primo
570albór che spunta. Essi sen vanno cheti
a lunghi passi fra i silenzi mesti,
e dolgonsi in veder pallide farsi
l’ombre notturne. Oh fati invidïosi
a le pietose imprese! Oh rare volte
575fortuna amica a le magnanim’opre!
Già vagheggiano il campo, ed il desio
più vicin lor l’addita, e più leggero
lor sembra il peso. Quando polve e nembo
vidersi a tergo, e udîr fremito e suono.
580 Il feroce Anfione avea la notte
per comando del Re menato in giro
stuolo di cavalieri. A lui fu dato
de’ Greci l’osservar le guardie e il vallo.
Ved’egli, o pargli di veder da lungi
585errar pel campo (e non avea la luce
ancor del tutto dileguate l’ombre)
un non so che d’incerto, e che rassembra
aver moto, aver vita: alfin discerne
ch’uomini sono. Allor l’insidie scopre;
590e, - Olà fermate il passo (altiero grida)
chïunque siete. - Alcun non parla, e certi
si palesan nemici. Il lor cammino
seguon, nè per se stessi hanno timore.
Ei la morte minaccia, e l’asta vibra:
595ma con tal arte che a ferir non vada,
e d’errar finge. Iva Dimante il primo,
e il balenar del ferro innanzi a gli occhi
gli passò, l’abbagliò, fermògli il passo.
Ma non già invano lanciar volle Epito,
600e ferì ad Opleo il tergo, e di Tideo,
che ne pendeva, trapassò le spalle.
Cade il misero Opleo, nè del suo duce
si scorda, nè morendo l’abbandona.
Felice lui, che nel morir non vede
605il cadavere tolto, e in questa spene
scende contento infra le pallid’ombre.
Si rivolge Dimante, e il mira, e sente
stargli già sopra le nemiche schiere;
dubbioso sta, se preghi, o se combatta.
610L’ira l’armi propon, ma la presente
fortuna vuol ch’ei preghi, e che non osi.
D’ogni parte è periglio. Alfin lo sdegno
differì le preghiere. Innanzi a i piedi
depon l’amato corpo, e d’una tigre,
615ond’avea ornato il tergo, il vello avvolge
al manco braccio, e ignudo ferro stringe,
e la fronte rivolge a l’aste, a i dardi,
a uccidere e a morir pronto egualmente.
        Qual leonessa in cavernoso monte,
620cui cinse il cacciator numida,
sta sopra i figli con incerto core,
e freme in suono di pietà e di rabbia:
a saltar nello stuolo, a franger dardi
furor la spinge, amor l’arresta e sforza
625a riguardare i figli in mezzo a l’ira.
E quantunque Anfion divieti a’ suoi
l’incrudelir, già la sinistra mano
è tronca a l’infelice, e per la chioma
si trae Partenopeo supino il volto.
630Tardi allor supplichevole Dimante
abbassa l’armi, e in cotal detti prega:
- Deh più miti il traete. Io ve ne prego
per le cune dal fulmine percosse
del vostro Bacco; per la fuga d’Ino,
635e del vostro Palémone per gli anni.
Se v’è tra voi cui scherzin figli intorno,
s’evvi tra voi un padre, al giovanetto
poca terra donate e poca fiamma.
Deh il rimirate; il volto suo giacente,
640il bel volto ven prega. Ah me piuttosto,
me lasciate a le fiere ed a gli augelli.
Io sono il reo che a guerreggiar l’indussi. -
        - Anzi (disse Anfion), s’hai tanto a cuore
il dar tomba al tuo Re, tosto ci narra,
645quali di guerra volgano consigli
i timidi tuoi Greci, e vinti e rotti
che preparino ancora, e a te la vita
diasi, e la tomba al tuo signore, e parti. -
        Dimante inorridissi, e sino a l’elsa
650s’immerse il ferro in sen: - Questo (gridando)
sol manca a mie sciagure e a tante stragi,
ch’io traditore Argo infelice infami;
nulla compro a tal prezzo, e a cotal prezzo
lo stesso duce mio non cura i roghi. -
655E di gran piaga già squarciato il petto,
sopra l’amato corpo si abbandona,
e fra i singulti estremi mormorando,
        - Me (dice) almeno avrai di tomba invece. -
Così de’ loro Re fra i grati amplessi,
660questa del pari generosa coppia,
l’Etolo forte e l’Arcade pietoso
spiraron l’alme, e sen morîr contenti.
        Or voi nomi già sacri, ancor che sorga
con minor plettro il nostro canto, andrete
665vincitori degli anni e dell’oblio;
nè forse sdegneranvi ombre compagne
Eurialo e il troian Niso, e di lor gloria
ammetteranvi degli Elisî a parte.
        Ma superbo Anfion del suo trionfo,
670ad Eteòcle più d’un messo invia,
che novella del fatto e della frode
scoperta, e i corpi de’ già vinti Regi
racquistati pur ora, a lui riporti;
ed egli segue ad insultar gli Argivi
675assediati nel vallo, alto portando
a l’aste affisse le recise teste.
        Ma da’ ripari aveano i Greci intanto
scorto Tiodamante e la sua schiera;
e in vederli tornar co’ brandi ignudi
680di fresco sangue aspersi, il gaudio nuovo
ridonda sì, che contener nol sanno.
Alzano d’improvviso al cielo i gridi,
pendon dal vallo, e ognuno i suoi ricerca.
        Stuolo d’augelli non pennuti ancora
685così in vedendo ritornar la madre,
bramano andarle incontro, e da l’estremo
nido sporgonsi infuori, e già in periglio
stan di cadere; ma vi oppone il petto
la madre amante, e co’ pietosi vanni
690addietro li respinge e li riprende.
        Or mentre il fatto occulto, e del notturno
Marte narran l’impresa, e in dolci amplessi
stan cogli amici, e d’Opleo e di Dimante
van ricercando il ritornar sì tardi:
695collo stuolo tebano ecco Anfione;
ma non andò di sua vittoria lieto
gran tempo: vede d’infinito sangue
fumar la terra, e ch’una sol ruina
ha la sua gente in vasta strage oppressa.
700Quello stesso terror ch’uomo sorprende
del fulmine al cader, quello del duce
commosse il petto, ed in un sol orrore
mancârgli e voce e vista, e gelò il sangue;
e mentre ei pianger vuol, lo volse in fuga
705volontario il destriero, e lui seguendo
alzaro nuova polve i suoi Tebani.
Appena eran costor giunti alle porte
di Tebe, quando dal trofeo notturno
fatti audaci gli Argivi usciro in campo
710su l’armi e su le membra a terra sparse.
Per cataste di morti, e di mal vivi
in mezzo al sangue, e cavalieri e fanti
vengon correndo, e con le ferree zampe
tritan l’ossa i destrieri, ed alle ruote
715ritarda il corso il sanguinoso umore.
Ma piace a i Greci l’orrido sentiero,
e già lor sembra le sidonie case
calcar co’ piedi e incenerita Tebe;
e Capaneo gl’instiga: - Assai (dic’egli)
720fu, o miei compagni, il valor nostro occulto,
ora a me vincer giova: ora che il giorno
testimonio è dell’opra. In campo aperto
colle grida e coll’armi alla scoperta
voi mi seguite, o giovani feroci.
725Stanno gli augurii anche in man nostra, e il brando,
qualor lo stringo, ha i suoi furori anch’egli. -
Sì dice: e lieto Adrasto e Polinice
vie più gl’infiamman. Privo già del Nume,
men baldanzoso vien Tiodamante.
730E già sono alle mura; ed Anfione
narrava ancor la nuova strage; quando
poco mancò che non entraron seco
nella infelice e desolata terra.
Ma Megareo, ch’alla vedetta stava,
735- Chiudi (gridò), chiudi, guardian, le porte;
il nemico c’è sopra. - Anche talora
è padre di virtude un gran timore.
Tosto tutte son chiuse, e mentre solo
Echione a serrar l’Ogigia è lento,
740v’entra lo stuol di Sparta. In su le prime
soglie Panopeo cade: ei sul Taigeto
avea il soggiorno; e seco Ebalo forte
notator dell’Eurota. E tu cadesti,
delle palestre onore e maraviglia,
745Alcidamante, vincitor felice
nell’arena di Neme. A te Polluce
adattò i primi cesti; or tu morendo
del luminoso tuo maestro miri
la risplendente stella, ed ei per doglia
750la volge altrove, e si nasconde e spegne.
Te piangeran l’ebalie selve, e il lido
grato tanto alle vergini spartane,
e il Fiume ove cantò cigno fallace,
e le Ninfe amiclee grate a Dïana,
755e colei, che a te diè le prime leggi
di guerreggiar, che tu poste in oblio
l’abbia cotanto, si dorrà la madre.
        Marte così sul limitar di Tebe
incrudelisce; ma il robusto Acrone,
760e Alimenide in un, quei colle spalle,
questi col petto le ferrate porte
sforzando a gara, le serraro in fine,
non senza pena; in quella guisa appunto
che fendon del Pangeo gl’inculti un tempo
765campi due buoi co’ colli bassi e ansanti.
L’util fu pari al danno. Entro le mura
chiuser molti nemici, e fuor lasciaro
molti de’ loro; e di già il greco Ormeno
in su le porte è ucciso, e mentre stende
770Amintore le mani, e parla e prega,
recisa la cervice a terra cade,
e cadon seco le parole e il capo,
ed il monile, onde fregiava il collo,
lungi balzò su l’inimica arena.
775E già abbattuto il vallo, e le dimore
prendendo a sdegno, de i pedon le schiere
erano giunte alle anfionie rocche;
ma del fosso in mirare il salto immenso
e il precipizio orribile e scosceso,
780s’arretrano i destrieri, e paventando,
hanno stupor ch’altri li spinga innanzi.
Talor per gir fann’impeto, e talora
rivolti contro il fren, giransi addietro.
Altri intanto i steccati, altri i rastrelli
785e i ferrei claustri dell’eccelse porte
tentan spezzare; - altri coll’ariéte
muovon di luogo gl’incantati marmi
e squarciano le mura. Altri han piacere
in rimirar le fiamme a i tetti accese,
790ch’essi avventaro, ed altri a l’ime parti
muovono guerra, e ricoperti e ascosi
sotto densa testuggine, a le torri
scavano di sotterra i fondamenti.
Ma d’altra parte le sidonie genti
795fanno a i muri corona (unica spene
che loro avanza di salute), e aduste
travi, e lucidi dardi, e le piombate
palle, ch’ardon nell’aria, e i sassi stessi
svelti da i muri, sovra i Greci a piombo
800fanno cadere: orrido e fiero nembo
piove da l’alto, e da’ forami armati
volano mille stridule saette.
        Come talor pigre procelle mosse
da i vicin colli su gl’infami scogli
805d’Acrocerauno e di Malea sospese
fermansi accolte in nembo; indi repente
spezzansi, e vanno a flagellar le navi:
tal da l’armi tebane eran gli Argivi
da ogni parte percossi, e pesti e infranti.
810Ma l’orribile grandine non piega
gli audaci petti, ed i feroci volti
sol mirano i ripari, e sol cogli occhi
seguono i loro dardi, e della morte
non prendon cura. Iva osservando i muri
815Anteo correndo sul falcato carro,
quando d’asta tebana impetuoso
e grave colpo lo rovescia al piano.
Le redini abbandona, e con un piede
(orribile spettacolo di guerra!)
820pende dal carro, e le due ruote e l’asta
forman triplice solco in sul terreno.
Va per la polve il capo, e resupini
pendon del crin disciolti i lunghi giri.
        Con strepito feral la tromba intanto
825Tebe perturba, e con un suono amaro
dentro penétra a le rinchiuse porte.
Si dividono in schiera i Greci, e ognuna
una porta assalisce, e il suo stendardo
minaccioso precede, e seco adduce
830le sue proprie speranze e gli altrui danni.
Dell’afflitta città l’orrido aspetto,
di Marte stesso avria ammollito il cuore.
Dolor, rabbia, timore e fuga infame
in luoghi oscuri e ciechi, in varie forme
835la sbigottita Tebe empie d’orrori.
Par che sian dentro gl’inimici: ferve
di tumulto ogni rocca, e per le strade
s’odon grida confuse, e già davanti
veggonsi ’l ferro e ’l fuoco, e nella mente
840già si figuran servitù e catene.
Quanto può mai accader, come presente
lor dipinge il timore. E già le case
son piene e i tempii, e le piangenti turme
circondano gli altari e i Numi ingrati.
845Questo stesso timor per tutti gli anni
passa veloce: i vecchi omai cadenti
braman la morte; impallidisce e suda
la gioventù robusta, ed ogni albergo
s’ode suonar di femminili pianti;
850e gl’innocenti e teneri bambini
piangono anch’essi, e lo perchè non sanno,
ma delle madri lor seguon l’esempio.
Queste instiga l’amore, e negli estremi
casi freno non han più di vergogna.
855Esse l’armi a i guerrieri, esse il valore
somministrano e l’ire, esse con loro
van mischiate, e gli esortano, e non cessano
d’additar lor le patrie soglie e i figli.
        Così qualor va per rapire il mele
860pastore ingordo, e muove l’api a sdegno,
ferve l’armata nube, e col stridore
s’esortano a ferire, e tutte al viso
del rapitor si avventano: ma stanche
l’ali nel volo, su le bionde case
865posansi alfine, e il dolce mel rapito
piangono, e al sen stringon le amate cere.
        Son divisi i parer del dubbio volgo;
sorgon moti discordi, e già in palese
(non con segreto e tacito susurro)
870gridan che torni l’esule fratello,
che gli si renda il regno. Ogni rispetto,
che si aveva del Re, manca e si estingue
ne’ solleciti petti. - Oramai venga,
gridan tumultuando, e l’anno alterno
875goda, e di Cadmo il naturale albergo,
e le paterne tenebre saluti. -
Altri a l’incontro: - Questa nostra fede
è intempestiva e tarda. Egli, piuttosto
che patteggiar, vincer vorrà coll’armi. -
880Altri piangenti e in supplichevol schiera
pregan Tiresia che il futuro sveli,
unico in tanti mali a lor conforto.
Ma sta ritroso, e tien rinchiusi in seno
gli oracoli de’ Numi. - È certo (dice)
885certo che dianzi i miei consigli attese
il Re, quand’io vietai l’enorme guerra;
ma pur, Tebe infelice, e s’io non parlo
già vicina a perir, non fia ch’io senta
la tua caduta, e colla vuota fronte
890sorba le fiamme dell’incendio greco.
Vinca in noi la pietà. Vergine, poni,
poni gli altari, e consultiamo i Dei. -
Essa eseguisce, e con sagace sguardo
mira le punte della fiamma tinte
895di sanguigno colore, e in due diviso
ergersi ’l fuoco su gli altari, e in mezzo
chiara e serena sfavillar la fiamma;
indi per l’aria raggirarsi in guisa
di tortuosa serpe in vari modi,
900e mancare il rossore: il vede e il narra
al genitor dubbioso, e le paterne
tenebre illustra. Ed ei già buona pezza
tiene abbracciati i coronati altari,
e con la faccia rosseggiante e accesa
905va bevendo il fatidico vapore.
Le sue dimesse e scompigliate chiome
s’ergono in alto, e l’agitato e insano
crine solleva le tremanti bende.
Par che gli occhi rïapra, e che sul volto
910di giovanezza il primo fior ritorni.
Alfin lo strabocchevole furore
così esalò da l’infiammato petto:
        - Quale tremendo sacrifizio estremo
chiedano i Numi, empii Tebani, udite:
915verrà per aspra via l’alma salute.
Ma di Marte il Dragon da noi richiede
vittima umana, umano sangue: cada
chi l’ultimo fra noi scese da l’angue.
Solo a tal patto Tebe avrà vittoria.
920Oh lui felice, che darà la vita
a sì gran prezzo d’immortale onore! -
        Del fatidico vate al fiero altare
era vicin Creonte ansio e dolente
del patrio suol per lo comun periglio.
925Quando, come da fulmine percosso,
o da ritorto dardo il sen trafitto,
semivivo sentì chiedersi a morte
Meneceo il figlio, e glielo fa palese
e gliel mostra il timor; stupido resta,
930e intorno al cuor se gli restringe il sangue.
Così percossi di Trinacria i lidi
sono dal mar, se contro d’essi il spinge
Austro talor da l’affricana arena.
Del crudel vate, che di Febo ha colmo
935il vasto seno, le ginocchia abbraccia
supplichevole in atto, e lo scongiura
a por silenzio al vaticinio orrendo;
ma invan lo prega, e già la fama vola
con le sacrate voci, e tutta Tebe
940risuona già della febea risposta.
        Or chi aggiungesse generosi sproni
e d’onorata morte almo desio
nel giovane feroce (un cotal dono
non scende a noi senza favor de’ Numi)
945or tu rimembra, o Clio. Tu, che conservi
ognor vivaci le memorie antiche
e i secoli vetusti, e del Tonante
assisti al trono, onde sì raro in terra
scender suol la Virtude, o sia che Giove
950la doni a i suoi più cari, o ch’ella scelga
anime generose e di sè degne:
siccome allor da le celesti piagge
lieta e bella discese! Al suo passaggio
dier luogo gli astri e quelle stesse faci
955che di sua mano ella innalzò fra loro.
E di già è in terra, e pur l’eccelsa fronte
s’avvicina a le sfere. Il grande aspetto
però mutar le piace, e la sembianza
di Manto prende; onde più presto a i detti
960Meneceo porga e a i vaticini fede.
Così mutata per celar l’inganno,
sparver da gli occhi l’orridezza e il fuoco;
ma il primiero decoro e più soave
la maestà ritien; deposto il ferro,
965l’augural verga impugna; a terra il manto
lascia cadere, e le confuse chiome
attorciglia di bende, e lascia il lauro
ch’era suo fregio; ma il feroce aspetto
la palesa per Nume, e il passo altiero.
970 Tale già si ridea del fiero Alcide
Onfale, allor che in femminili spoglie
deposto del leon l’ispido vello,
squarciava e manti e gonne; e colla mano
troppo grave rompea cembali e fusi.
975 Te forte Meneceo trovò la Dea
non di lascive fogge adorno e molle;
ma qual conviensi al sacrifizio, e degno
del grande onor dell’immortal comando.
Della torre dircea schiuse le porte,
980facea strage de’ Greci, e seco Emone;
ma quantunque d’un sangue ambi e fratelli,
Meneceo lo precede: a lui d’intorno
stan cumoli di morti e di malvivi.
Ogni dardo colpisce, ed ogni colpo
985seco porta la morte, e non ancora
presente è la virtù. La mano, il cuore
non trovan posa, e il sitibondo brando
non cessa: sembra che la Sfinge stessa,
che sta in guardia dell’elmo, in rabbia monti,
990e visto il sangue, l’animata immago
fiammeggi e splenda, ed ei n’ha l’armi asperse.
Quando a lui, che combatte, il braccio arresta
la Diva e il brando, indi così favella:
        - Generoso garzon, di cui maggiore
995Marte non vide fra il guerriero seme
di Cadmo, lascia queste pugne umíli:
non son degne di te vulgari imprese.
Te chiaman gli astri (a maggior cose aspira)
e renderai al Ciel l’anima grande.
1000Questo sol grida, a i lieti altari intorno,
il genitor; questo le fibre e i fuochi
mostrano; questo sol richiede Apollo:
ch’uno de i figli della Terra il sangue
dia per la patria. Vola intorno il grido;
1005Tebe n’esulta, e in tuo valor si affida.
Rapisci i Numi colla mente; afferra
il gran Destino, va, corri, t’affretta
pria che t’involi un tanto onore Emone. -
Disse; e di lui, che tarda e sta sospeso,
1010il petto molce colla destra, e tutta
in lui s’infonde, e di sè gli empie il cuore.
        Non così ratta la celeste fiamma
serpe da le radici a l’alte cime
di cipresso dal fulmine percosso;
1015come il garzon, pieno del Nume, i sensi
a gloria eresse, e s’invaghì di morte.
Ma poi che vide della finta Manto
le vesti e il portamento, e che da terra
s’alza sovra le nubi, inorridissi.
1020 - O chiunque tu sia, Dea, che mi chiami
(disse), io ti seguo, e ad ubbidir non tardo. -
Parte, e partendo Agrio di Pilo uccide,
che ardito l’incalzava: in su le braccia
lo riportaro estinto i suoi scudieri.
1025Dovunque passa, la festosa turba
lieta gli applaude, e autor di pace il chiama;
liberatore e Nume, e sproni aggiunge,
e di fiamma d’onor tutto l’accende.
Già con ansante corso a l’alte mura
1030era egli giunto, ed in suo cuor godea
d’aver schivato i genitori afflitti;
quando ecco il padre (ambi restaro immoti
ed ambi muti, ed abbassâr le fronti);
ma il padre in fine lo prevenne, e disse:
1035 - Qual nuovo caso le difese soglie
fa che tu lasci? E qual impresa tenti
della guerra peggior? Onde, ti prego,
nasce il turbato ciglio? Onde il pallore?
Perchè non alzi al genitore il guardo?
1040Ah veggio ben che la fatal risposta,
figlio, a te giunse; il veggio certo: ah figlio!
Per gli anni miei, pe’ tuoi, figlio, ti prego,
e per lo sen dell’infelice madre,
non prestar fede al vate. Adunque i Numi
1045si degneranno nel profano petto
scender d’un veglio che nel vuoto viso
mostra il furore, e delle luci privo,
a l’empio Edippo è nella pena eguale?
Forse chi sa? Queste son frodi ordite
1050dal crudo Re, che nell’estrema sorte
teme di noi, del nostro sangue, e teme
il tuo valor, che sovra ogni altro duce
ti distingue e t’innalza. E questi detti
non son de’ Numi (qual Tiresia vanta),
1055ma del tiranno. Deh ritieni a freno
l’animo ardente, e breve indugio accorda,
breve dimora al genitor che prega.
Ogni bel fatto l’impeto corrompe:
così tu ancora a la canizie arrivi;
1060tu pur sii padre, e questa stessa tema
provi, che per te provo. I miei Penati
non far orbi di te. Dunque cotanto
de’ genitori altrui, degli altrui pegni
senti pietà? Se te vergogna muove,
1065sentila pria de’ tuoi. Questa è pietade,
questo è onor vero. Ivi è sol gloria vana,
e un inutile nome, e nella morte
un vano fregio che si asconde e cela:
nè già codardo padre è che ti prega.
1070Va, pugna misto fra le argive schiere,
il petto opponi a l’aste e a l’armi ignude,
io non tel vieto: a l’infelice padre
almen si dia le glorïose e belle
piaghe lavarti, o figlio, e con i pianti
1075tergerne il sangue, e rimandarti in guerra.
Questo è quel che da te la patria chiede. -
        Così dicendo, dell’amato figlio
tien colle braccia e mani e collo avvinti;
ma il giovane, che a i Dei s’è offerto in voto,
1080non cede a i pianti e a le querele, e un nuovo
ispirato da i Numi ordisce inganno,
con cui dal suo timore il padre affida.
        - In error sei, buon padre, e di mia tema
la verace cagione ancor t’è ignota.
1085Me non muovon gli Oracoli, o i clamori
de i furibondi vati, o l’ombre vane.
Canti le fole sue Tiresia astuto
a sè e a la figlia: non se Apollo istesso,
le fatidiche grotte disserrando,
1090col suo furore m’agitasse il petto;
ma dentro la città mi riconduce
dell’amato fratello il caso acerbo.
Langue ferito Emon da strale greco;
a fatica l’abbiam pur or ritolto,
1095fra l’uno e l’altro esercito, dal campo,
ov’ei giaceva, e da le mani ostili:
ma il tempo io perdo. Vanne, o padre, e prendi
di lui tu cura, e di’ che mollemente
la turba de i sergenti addietro il porti.
1100Io corro in traccia d’Etïone esperto
le piaghe a risanar, stagnare il sangue. -
Qui tronca i detti, e fugge. Un altro orrore
ingombra allor la mente, e i sensi turba
dell’incerto Creonte: errando a caso
1105va la pietà fra i due timor discordi.
Ma la Parca lo sforza, e fa che il creda.
        Intanto Capaneo torbido e audace
i Tirii assale da le porte usciti
in campo aperto a guerreggiar co’ Greci.
1110Ora le corna de’ cavalli, ed ora
le squadre de i pedoni urta e scompiglia:
gli aurighi abbatte, e mette in fuga i carri
che passan sopra i condottier giacenti:
or l’alte torri indebolisce e scuote
1115lanciando spessa grandine di sassi:
fuma nel sangue, e gli ordini perturba:
lancia piombi volanti, e nuove piaghe
piove sopra i Tebani; or vibra in alto
con tutto il braccio fulminando i dardi.
1120A la cima de i muri asta non giunge
ch’uom non abbatta, e non ricada al suolo
di fresca strage sanguinosa e tinta.
Nè già più sembra a la falange argiva
che Tideo manchi loro, o Ippomedonte,
1125o il prisco vate o l’arcade garzone.
Ma par che in lui tutte sien l’alme accolte
di tanti eroi: così per tutti adempie.
Non età, non splendor, non vago aspetto
muovono il fiero cuor: del pari ei fere
1130chi combatte e chi prega. Alcun non osa
di stargli a fronte e di tentar la sorte;
ma temon di lontan del furibondo
l’armi, le creste e l’orrido cimiero.
        In parte eletta delle patrie mura
1135fermossi intanto Meneceo pietoso
già sacro nell’aspetto e venerando,
ed in sembianza, oltre l’usato, augusto;
qual se da gli astri pur allor scendesse.
E già deposto l’elmo e a tutti noto,
1140d’alto mirando le guerriere squadre,
mise uno strido, e in sè rivolse il campo,
e tregua impose a la battaglia, e disse:
        - Numi dell’armi, e tu, che a me concedi
cader di sì gran morte, amico Apollo,
1145quelle che patteggiai, gioia e riposo,
e che comprai con tutto il sangue mio,
donate a Tebe. Rivolgete indietro
l’orrida guerra, e le reliquie infami.
Lerna vinta ne accolga, ed il superbo
1150Inaco abborra i figli indegni, il tergo
impressi di bruttissime ferite.
Ma case, campi, tempii, e moglie e figli
date a i Tebani di mia morte in prezzo.
Se ubbidïente vittima a voi piacqui,
1155se del gran vate le risposte accolsi
con intrepido orecchio, e l’eseguii,
Tebe non lo credendo; al patrio suolo
per me rendete la mercè ch’io chieggio,
e mi placate il genitor deluso. -
1160Sì disse, e l’alma generosa, e schiva
già di sua spoglia e di più star rinchiusa,
impazïente in libertà ripose
con il lucido acciaro al primo colpo.
Di sangue asperse i muri e l’alte torri,
1165e si lanciò fra i combattenti in guisa
che andò a cader su gli odïati Argivi:
ma pietà, ma virtude alto su l’ali
portaro il corpo, e lo posaro in terra;
e già lo spirto sta di Giove al trono,
1170ed ha fra gli astri la primiera sede.
Senza contesa si riporta in Tebe
il magnanimo eroe: cedero i Greci,
venerando il gran fatto. A lunghe file
vien ricondotto su gli altieri colli
1175de i giovani più scelti. Il vulgo applaude,
e fra gl’inni e fra i canti e i lieti gridi
maggior di Cadmo e d’Anfion l’appella.
Altri l’ornan di serti, altri di fiori
spargon le membra; e l’onorato corpo
1180ripongono degli avi entro la tomba.
Dato fine a le lodi, in guerra riedono.
Ma il miserabil genitor, che l’ira
conversa ha in lutto, piange, ed a la madre
è dato al fine il piangere e il dolersi:
1185 - Io dunque ti nudrii, garzone invitto,
quasi madre vulgar, vittima a Tebe
e capo sacro a la comun salute?
E che mai feci? E perchè i Numi in ira
m’hanno cotanto? Io già d’impure fiamme
1190non arsi, o al figlio partorii nepoti.
Ma che mi giova, se Giocasta i suoi
parti ancor mira e capitani e Regi?
Noi diam l’ostie a la guerra (e tu l’approvi,
crudo Tonante), perchè i rei fratelli
1195seme d’Edippo cangin serto e regno.
Ma perchè i Numi incolpo? Ah che a la madre
tu affrettasti il morir, figlio crudele.
E d’onde in te questo desio di morte?
Qual, Meneceo, diro furor t’invase?
1200Qual io mi partorii per mia sciagura
figli da me diversi, e appunto scesi
dal Dragone di Marte e da la Terra,
onde uscì l’avo di nuov’armi adorno!
Quinci l’alma feroce e il troppo ardire,
1205che racchiudevi in sen: tu da la madre
nulla traesti. A volontaria morte
ecco tu corri, e delle Parche in onta
scendi immaturo infra le pallid’Ombre.
Io per te ben temea gli Argivi, e l’armi
1210di Capaneo; ma questa stessa mano,
lo stesso ferro che a te, folle, io diedi,
questi eran da temer: misera! come
l’hai fino a l’elsa nella gola immerso!
Non t’avrebbe il più barbaro tra i Greci
1215di più profonda piaga il seno aperto. -
        Non dava fine a le querele, a i pianti
quell’infelice, onde assordava il cielo.
Ma le amiche e le ancelle il suo dolore
van consolando, e suo malgrado al fine
1220la riconducon nel rinchiuso ostello.
A terra siede, lacerando il volto,
nè ascolta i detti, e non riguarda il giorno,
ma i lumi tiene affissi al suolo e immoti.
        Tale in scitica grotta immane tigre,
1225cui furò i figli il cacciatore alpestre,
giace lambendo il tepido covile,
e l’ire scorda e il natural furore,
e la rabbia e la fame; armenti e greggi
passan sicuri: essa sel vede, e stassi.
1230E a chi colmar di nuovo latte il seno?
A chi portar la conquistata preda?
        D’armi, d’aste, di trombe e di ferite
basti fin qui: di Capaneo il valore
or conviensi innalzar sino a le stelle:
1235non basta a tanta impresa il plettro usato.
Uopo è di maggior suono, e che in me spiri
nuov’aura, nuovo spirto e maggior fuoco
da le selve d’Aonia, e il sen m’accenda.
Su, tutte, o voi caste canore Dee,
1240su, tutte, meco osate, e al gran soggetto
uniam le trombe, e solleviamo il canto.
        O quel furor dal cupo centro uscío
del baratro profondo, e contro Giove,
di Capaneo seguendo il gran vessillo,
1245rapiron l’armi le tartaree suore;
o la virtù trapassò il segno, o il spinse
gloria precipitosa, o colla morte
prezzo mercò d’immortal fama e grande:
o che lieti principii hanno i disastri;
1250o lusinghiere son l’ire de i Numi.
        Sdegna il feroce omai terrene imprese,
nausea l’immensa strage: e già consunte
l’aste greche e le sue, lo sguardo innalza
torvo, e con stanca mano il Ciel minaccia.
1255Indi aereo cammin di cento e cento
gradi fra due gran piante affissi e immoti
alto sostenta, onde varcar de i venti
osa gli spazi e penetrare in Tebe.
Squadra con gli occhi da la cima al fondo
1260l’eccelse torri, e orribile in sembianza
di secca quercia accesa face scuote.
Ne rosseggiano l’armi, e nello scudo
ripercossa la fiamma, acquista lume.
- Questo è, grida, il sentier per cui mi sforza
1265la virtude a salir: là, ’ve del sangue
di Meneceo son l’alte mura sparse;
ora vedrem se a lor salute giovi
il sacrifizio, o sia fallace Apollo. -
Sì dice, e sale, e su i ripari vinti
1270trionfante passeggia. In cotal guisa
gl’immani figli d’Aloo tremendo
Giove mirò, quando a far guerra a i Numi
sovra sè stessa s’innalzò la Terra:
nè Pelia era ancor giunto, e già toccava
1275le timorose sfere Ossa sublime.
        Nell’estremo periglio delle cose,
attoniti i Tebani e timorosi,
qual se l’ultimo eccidio, e se Bellona,
la man di face armata, entrasse in Tebe
1280abbattendo e struggendo altari e tempii;
piovon sopra di lui da i tetti a gara
immense travi e smisurate pietre
e ferrei globi da le frombe usciti.
(Perocchè, quale nel vicin conflitto
1285puot’esser luogo a le saette e a i dardi?)
Impazïenti d’atterrarlo, in giuso
versan l’intere moli e le guerriere
macchine istesse. Egli sicuro vassi,
e di colpi percosso il tergo e il petto,
1290ei non s’arresta; ma per l’aere ascende
sicuro sì, qual se posasse in terra,
ed entra al fine con ruina estrema.
        Tal con assidui flutti a ponte antico
assalto muove impetuoso fiume;
1295treman le travi, e svelti i sassi cadono,
ed ei con maggior impeto l’incalza,
e preme e scuote: alfin l’inferma mole
svelle, e seco la tragge, e vincitore
respira, e corre più spedito al mare.
1300 Ma poi che torreggiò sull’alte mura,
e sotto i piedi rimirossi Tebe,
e tutta oppresse la città dolente
coll’ombra immensa del feroce corpo,
così rampogna gli atterriti cuori:
1305 - Son dunque, sono le anfionie rocche
deboli tanto? Oh vostra infamia eterna!
Son dunque queste le incantate pietre
che menâr danze al suon d’imbelle canto?
Son questi i vostri favolosi muri?
1310Che grande impresa è l’atterrar ripari,
di fragil lira a l’armonia contesti! -
Così insultando il passo avanza, e abbatte
e moli e tavolati e ponti, e scioglie
le compagi de’ tetti, e i tetti atterra;
1315i macigni ne prende, e li rilancia
contro i sublimi tempii e l’alte torri,
e Tebe pur con Tebe appiana e strugge.
        Fremon fra lor discordi intorno a Giove
intanto i Dei Tebani e i Numi d’Argo.
1320Già son vicini a l’ire; a tutti eguale,
li mira il sommo Padre, ed egli solo
li tiene a freno. Geme Bacco e duolsi.
La madrigna l’osserva, e torva guata
il tonante marito. - Ov’è (dic’egli)
1325tua mano onnipotente? Ove le fiamme
delle mie cune e il fulmine ritorto?
Il fulmine dov’è? - Si lagna Apollo
che cadan da sè eretti e tempii e case;
stassi coll’arco teso incerto Alcide
1330tra Lerna e Tebe da qual parte scocchi;
l’alato cavalier d’Argo materna
sente pietade; Venere deplora
d’Harmonia il sangue, e sta in disparte e teme
il geloso consorte, e l’ira ascosa
1335palesa a Marte con furtivi sguardi:
sgrida gli Aonii Dei Tritonia audace:
Giunon sta cheta; ma il silenzio amaro
scopre il furore che nel sen racchiude.
Gli sdegni lor, le lor contese a Giove
1340non giungono a turbar l’eterna pace;
e già tacean le risse, allor ch’al cielo
giunse di Capaneo l’orribil voce:
        - Nume (dicea) non v’ha che la difesa
della città tremante in cura prenda?
1345E dove siete, dell’infame Terra,
Bacco ed Alcide, cittadin codardi?
Ma perchè i Dei minori a guerra sfido?
Vieni tu stesso, o Giove: e chi più degno
è di pugnar con noi? Vedi, io già premo
1350di Semele le ceneri e l’avello.
Or ti risenti, e contro me fa pruova
delle tue fiamme. O in atterrir donzelle
solo sei forte, e in penetrar di Cadmo,
suocero indegno, il vïolato albergo? -
1355 Avvampâr d’ira i Numi; udillo Giove,
e sorridendo crollò il capo, e disse:
        - Dopo lo scempio de’ Giganti in Flegra,
cotanto orgoglio in mortal petto vive?
È dunque d’uopo fulminar te ancora? -
1360Stangli d’intorno i Dei sdegnosi, e lento
lo chiaman tutti, e le saette ultrici
chiedono a prova: non ardisce Giuno
confusa e mesta al crudel fato opporsi.
Senza il segno aspettare, il ciel turbato
1365lampeggia e tuona, e già le nubi insieme
vanno a trovarsi, e non le spinge il vento;
e già i nembi s’addensano. Diresti
le tartaree catene avere infrante
Iäpeto, ed alzar contro le stelle
1370Inarime già vinta il capo altero,
ed Etna vomitar turbini ardenti.
Si vergognano i Dei del lor timore.
Ma in cotanta vertigine del mondo,
vedendo un uom pieno d’orgoglio e d’ira
1375star contro loro e disfidarli a guerra,
maravigliando stan taciti e mesti,
nè dello stesso fulmine han fidanza.
        Già sordamente su l’Ogigia torre
muggiva il cielo, e stava involto il Sole
1380entro cieca caligine profonda;
ma non teme il feroce, e afferra e scuote
le mura che non vede, e quando i lampi
squarcian le nubi e il fulmine discende;
- Questi (grida) son ben fuochi più degni
1385per arder Tebe, e di mia stanca face
per rinforzar la furibonda fiamma: -
Giove allora tuonò da tutto il cielo,
e scagliò il fatal fulmine trisulco.
Primo lungi volò l’alto cimiero;
1390poi lo scudo abbronzato a terra cadde,
e l’indomito corpo è tutto fuoco.
Ritiransi i guerrieri, e da qual parte
cada, non sanno, e con le ardenti membra
quai schiere opprima. La celeste fiamma
1395sent’ei che gli arde il petto, e l’elmo e il crine.
Con disdegnosa man sveller l’usbergo
tenta, e sol trova cenere e faville;
e pur sta ancora, e il viso ergendo in alto,
spira contro del Ciel l’alma sdegnosa:
1400per non cadere, a l’odïate mura
appoggia il petto e le fumanti membra;
ma queste membra alfin disciolte in polve
lasciano in libertà lo spirto immane.
"Poco più che a cader tardato avesse,
1405meritato avria il fulmine secondo".