La Tebaide/Libro undecimo

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Libro undecimo

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Libro decimo Libro duodecimo

IL DUELLO A MORTE
DI ETEOCLE E POLINICE


 
Poichè tutto il furor d’empia virtude
consumò il fiero Capaneo, spirando
il ricevuto fulmine, e del fuoco
vendicatore lungo orribil solco
5segnâr nel suolo le cadute membra;
il turbamento delle sfere e i moti
placò Giove col cenno, e con un guardo
serenò il cielo, e rese il lume al Sole.
Se n’allegraro i Dei seco non meno
10che s’ei da Flegra ritornasse ansante,
e vincitor con tutto l’Etna il fiero
e fulminato Encelado premesse.
Orrido in volto ei giace al sen stringendo
un grave masso di caduta torre;
15ma lascia dopo sè di grandi imprese
memoria eterna, e degna ben che Giove
d’averlo vinto si compiaccia e vanti.
        Quale e quanto si stende il fiero drudo
vïolator dell’apollinea madre;
20se dal petto talor sospesi in alto
stanno gli augelli, hanno terror mirando
le immense membra, mentre al crudo pasto
riproduce le viscere infelici:
tale e cotanto Capaneo prostrato
25l’inimico terreno ingombra e adugge
col sulfureo vapor del divin lampo.
Tebe respira, e il supplichevol vulgo
sorge da i tempii: dassi fine a i pianti;
cessano i voti, e fatte già sicure
30depongono le madri i dolci figli.
Van per il campo dissipati e sparsi
i Greci intanto: non le turme ostili,
non mortal ferro è che li caccia. Irato
veggonsi Giove innanzi: a ciascun sembra
35sentir su l’elmo o dentro il ferreo arnese,
la fiamma, il lampo, la saetta, il tuono.
Gl’incalzano i Teban, l’ira e il tumulto
del Cielo irato in lor favore usando.
        Così talor fiero leon massile,
40se fatto scempio de’ più forti tori,
sazio sen parte; da i lor antri in frotta
corrono gli orsi ed i voraci lupi
sicuri a divorar la preda altrui.
        Da una parte li preme Eurimedonte
45di rustic’armi adorno. Agresti dardi
impugna, e mesce rustical tumulto,
del padre a guisa, ed il gran Pan è il padre.
Da l’altra parte, superando gli anni,
il leggiadro Alatreo gli Argivi incalza,
50e del giovane padre egli fanciullo
eguaglia la virtude; ambi felici,
ma più felice il genitor, che tale
sel vede a lato, e non sai ben nell’armi
chi più risuoni, o con più forte braccio
55chi l’aste vibri ed i volanti dardi.
Fuggono i Greci in un raccolti e stretti,
e fassi angusto a tanta fuga il vallo.
        Quali mai volgi, o Marte, aspre vicende!
Ecco costor che le anfionie mura
60salian poc’anzi; spaventati e rotti
difender ponno i lor ripari appena.
        Così riedon le nubi, e così i venti
piegan di qua di là le bionde ariste,
e così copre il mar d’onde l’arena,
65così la scopre, in sè volgendo i flutti.
        I giovani Tirintii imitatori
del cittadin lor Nume, armati il tergo
di pelli di leon, cadon fuggendo:
Alcide freme in rimirar dall’alto
70della belva nemea squarciato il dorso
di brutte piaghe, e per lo campo sparse
pari a le sue giacer faretre e clave.
Stava d’argiva torre in su le soglie
Enipeo, avvezzo con guerriera tromba
75a concitare a le vittorie i Greci;
ora con più util suono a la raccolta
gl’invita, e chiama nel munito campo.
Ecco uno strale il coglie, e la sinistra
mano a l’orecchio inchioda. In aura sciolto
80lo spirto fugge, ma il rinchiuso fiato
nel ritorto oricalco il suono adempie.
        Ma nelle sceleraggini potente
Tesifone crudel, che già nel sangue
delle due genti esercitate ha l’ire,
85colla tromba fraterna e col duello
finir risolve la spietata guerra;
nè crede bastar sola al gran delitto,
se da l’inferna sede a sè non chiama
in soccorso Megera, e d’ambi i crini
90non sian congiunte le propinque serpi.
Dunque in rimota valle il passo arresta,
e scava il suolo col tartareo brando,
ed a nome la chiama, e il maggior angue
in alto ergendo del vipereo crine
95sibila e stride; orribil segno e certo,
a cui mai sordo non mostrossi Averno.
Al subito fragor tremâr le sfere,
la terra e il mare; e pur di nuovo Giove
a la fucina etnea rivolse il guardo.
100Udì Megera il suono. Ella si stava
del suo padre Acheronte in su la sponda,
mentre di Capaneo le furie e l’ire
colmavano d’applauso i Numi inferni,
e spegnea l’ombra spaventosa il fuoco
105nell’onda stigia del celeste dardo.
Squarcia l’oscuro chiostro, e fuor si mostra:
respiran l’alme, e quanto al suo partire
scema d’orrore al tenebroso Inferno,
tanto manca quassù di luce al giorno.
110Tesifone l’accolse, e l’empia destra
a lei porgendo, favellò in tal guisa:
        - Potei fin qui del sommo padre inferno,
Germana, sostenere il grande impero
e gl’imposti furori io sola in terra
115del mondo esposta all’odïato lume,
mentre voi neghittose i muti Elisi
reggete e l’ombre facili e ubbidienti.
Mira di quante stragi è pingue il suolo,
di quanto sangue fervon fiumi e laghi,
120quante vanno alme erranti a Lete intorno:
tutte son opre mie. Ma che mi vanto
di sì volgari imprese? Abbiale Marte,
abbiale Enío, che importa? Un fiero duce
(certo so ben che nell’Inferno suona
125di ciò la fama) tu pur or vedesti
in torvo aspetto, da l’immane bocca
stillar putrido sangue: io quella fui
che il tronco teschio a manicar gli porsi.
Lo strepito e il furor del cielo irato,
130guari non ha, fin negli abissi è giunto.
Un capo a me già sacro il fiero nembo
minacciava in quel punto. Ed io fra l’armi
del furibondo eroe schernia gli sdegni
e le guerre de i Numi, e mi ridea
135del fulmine di Giove e de’ suoi lampi:
ma ti confesso, o suora, al lungo affanno
langue l’ardire, e già la destra ho stanca:
scema l’infernal face al cielo aperto,
e il troppo lume ha di sopore oppresse
140mie serpi avvezze nell’eterna notte.
Tu, che ancor serbi i tuoi furori interi,
le cui ceraste di Cocito a l’onda
si dissetaro e rinnovaro il tosco,
tu mie forze ristora e a me t’unisci.
145Non le solite schiere e non di Marte
le usate pugne prepariam: le spade
(invan pietade, invan la fe’ si oppone)
concitar ne convien de i due fratelli;
spingerli al reo duello. Enorme, grande,
150malagevole impresa! E pur non temo:
gli odii loro, i furor daranci aiuto.
Perchè sospesa stai? Su via ti scegli
qual de i due più t’aggrada: ambi son nostri,
ambi facili e pronti a i nostri cenni.
155Ben ne potrian tardar gli empii consigli
il vulgo incerto e la piangente madre,
e d’Antigone i preghi e il parlar blando.
Lo stesso Edippo, che invocar solea
le nostre Furie a vendicar suoi lumi,
160or si ricorda d’esser padre, e piange
le sue sciagure in solitario luogo.
Ma perchè tardo io stessa a l’empia Tebe
precipitarmi ed a le note case?
Tu prendi cura del ramingo, e sprona
165l’argolico delitto, e attenta osserva
che la plebe lernea, che il mite Adrasto
non ti facciano intoppo. Or parti, vola,
e torna a me nemica al gran duello. -
Gli empi uffizi tra lor così divisi,
170per diverso cammin presero il volo.
        Tal da li due del mondo estremi Poli
muovono Borea e Noto aspre procelle,
l’un da i monti Rifei, l’altro da l’arse
libiche arene: e fiumi e mari e selve
175fremono al gran fragore, e nubi e nembi.
Piange dell’anno la matura spene
l’agricoltore, e il conosciuto danno:
e pur nel suo dolor vie più gli duole
mirar le navi ed i nocchier sommersi.
180 Ma poi che Giove rimirò da l’alto
l’enormi Dire funestare il giorno,
e di sanguigne macchie il sole asperso,
con turbato sembiante a i Numi disse:
        - Mirammo, o Dei, fin che ci fu permesso,
185le usate pugne ed i furor di Marte,
quantunque un empio osò contro me stesso
di muover guerra e per mia man sen giacque.
Or si prepara fra due rei fratelli,
infame coppia, scelerata pugna,
190nè pria veduta su la terra unquanco.
Volgete altrove il guardo, e senza i Numi
osin tentar l’iniqua impresa, e resti
l’orrido fratricidio ignoto a Giove.
Pur troppo vidi le funeste mense
195di Tantalo, e mirai gl’iniqui altari
di Licaone, e da Micene il carro
volgere in fuga spaventato il Sole.
Ed or di nuovo ha da ecclissarsi il giorno.
La caligine inferna abbiasi il suolo;
200ma ne sian mondi il cielo e i Numi eterni,
nè cotanta empietà mirin d’Astrea
le pure stelle, nè i ledei gemelli. -
Così parlò l’onnipotente Padre,
e volse gli occhi da l’infame campo,
205privando il mondo del suo dolce lume.
        Già per lo campo e per le tende argive
la vergine crudel d’Erebo figlia
in traccia va dell’esule fratello.
Il ritrovò lungo le porte, incerto
210se con la morte o con la fuga a i mali
il fine imponga, e pien d’augurii infausti.
Poichè, mentre pel campo errando giva
povero di consiglio, e i casi estremi
volgendo in mente, della moglie Argia
215veduta avea la sconsolata immago,
con tronca face a lui mostrarsi innanzi;
(tali de i Numi sono i segni, e tale
gire al marito ella doveva in questa
misera pompa, e con sì mesta fiamma)
220e mentr’ei le chiedeva ove sen gisse
ed a qual uopo in sì funesta guisa,
sol rispose col pianto, e in altra parte
volse la mano e i moribondi fuochi.
Conosce ei ben che sono larve e sogni;
225perchè come così sola e improvvisa,
partirsi d’Argo e penetrar nel vallo?
Ma del Fato la voce e la vicina
morte egli sente; e perchè teme, il crede.
Ma poi che l’empia figlia d’Acheronte
230tre volte a lui colla viperea sferza
la corazza percosse, in tutto privo
di consiglio e di senno, avvampa d’ira;
nè tanto pensa a racquistare il regno,
quanto a le sceleraggini, a le stragi,
235ed a lavarsi nel fraterno sangue,
e a cader sopra lui. Corre ad Adrasto,
e in cotai sensi torbido favella:
        - Tardi, e de’ miei compagni unico avanzo
e della greca gente, amato padre,
240prendo consiglio a i disperati casi.
Ben io dovea, prima che il sangue argivo
fosse ancor sparso, a volontaria pugna
offrirmi solo, e non esporre a morte
tanti invitti guerrieri, e di tai Regi
245l’anime grandi, per ornarmi il crine
di corona funesta a tante genti.
Ma poi ch’aspra virtù mi spinge e sforza,
siami or permesso le dovute pene
pagare almen. Quell’infelice io fui
250(e ben lo sai, ma per pietà mi celi
le tue ferite, il tuo dolore interno)
io quello fui che, mentre tu reggevi
con dolce freno di giustizia e pace
i popoli soggetti, te dal regno,
255te da la patria feci andare in bando.
Deh perchè almeno il mio crudel destino
ospite non mi spinse ad altre terre!
Or prendine il castigo. Il mio fratello
(che, inorridisci? il mio voler è fermo)
260chiamo a mortal düello. Invan mi tieni;
lasciami; nol potrai. Non se la madre
squallida e mesta e le infelice suore
opponessero il petto in mezzo a l’armi;
non se frenarmi il cieco padre ardisse,
265e mi fissasse in fronte i lumi spenti,
non cesserò: forse degg’io l’estremo
bever del sangue greco? E a mio profitto
usar le vostre stragi? Io vidi aperto
il suol, nè mi lanciai nella vorago:
270io colpevole feci il gran Tideo,
e il vidi estinto. A me il suo Re domanda
sconsolato il Tegeo; per me negli antri
parrasii urlando va l’afflitta madre:
io non seppi cader ne i procellosi
275gorghi d’Ismeno, allor che Ippomedonte
del suo sangue lo tinse, e non osai
salir fra i tuoni l’alte torri, e i miei
furori unir di Capaneo a i furori;
e perchè mai tanto timor di morte?
280Or si compensin le passate colpe.
Vengan tutte a veder le greche madri
e le vedove spose e i padri antichi,
cui tolsi ogni piacere, e per me spente
restâr le case: io col fratel combatto.
285E che più resta? Mirino, e coi voti
preghin vittoria a l’emulo germano.
Addio dunque consorte, addio Micene
sì cara un tempo, e tu diletto padre:
(s’egli è pur ver che di cotanti danni
290solo in colpa non fui, ma peccâr meco
le Parche e i Numi): del mio cener freddo
abbi pietade, e la mia esangue spoglia
tolta a i rapaci augelli ed al fratello,
riporta indietro e la rinchiudi in urna.
295Questo sol chieggio, e la tua figlia poi
ad altri dona con miglior destino. -
        Già tutti intorno si scioglieano in pianto;
siccome allor che le bistonie nevi
sciolgonsi a i lunghi Soli, Emo rassembra
300liquefatto scemarsi, ed in più rivi
scendere al piano Rodope diviso.
Già con placidi detti il Re canuto
cominciava a placar l’alma superba,
ma con nuovo terror la sanguinosa
305Furia ruppe i discorsi, ed in sembianza
di Perinto scudier l’armi fatali
e il veloce corsier tosto gli offerse,
e chiuse l’elmo, ed il parlar n’escluse:
indi soggiunse: - A che più far dimora?
310su via t’affretta: in su le porte stassi
il tuo fratello, e te disfida e chiama; -
così, vinto ogn’intoppo, in sul destriero
lo sbalza. Ei corre per l’aperto piano
pallido, e a tergo si rimira l’ombra
315della Dea, che l’incalza e che lo preme.
        Intanto il Re della sidonia gente
vane grazie rendeva al gran Tonante
per la dovuta folgore, credendo
dal fatal colpo disarmati i Greci:
320non Giove al sacrifizio, e non i Numi
furon presenti. A i trepidi ministri
mista la Furia profanò gli altari,
usurpò i voti, e li rivolse a Dite.
        - O supremo de i Numi (il Re dicea)
325da cui Tebe deriva (ancor che avvampi
Argo d’invidia e la crudel Giunone)
fin da quel dì che rapitor turbasti
le sidonie carole, e a la fanciulla
di nostra gente sopponesti il dorso,
330dando finti muggiti in mar tranquillo;
nè contento di ciò, ne’ cadmei tetti
nuova moglie scegliesti, e fulminante
pur troppo entrasti nelle tirie case;
benigno al fine il suocero e le mura
335a te dilette rimirasti, e tuoni
di Tebe difensor con tutto il braccio,
come se al cielo tuo si desse assalto.
Tu fulmini poc’anzi e nubi e nembi,
per noi salvar, movesti: e le tue fiamme,
340gli stessi fuochi riconobbe Tebe,
che con terrore i nostri padri udiro.
Or prendi in sacrifizio il gregge e il toro
a te svenato, e gli odorosi incensi;
ma non è già però mortale impresa
345renderti grazie al benefizio eguali.
Te le rendan per noi Bacco ed Alcide,
e ad essi, o Giove, queste mura serba. -
        Mentr’ei ragiona, esce dal fuoco un vampo
orrido e nero, che gli fere il viso,
350e atterra il regal serto e lo consuma:
prima del colpo, di rabbiose spume
il fiero toro sporca il tempio, e fugge
rompendo il cerchio, e con l’insano corno
l’altar percuote, e il sacrifizio turba:
355fuggono i servi, e il sacerdote solo
il Re consola, ed ostinato impone
che si rinnovi il sacrifizio, e cela
sotto forte sembianza il cor dubbioso.
        Tale sull’Eta il glorïoso Alcide,
360benchè sentisse in sen l’occulto fuoco,
e stargli a l’ossa affisso il reo veleno
della biforme spoglia, invitto e forte
diè fine al voto ed offerì gl’incensi.
Ma poi che Nesso vincitore al fine
365serpendo al cuor gli giunse, un alto strido
mise, e fe’ tutto rimbombare il monte.
        Ma lasciata la porta a lui commessa
Epito corre ansante sì, che appena
può avere il fiato, e in male intesi accenti
370a l’attonito Re così favella:
        - I voti lascia e il sacrifizio rompi,
che fuor di tempo a i sordi Numi fai.
Gira a le mura intorno il tuo fratello
su feroce destriero, e l’alte porte
375con l’asta insulta, e te chiamando a nome,
te ad alta voce a mortal pugna appella.
Piangongli dietro i suoi seguaci, ed ambi
gemono i campi, e fan rimbombo e suono
d’armi percosse. Ahi qual orrore! adunque
380un fratel l’altro sfida? Adesso è il tempo,
ora il fulmine tuo fora opportuno,
sommo rettor de i Numi. E qual delitto
fe’ Capaneo più orribile di questo? -
        A cotant’odio inorridissi ed arse
385il Re di sdegno, e parte in mezzo all’ira
sentì piacere del furor fraterno.
Tale il giovenco vincitor, se ascolta,
dopo lungo riposo, il fier rivale
muggir da lungi e minacciar vendetta,
390sta innanzi al gregge, e sbuffa d’ira e freme,
e versa ardenti spume, e il suol percuote
col biforcuto piede, e l’aria vana
col corno fere. N’han terrore i campi,
e le giovenche timide si stanno
395ad aspettar della battaglia il fine.
        Molti dicono al Re: - Lascia che insulti
invan le mura, e disperato e vinto
osi cotanto; a i miseri sol giova
gire incontro a i perigli, e con la speme
400non librare la tema, ed i sicuri
consigli odiare, ed abbracciar gli estremi:
sta fermo, e fida nel tuo trono: a noi
l’armi commetti, e fugherem gli Argivi. -
        Così dicean: ma pien di lutto e d’ira,
405ed a parlar con libertà di guerra
del tutto accinto, ecco sen vien Creonte.
Gli rode il fiero cuor la rimembranza
di Meneceo: nulla del padre afflitto
può sedare la pena: a lui sol pensa,
410lui colla mente abbraccia, e ognor gli sembra
vederlo tutto del suo sangue asperso
dalla torre lanciarsi. Onde sdegnoso
ad Eteòcle, che sta ancor sospeso:
        - Tu pure andrai (diss’egli) o del fratello
415e de i duci il peggior: senza vendetta
non soffrirem che tu di nostre stragi
goda, e de i nostri pianti, unica e infame
delle furie cagione e della guerra.
Assai per te pagate abbiam le pene
420a i spergiurati Numi. Una cittade
d’armi potente e di ricchezze, e piena
poc’anzi pur di cittadine turbe,
tu distruggesti, d’atra peste in guisa
dal ciel discesa e di nemica fame;
425e così vôta ancor l’adombri e premi?
Manca la plebe al giogo: altri insepolti
giaccion privi di fuoco, altri nel mare
portò l’Ismeno, altri le membra tronche
van ricercando; le profonde piaghe
430altri curando van laceri e infermi.
Rendi, crudele, i figli a i padri; rendi
il fratello al fratello; a i tetti, a i campi
rendi gli abitator, rendi i bifolchi.
E dove è il grande Ipseo? Dove Driante?
435Dove l’armi di Focida sonora
e l’euboiche falangi? In giusto Marte
quelli caddero almen: ma tu, mio figlio,
vittima giaci dell’infame regno,
d’agnello in guisa. Oh mia vergogna e scorno!
440Tu con rito crudele a i Numi offerto,
qual primizia a la guerra, e dato a morte
(misero!) fosti, e costui tarda ancora?
e v’è chi ’l chiama? e di pugnar ricusa?
Forse l’empio Tiresia altri per lui
445vorrà che vada? E i vaticini infami
cercan forse di nuovo i pianti miei?
Fuori d’Emone e ch’altro a me più resta?
Manda questo in tua vece, e tu sicuro
mira da un’alta torre il suo periglio.
450E perchè fremi? E perchè guardi in volto
la servil turba c’hai d’intorno? Chiede
ella che tu scenda alla pugna, e paghi
le meritate pene: anche la madre,
anche le tue sorelle in odio t’hanno:
455e d’ira acceso l’esule germano
armi minaccia e morte e delle soglie
spezza i ritegni, e tu sei sordo e lento? -
        Così Creonte, e d’infelice sdegno
smaniava furibondo. A i fieri detti
460così rispose il Re: - Tu non m’inganni:
non il gran fato dell’estinto figlio
è che ti muove: un generoso padre
dovria vantar la glorïosa impresa.
Ma sotto il tuo dolor speme si cela,
465occulta speme e cupidigia infame.
D’infinto lutto infidi voti copri;
e già vicino al regno invan mi premi.
Ma non sia mai che la fortuna avara
tanto abbandoni le sidonie mura,
470che tu non degno di cotanto figlio
re ne divenga. Il vendicarmi fora
facile impresa: ma recate l’armi,
l’armi recate, o servi: al gran duello
discendano i fratelli; il nostro sangue
475può solo mitigare il costui pianto.
Godi del tuo furor; ma al mio ritorno
me ne darai le meritate pene. -
        E qui diè fine alle contese, e l’ira
represse, e ritirò la man dal brando.
480Qual lievemente dal villan percosso
sviluppa l’angue i giri, e da le membra
tutto accoglie a le fauci il fiero tosco;
se dal cammin si leva e cede il passo
il percussor, cessano l’ire, e il collo
485gonfiato indarno s’assottiglia e stende,
ed egli stesso il suo velen ribeve.
        Ma il primo avviso del furor fraterno
appena giunge alla furente madre,
che gli dà fede, e n’ha spavento, e corre
490lacera il crine e il volto, e sanguinosa
e ignuda il petto di Baccante in guisa,
dimenticando la vergogna e il sesso.
Tal di Penteo la madre a l’arduo monte
salia portando il pattuito capo
495del figlio ucciso al crudel Bacco in dono.
Non le giovani figlie e non le ancelle
ponno seguirne i frettolosi passi;
tanto il dolor le accresce forza, e tanto
nel lutto estremo si rinforzan gli anni.
500E di già il Re del rilucente elmetto
gravava il capo, ed impugnava i dardi,
e mirava l’intrepido destriero
delle trombe al fragor farsi più lieto;
quando l’antica madre a lui dinanzi
505fermossi: impallidissi egli, e per tema
impallidiro i servi, e lo scudiero
l’asta, che gli porgea, ritrasse indietro.
        - Qual furor? (disse) e come mai più forte
sorge la Furia a flagellare il regno?
510Voi dunque al fin dopo cotanti mali,
voi pugnerete insieme? E non vi basta
le schiere avverse aver condotto a morte,
comandato il delitto? E dove poi
tornerà il vincitore? In questo seno?
515O fortunate del crudel consorte
cieche palpébre! Di veder la luce
voi pagate la pena, occhi miei lassi,
costretti a rimirar sì infame giorno.
Dove rivolgi il minaccevol volto?
520Perchè ora impallidisci, ora t’arrossi?
E perchè teco mormorando fremi?
Misera me! So ben che a mio dispetto
tu pure andrai: ma prima in questi tetti
forz’è che provi l’ire. In su la soglia
525starò funesto augurio, orrida immago
di vostre sceleranze. A te, crudele,
premer fia d’uopo questo crin canuto,
questo seno infelice, e della madre
spinger feroce il tuo destrier sul ventre.
530Abbi pietà di me: che mi respingi
coll’elsa e collo scudo? A i danni tuoi
io non chiamai con scelerati voti
i Numi inferni, nè con cieca fronte
invocai l’empie Dire. Odi, spietato,
535questa infelice. Non ti prega il padre,
la madre è che ti prega; al gran delitto
frappon dimora, e a ciò che ardisci pensa.
Ma tu dirai che il tuo fratello insulta
le porte e i muri, e te alla pugna appella.
540È ver: ma non si oppone al suo furore
la madre e le sorelle; in questo luogo
ogni cosa ti prega, e piangiam tutti:
là Adrasto appena lo sconsiglia e tiene,
o fors’anche lo spinge; i patrii Lari
545tu lasci, e fuggi da le nostre braccia
precipitoso incontro al tuo fratello. -
        Ma Antigone dolente in quel tumulto
furtiva si sottragge, e non l’arresta
il verginal pudor: quasi Baccante
550vola e non corre, e l’alte mura ascende.
La segue il vecchio suo compagno Attorre.
Ma per l’età non può eguagliarne i passi,
nè giunger de i ripari a l’alte cime.
Fermossi ella pensosa; e pria d’intorno
555rivolse il guardo, e ricercò fra l’armi
il nemico fratello, e poi ch’al fine
lo riconobbe (oh sceleranza!) e il vide
batter coll’asta i muri e colla voce
minacciar morte, il ciel di pianti assorda
560e di querele; indi da l’alte mura
par che voglia gettarsi, e così parla:
        - Raffrena l’armi, e a questa torre alquanto
mira, o germano, e il minaccioso elmetto
nel mio volto rivolgi: i tuoi nemici
565conosci tu? La fede e l’anno alterno
così domandi, e i patti, e ti quereli?
Così la causa del modesto esilio
miglior tu rendi? Per gli Argivi Numi
(giacchè i Tirii non curi) io ti scongiuro,
570e per quel che ami, se pur ami, in Argo,
fratel, l’ira deponi: ecco ten prega
l’un campo e l’altro e le nemiche schiere.
Antigone ten prega a i vostri errori
vittima destinata, e per tuo amore
575al Re sospetta, e sol di te sorella.
Mostrami almeno il volto, e l’elmo sciogli.
Fa ch’io vagheggi almen l’amata faccia
forse l’ultima volta, e fa’ ch’io veggia
se piangi a i miei lamenti: il tuo fratello
580già placato ha la madre, e già depone
il crudel brando, e tu resisti ancora?
A me resisti, che il tuo esilio piango
la notte e il giorno, e i tuoi raminghi errori?
Se tu nol sai, io t’avea fatto amico
585il fiero padre. E perchè purghi e lavi
d’ogni colpa il germano? Egli la fede,
egli corruppe i patti; egli è nocente;
egli crudele a i suoi: sì; ma non scende
da te chiamato a scelerata pugna. -
590 Malgrado di Tesifone, già l’ira
in lui languisce, e già la mano abbassa
l’asta, e più lento il destrier muove, e tace.
Già il pianto sgorga, e più nol cela l’elmo.
Torpe lo sdegno, e sente egual vergogna
595d’esser venuto e di partirsi reo.
Ma respinta la madre, e da l’Erinni
cacciato, esce di Tebe il Re crudele,
e grida: - Io vengo, e questo sol mi duole,
che primier mi chiamasti; e s’io tardai
600non m’accusar: mi ritenea la madre.
O Patria, o fra due Regi incerto regno,
oggi il tuo Re nel vincitore avrai. -
        Nè più placido l’altro: - Alfin (rispose)
la fe’ conosci, al fin consenti al giusto.
605O da gran tempo ricercato invano,
or fratel mi ti mostri: a l’armi dunque;
meco combatti: questa sola legge,
questo è il sol patto che riman fra noi. -
Sì dice, e in lui volge nemico il guardo,
610e invidia il rode in rimirarlo cinto
da turba di seguaci, e su la fronte
portar elmo regale, e il gran destriero
d’ostro coperto, e fiammeggiar lo scudo
di fulgid’oro: ancor ch’ei pur non vile
615splenda nell’armi, e se ne vada adorno
di nobil manto, che con frigi modi
gli avea tessuto di sua mano Argia,
fregiando il bisso con aurate fila.
        Ma già son scesi al militare arringo
620sospinti dalle Furie: al suo campione
ciascuna assiste, e l’ire desta e il guida.
Esse reggono i freni, esse con mano
ne tergon l’armi, e de i destrieri i crini
rendon più folti d’intrecciate serpi.
625Vedesi con orrore in mezzo al campo
consanguineo delitto, enorme guerra
d’un solo ventre uscita, e sotto gli elmi
pugnar due pari e somiglianti aspetti.
Negâr le trombe il segno, e restâr muti
630del fiero Marte i bellici strumenti.
Ma ben d’Abisso l’avido tiranno
tuonò tre volte, e ben tre volte scosse
da l’imo centro il vacillante suolo.
Fuggîr dell’armi i Numi, e la Virtude
635non fu presente; le sue faci spense
Bellona, e Marte spaventato volse
altrove il carro, e del crudel Gorgone
Palla coperse il formidabil teschio,
e si arrossîr le stesse Furie in volto.
640Sta lagrimoso il miserabil vulgo
sparso su i tetti, ed ogni rocca suona
di querele e di pianti: i vecchi han doglia,
che visser tanto: stan le madri afflitte
ignude il seno, e di mirare a i figli
645vietan la sceleraggine fraterna.
Lo stesso Re del Tartaro profondo
apre le porte inferne, e vuol che l’Ombre
Tebane a rimirar l’empio duello
e l’opre de i nipoti, escano al giorno.
650Siedon su i patrii colli in mesto giro,
e turbano la luce, ed han piacere
in veder superati i lor furori.
Ma poi che intese il venerando Adrasto
che con odii palesi erano a fronte,
655nè dal delitto gli ritien vergogna;
vola, e col carro si frappon tra loro.
Per età, per impero egli è ben degno
di riverenza: ma che attender puote
da due cuor sì feroci e sì superbi,
660che al proprio sangue lor non han riguardo?
E pur li prega: - Mirerem noi dunque
o Tirii, o Greci, un sì nefando errore?
E dov’è il dritto? Dove sono i Dei?
Dove ragion di guerra? I cuor feroci
665non indurate: te nemico io prego
(benchè, se l’ira non t’acceca, teco
son pur congiunto); a te l’impongo, e il voglio,
genero; e se pur hai tanta vaghezza
d’impero e scettro, ecco che il regio manto
670mi spoglio, e ten fo dono; or vanne, e solo
e Lerna ed Argo a tuo piacer governa. -
        Ma nulla più muove il parlar soave
negli odii lor quell’anime ostinate,
che lo scitico mar con tutte l’onde
675a i monti Cïanei vieti l’urtarsi.
E poi che invano le preghiere sparse,
e vide i corridor già mossi al corso,
e i furibondi aver già l’aste in mano,
fugge, tutto lasciando in abbandono,
680il genero, le schiere, e Tebe e il campo,
e colla sferza stimola Arïone,
che addietro guarda, e che il destin prevede.
Tale il rettor dell’Ombre e del diviso
mondo l’ultimo erede impallidio
685per la contraria sorte, e il nero carro
spinse sdegnoso nel tartareo centro,
dal cielo escluso e da le pure stelle.
        Non così presto consentì Fortuna
a l’empie voglie, ma sospese alquanto
690lo scelerato barbaro delitto.
Mancâr due volte d’incontrarsi in corso:
due volte i buon destrieri uscîr d’arringo
con lodevole errore, ed altrettante,
senza ferire, andâr le lance a vôto.
695Volgono i freni, e cogli acuti sproni
danno a i destrier non meritata pena.
Il prodigio de i Numi ambe le schiere
commosse, e sorse un mormorare alterno,
un bisbigliar, che si riprendan l’armi,
700che si muovano i campi, e al lor furore
tutto s’opponga della guerra il nerbo.
        Sprezzata da i mortali e da i Celesti
stava del cielo in solitaria parte
dolente la Pietà; non con quel manto
705onde pria giva adorna, o col sembiante
sereno e lieto, ma discinta il seno,
e senza serto, scapigliata i crini,
e pure allor, come sorella e madre,
piangea le pugne ed i furor fraterni;
710e il crudel Giove e l’inumane Parche
accusando, minaccia ir negli abissi
e preferire al ciel le stigie case.
        - Ed a che mi creasti (essa dicea)
o delle cose madre, alma Natura,
715perchè degli animali io l’ire affreni,
e sovente de i Numi? Omai di noi
non v’ha chi prenda cura e ne rispetti.
Oh seme umano! Oh furor empii! Oh Dire!
Oh di Prometeo inique opre nefande!
720Quanto era meglio che lasciasse vôto
Pirra d’abitatori il mondo infame!
Ecco quai genti da le pietre usciro. -
Tacque, e il tempo osservando, - Andiamo (disse)
tentiamo, ancor che invan, turbar la pugna. -
725 Scese dal cielo, e benchè mesta scenda,
segna il sentier di luminosa riga.
Al giunger suo, nuovo di pace amore
nelle schiere s’accese, e del delitto,
quant’era, allor tutto l’orrore apparve.
730D’ogni parte si piange, ed un occulto
ribrezzo al cuor de i due germani serpe:
prende d’uomo sembianza, e d’armi cinta
or questo, or quel rampogna: - E che tardate?
Su v’opponete a le lor furie, o voi,
735a cui fratelli diè natura e figli.
Non veggiam noi che n’han pietade i Numi? -
Lor cadon l’aste: stan ritrosi e fermi
i corridori, e vi si oppon Fortuna.
E già i sospesi cuori avea commossi
740la Dea; ma se ne avvide, e il nuovo inganno
Tesifone conobbe, e vi si oppose
più del fulmine presta, e così disse:
        - C’hai tu che far nelle guerriere imprese,
codardo Nume, e sol di pace amica?
745Cedi: è mio questo campo e questo giorno.
Tardi di Tebe la difesa prendi.
Dov’eri tu quando ne i sacri riti
Bacco a l’armi movea le madri insane?
Dov’allor che bevea l’iniquo stagno
750il serpente di Marte? Allor che i solchi
apriva Cadmo? Allor che Sfinge cadde?
Dove quando d’Edippo a i piè chiedea
la vita il padre? O quando al letto infame
Giocasta andò di nostre faci al lume? -
755In tai detti la sgrida; e lei, che abborre
l’orrido aspetto e ne ritira il volto,
incalza con i serpi e colla face.
Coprissi allor la mesta Dea col manto,
e andò a farne querele innanzi a Giove.
760 Al suo partir sorgon più ardenti l’ire,
e piaccion l’armi, e le nemiche schiere
si fermano a mirar l’empio duello.
E già i fratelli a rinnovar la pugna
si sono accinti, e primo il Re crudele
765appresta i dardi, e primier l’asta vibra.
Vola la feral trave, e per lo scudo
cerca al petto varcar: ma si ritiene
nell’oro e nell’acciaio, e asciutta cade.
L’esule allor sottentra alto gridando
770con funesta preghiera: - O non indarno
Numi invocati dal mio cieco padre,
approvate il delitto! Io non vi faccio
ingiusti voti: purgherò la mano
nel proprio sangue, e questo ferro istesso
775m’immergerò nel sen: sol ch’ei morendo,
collo scettro mi veggia, e questo duolo
porti seco a l’inferno Ombra minore.
Vola l’asta veloce, e tra l’arcione
Passa, e la coscia del nemico, e al fianco
780(per dar due morti a un colpo) il destrier fere.
Ma il cavaliero le ginocchia stende,
e schiva la ferita. Il ferro acuto
resta a le coste del cavallo infisso.
Fugge questo, e non prezza il freno, e in giro
785segna il suo mal col sangue in su l’arena:
n’esulta Polinice, e del fratello
lo stima, ed Eteòcle anch’ei sel crede
per soverchio timor; l’esule allora
tutto il freno rallenta, e forsennato
790corre ad urtare il corridor ferito.
Meschiansi insieme e freni e braccia e dardi,
e s’implican co’ piedi, onde in un fascio
precipitaro avviluppati a terra.
Come due navi, cui confuse il vento
795nel fosco orror di procellosa notte,
spezzano i remi, e mutan vele e sarte,
e dopo lungo e disugual contrasto
co i tenebrosi nembi e con se stesse
nel profondo del mar cadon sommerse:
800tal della pugna enorme era l’aspetto.
Va in bando ogni arte, ogni avvertenza, e invece
l’ira e il furor combatte, e fuor degli elmi
fiammeggian gli odii accesi; e i visi irati
ricercando si van con bieco sguardo.
805Spazio non resta in mezzo, e insiem ristrette
sono mano con man, brando con brando;
s’ode un fremer di denti, un mormorio
fiero, che serve lor per segno e tromba.
        Quali da sdegno e da grand’odio mossi
810due gran cinghiali ad azzuffar si vanno
con torti grifi e rabbuffato pelo:
treman gli occhi sanguigni, e i curvi denti
suonan fremendo: il cacciator da l’alto
li mira, e accenna al fido can che taccia:
815tali pugnano insieme. Ancor mortali
non son le piaghe: ma già il sangue è sparso,
il delitto è compiuto, e delle Furie
più non han d’uopo. Attonite e lodando
quelle si stanno, ed hanno invidia e scorno
820che vinca i lor furori odio mortale.
Ciascun di loro del fratello al sangue
aspira furïoso, e il suo non sente.
L’esule in fine, in cui più forte è l’ira
e più giusto il misfatto, il passo avanza,
825la sua destra animando; e il ferro spinge
laddove mal difende il basso ventre
l’estremo usbergo e la pendente maglia,
ed Eteocle impiaga. Egli ’l dolore
sì tosto non sentì; ma della spada
830inorridillo il gelo, e si restrinse,
e tutto si coprì sotto lo scudo.
Vie più s’accorge Polinice, e gode
che il fratello è ferito, e impazïente
vie più l’incalza, il preme, e lo rampogna:
835 - Dove, o fratello, il piè ritiri e cedi?
Oh fra i sonni avvilito in molli piume,
fra gli agi e gli ozii e dell’impero all’ombra!
Tu vedi un corpo a duro esilio avvezzo
ed a i disastri: a soffrir l’armi impara,
840e non fidarti nelle cose liete. -
Tale fra gl’infelici era la pugna.
Restava ancor qualche di vita avanzo
al duce infame, e star poteva ancora:
ma volontario cadde, e nella morte
845ordì l’estremo inganno. I gridi in alto
salgono, e Citeron rimbomba intorno.
Crede aver vinto Polinice, e al cielo
le mani innalza, ed esclamando dice:
- Bene sta, che non spesi i voti indarno:
850veggio gli occhi ecclissati, e il volto esangue
tutto dipinto di color di morte.
Su tosto alcun lo scettro e il regal serto,
fin ch’ei vede, m’arrechi. - In questi detti
il passo avanza, e appender pensa in voto,
855e quasi opime spoglie, a i patrii tempii
l’armi fraterne, ed a rapirle aspira;
ma il crudel, che ancor vive, e che ritiene
l’anima fuggitiva a la vendetta,
quando sopra gli fu, tutto nel petto
860gl’immerse il ferro, e le reliquie estreme
supplì coll’ira della vita, e lieto
sotto il cuor del fratel lasciò il coltello.
- Oh - disse Polinice - ancor tu vivi?
Ancora dopo te dura il furore,
865perfido e indegno di tranquilla sede?
Meco scendi a l’Inferno: il regno e il patto
ivi ti chiederò, se pur Minosse
più muove l’urna, e gli empii Re castiga. -
Cadde, ciò detto, ed il germano estinto
870con tutto il peso del suo corpo oppresse.
        Andate, alme feroci. Il morir vostro
contamini l’Inferno, e tutte in voi
si consumin dell’Erebo le pene.
E voi, Tartaree Dee, cessate omai
875dal tormentare i miseri mortali.
Un’età sola, un solo giorno vegga,
dovunque è Mondo, un sì crudel delitto.
La memoria sen perda, e per esempio
sen rammentino solo i Re tiranni.
880 Ma poi che il fine del crudel misfatto
e degli empii suoi figli intese Edippo,
da le profonde tenebre sorgendo,
fuori portò la sua imperfetta morte.
D’un antico squallore infetta e lorda
885la canizie del capo e della barba
mostra, e nel sangue l’indurata chioma
il volto spaventevole gli adombra;
scarme ha le guance, e della vôta fronte
appaion brutti i sanguinosi fori.
890Antigone il sostenta al lato manco,
ed al baston la destra mano appoggia.
        Qual se il nocchier dell’infernal palude
abbandonando il legno, ed omai stanco
di varcar Ombre, esce a l’aperto giorno,
895e turba il Sole e gli astri; anch’egli offeso
e impazïente del soverchio lume,
mentr’ei sta lunge da la barca, e cresce
il popolo de i morti, e su le ripe
stanno aspettando i secoli già spenti:
900tal Edippo si mostra, e a la sua duce,
che seco piange: - Mi conduci (esclama)
dove giacciono i figli, e sovra loro
tepidi ancora il fiero padre getta. -
Sta la giovin sospesa, e dubbia teme
905di ciò ch’ei volga in mente: e l’armi e i carri
e i cadaveri insiem confusi e misti
attraversan le strade, e il senil passo
lubrico va su tanta strage, e suda
la miserabil vergine che il guida.
910Ma poi ch’al di lei pianto egli s’accorse
dove giaceano i figli, abbandonossi
con tutto il corpo su le fredde membra.
Senza voci rimane, e giace e mugge
su le profonde piaghe, e parlar tenta;
915ma per dolor non può formar parola.
Mentr’egli tratta gli elmi, ed i nascosi
visi ricerca, furibondo il varco
apre a i chiusi sospiri, e così dice:
        - Tarda, pietà, tu pur tormenti e muovi,
920dopo tant’anni, la mia fiera mente!
Può dunque in questo cuore avere albergo
pietade umana? Hai vinto, alma Natura,
hai vinto alfin quest’infelice padre.
Ecco ch’io pur sospiro, e per le secche
925piaghe degli occhi miei scorre già il pianto,
e la man, che mi squarcia il viso e il seno,
lo segue e lo seconda. Or ricevete,
oh miei crudeli figli, oh troppo miei!
l’estreme esequie d’esecrabil morte.
930Misero! di vederli ancor mi è tolto,
e favellar con essi. E quale abbraccio?
Dimmi, vergin, ti prego? A le vostr’ombre
qual renderò funerea pompa, o figli?
Oh tornassero in me le spente luci,
935e svellerle di nuovo, e un’altra volta
contro il mio capo incrudelir potessi!
Oh duolo! Oh inique preci! Oh più del giusto
voti esauditi d’un feroce padre!
Qual Nume fu che al mio pregar presente
940mi rapì i detti, e li diè in guardia a i Fati?
Ah che a me li dettò l’immonda Erinni,
la madre, il genitore, il regno, e gli occhi
svelti di fronte, e non fur miei quei detti:
per Dite, per le a me grate tenébre,
945per questa mia duce innocente il giuro,
così con degna morte a l’Orco io scenda,
nè Laio da me fugga ombra sdegnosa.
Ahi che ferite! Che fraterni amplessi
misero io tratto! Le inimiche mani
950allentate, o miei figli, e gl’importuni
nodi sciogliete, e questa volta almeno
date tra voi al genitore un luogo. -
Così mentr’ei si lagna, a poco a poco
desio di morte in lui si desta, e il ferro
955occultamente ricercando giva.
Ma lo vietò la vergine, e le spade
con casta man sottrasse. Il vecchio allora
furibondo esclamò: - Dove spariro
l’armi e i ferri omicidi? O Furie, o Dire!
960Son dunque tutti in questi corpi ascosi? -
        Mentr’ei così ragiona, indi ’l rimuove
la sconsolata vergine, e il suo duolo
reprime e tace, e si consola in parte
in rimirar che il fiero padre pianga.
965Ma quando giunse alla regina il grido
dell’impreso duello, il brando trasse,
che riserbava nel più interno albergo,
brando di Laio lagrimevol spoglia:
e poi che molto si lagnò co i Numi,
970col talamo nefando, e colle Furie
degli empii figli, e del primier consorte
con l’ombra: contrastò col debil braccio,
e inclinata sul ferro appena, in petto
al fin l’immerse, e sotto il cuor l’ascose;
975e lacerate le senili vene,
purgò col proprio sangue il letto impuro.
Su la ferita, che gorgoglia e stride,
sen cadde Ismene, e la lavò co i pianti
e la terse col crine. In cotal guisa
980Erigone dolente entro le selve
di Maratone al padre ucciso intorno,
dopo aver tutti consumati i pianti,
disciolse il cinto, ed a morir disposta
giva scegliendo i più robusti rami.
985 Ma già lieto il Destin d’aver delusa
de’ miseri fratelli la speranza,
avea con empia man dato ad un terzo
il regno d’Anfione; e già di Cadmo
sedea sul trono tumido Creonte.
990Misero fin di scelerata guerra!
Per lui pugnaro i miseri fratelli;
e Re l’acclama il bellicoso seme
del serpente di Marte; e il sangue sparso
da Meneceo per le tebane mura
995de’ popoli l’affetto in lui rivolge:
sovra il soglio fatal sale il tiranno
dell’Aonia infelice. Oh di comando
lusinghevol potere! Oh mal sicuro
e infido consigliero, amor di regno!
1000Quando sarà che da i passati esempi
prendan norma i nipoti? Al fier Creonte
ecco già piace star sul trono assiso,
ed impugnare il sanguinoso scettro.
E che non puote in noi lieta fortuna?
1005Di già il padre ammollisce, e il nuovo impero
gli fa scordar di Meneceo la morte.
Gonfio e corrotto dal crudel costume
dell’empia corte, un fier presagio diede,
un’aspra prova del superbo cuore.
1010Vietò le fiamme a i Greci e i roghi estremi,
e al cielo aperto abbandonò gli avanzi
della guerra infelice; e l’Ombre meste
sen gîr prive di sede intorno erranti.
Quinci tornando vêr l’Ogigia porta,
1015in Edippo scontrossi: a prima vista
restò sospeso, e nel suo sè minore
si riconobbe, e raffrenò lo sdegno;
poi ripigliando il regio fasto, il cieco
suo nemico sgridò con detti acerbi:
1020 - Parti, vattene lungi, a i vincitori
funesto augurio, e le tue Furie porta,
crudele, altrove, e le anfionie mura
purga col tuo partir. Tuoi lunghi voti
già s’adempiêr; su via parti, t’invola.
1025Son morti i figli, e che bramar ti resta? -
        Per subito furore inorridissi
il fiero veglio, e la tremante faccia,
quasi il mirasse, gli fissò nel volto:
ed oblïando la vecchiezza e gli anni
1030lascia il bastone a cui s’appoggia, e lascia
la fida scorta, ed appoggiato a l’ira,
queste voci esalò dal gonfio petto:
        - E puoi sì presto incrudelir, Creonte?
Appena usurpi scelerato regno
1035(misero!) e prendi il nostro luogo, calchi
già le ruine de i passati Regi?
Di rogo i vinti, e delle mura privi
i cittadini? Or segui, o veramente
degno di Tebe sostener lo scettro.
1040Questo del tuo regnare è il dì primiero.
Perchè freni il potere, e il regio onore
perchè in sì angusti limiti rinserri?
tu m’intími l’esilio? Oh troppo vile
crudeltà di chi regna! E che non stringi
1045piuttosto il ferro del mio sangue ingordo?
A me dà fede: il puoi. Su fa che venga
il carnefice pronto, e mi recida,
senza timor, l’impavida cervice.
Ardisci: speri tu che supplicante
1050tenda le mani, e tue ginocchia abbracci?
Fingi ch’io il voglia: il soffrirai? Qual pena
puoi minacciarmi? E che temer m’avanza?
Tu vuoi ch’io lasci il patrio suolo? Io prima
volontario lasciai la terra e il cielo,
1055e questa man vendicatrice volsi,
e nissun mi spingea, contro il mio volto.
Or quale impor mi puoi pena maggiore,
inimico tiranno? Io parto, io fuggo
da queste sedi infami. E che rileva
1060dovunque io tragga la mia lunga morte
e le infelici tenebre? A mie preci
qual gente negherà tanto di terra,
quant’io n’occupo in Tebe, ove riposi?
Ma dolce è il suol natio: certo più chiaro
1065per me qui sorge il Sole, e più sereni
mi splendono sul volto il cielo e gli astri;
ed ho qui ancor la genitrice e i figli.
Tua sia pur Tebe, e la governa e reggi
con quegli auspicii con cui Cadmo e Laio
1070ed io stesso la ressi; abbi tu ancora
eguali nozze e sì pietosi figli;
ma non abbia virtù che di tua mano
sottrarti ardisca di fortuna a l’onte,
ma misero e depresso ami la luce.
1075Questi sono i miei voti. Or tu mi guida
altrove, o figlia. Ma perchè compagna
te scelgo al lutto ed a l’esilio? Dammi,
dammi, o gran Re, chi mi conduca altrove. -
        Antigone temè che la lasciasse
1080il padre sola, e si rivolse a i preghi:
        - Per lo novello tuo felice regno,
e del tuo Meneceo per la sant’Ombra,
venerabil Creonte, io ti scongiuro,
perdona ad un afflitto i detti altieri.
1085Tale lo fêr le lunghe sue querele.
Nè teco sol, ma col Destin, co i Numi
così ragiona, e ben sovente meco
non è più mite: tanto il duol l’inaspra.
Questa infelice libertà gli ferve,
1090già buona pezza, nel feroce petto,
e insaziabil desio di cruda morte.
Non vedi con quant’arte egli procura
muoverti a sdegno e provocar le pene?
Ma tu (così fortuna ognor t’accresca
1095impero e onor) non conculcar chi giace,
e de i passati Re l’urne rispetta.
Anche costui sublime in trono e cinto
d’armi e d’armati, un tempo, a gl’infelici
aita porse, e a tutti eguale, il giusto
1100diede a chi ’l chiese; e pur di tanto stuolo
una sola compagna a lui rimase,
e non ancora era cacciato in bando.
E questi può turbar la tua fortuna?
Dunque contro costui tutti gli sdegni,
1105tutte le forze del tuo regno impieghi?
Costui mandi in esilio? Forse temi
che strida alle tue porte, e a te d’intorno
con augurio funesto ognor s’aggiri?
Non dubitare: il menerò lontano
1110dalle tue soglie a lamentarsi, e il fiero
animo ammollirò, tanto che impari
ad ubbidirti. Io lo terrò diviso
da ogni commercio in chiusa cella ascoso.
Questo sarà il suo esilio: e quale estrana
1115terra vuoi tu che l’infelice accetti?
Vuoi tu che vada in Argo, o alla nemica
Micene errando squallido ed afflitto?
O del già vinto Adrasto in su le porte
canti le Furie dell’aonio regno?
1120Vuoi tu che dal Re d’Argo un Re di Tebe
mendichi il vitto? Dell’afflitta gente
e che mai giova divulgar gli errori,
e le nostre vergogne e i nostri scorni?
Deh celati li tieni, io te ne prego,
1125nè già molto ti chieggio: abbi pietade
di questo vecchio ed infelice padre.
Permetti sol che poca terra il copra,
che qui deponga il mortal velo: lice
seppellire i Tebani. - In cotal guisa
1130pregando, sul terren si volge, e piange.
Ma il fiero padre indi la svelle, e sdegna
chieder perdono, e minaccioso freme.
        Come leon che nella verde etade
fu de i monti terrore e delle selve,
1135rotto dagli anni, e di già pigro e lento
sen sta giacendo sotto eccelsa rupe,
ma pur conserva l’orrido sembiante,
e terribile è ancor nella vecchiezza:
se lungi ode mugghiar giovenche e tori,
1140alza le inferme orecchie, e di se stesso
e del primo vigor ei si rammenta,
e geme e duolsi che più forti belve,
de i campi suoi, tengano allor l’impero.
        Si piega a i pianti il Re crudele, e parte
1145concede, e parte nega: - Al natio suolo
non andrai lungi (dice); a me sol basta
che non profani coll’infausto aspetto
i sacri tempii e i cittadini alberghi.
Delle fiere i covili e il tuo Citero
1150stanza degna saran de la tua notte,
e i campi ove già fur l’aspre battaglie,
ove nel comun sangue involta giace
e l’una e l’altra gente. - Ei così parla,
e tumido ritorna al regio albergo
1155fra i finti applausi e il simulato assenso
de i cortigiani e de l’afflitto vulgo.
        Lasciano intanto l’infelice campo
furtivamente gli avviliti Greci.
Nissun segue le insegne o il proprio duce,
1160ma fuggon sparsi; e d’un’indegna vita
prendon più cura e d’un ritorno infame,
che d’una illustre e glorïosa morte.
Li seconda la notte, e li ricopre
col grato orror di sue benefich’ombre.