La Tebaide/Libro secondo

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Libro secondo

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ETEOCLE RICUSA DI OSSERVAR I PATTI


 
Il veloce di Maia alato figlio
tornava intanto da le gelid’ombre,
eseguito di Giove il gran decreto.
Fangli ritardo al piè, ritardo al volo
5le dense nubi e ’l torbid’aer fosco;
nè lo portano i Zeffiri volanti,
ma di quel muto ciel l’aura maligna:
gli attraversan le strade i fiumi ardenti,
e Stige rea, che nove campi cinge.
10Lo siegue con infermo e tardo passo
la pallida di Laio ombra tremante:
dal ferro parricida egli ancor porta
trafitto il petto, ed altamente impresso
lo primo sdegno de le Furie ultrici;
15pur va, ed appoggia a debil legno il fianco.
Ne stupiscono l’ombre, e i boschi e i campi
d’Inferno; e il suol, che s’apre e fuor li manda,
d’essersi aperto meraviglia prende.
Ma il livor, che in se stesso i denti volge,
20turba gli spirti ancor privi di luce,
e del suo rio velen tutti gl’infetta:
ed un fra gli altri, cui vivendo increbbe
de l’altrui bene e s’allegrò ne’ mali,
nè può patir che Laio ora sen torni
25a vagheggiar la luce, i sensi amari
del cuor palesa con maligni accenti.
        - Oh te felice, a qualunque opra eletta,
alma, che torni al chiaro aer sereno!
O così Giove il voglia, o te rimeni
30Tesifone crudele infra i mortali,
o te richiami da l’oscuro avello
Tessala maga con la bocca immonda.
Tu pur vedrai del sole e de le stelle
la vaga luce, e i verdeggianti campi,
35e i puri fonti e i cristallini fiumi:
tanto misera più, quanto fra noi
hai da tornar ne le ciec’ombre eterne. -
        Sentilli intanto Cerbero, e rizzossi,
e le tre bocche aprendo e le tre gole
40orrende, mandò fuori urli e latrati.
Già prima ancora minacciando stava
l’alme scendenti a le tartaree porte;
ma con la fatal verga in Lete immersa
toccollo il Nume, e de le orrende fronti
45in grave sonno le sei luci chiuse.
        È un monte ne l’Inachia, ove s’estolle
il capo di Malea, Tenaro detto,
sublime sì che non vi giunge il guardo:
alza la fronte al cielo, e ognor sereno
50mira sotto di sè le nebbie, e sprezza
e la grandine e i turbini sonori.
Le risplendenti stelle e i venti lassi
su lui prendon riposo e fan soggiorno:
giunger ben ponno a la metà del monte
55le oscure nubi, ma a l’eccelso giogo
salir non può presto volar di penne,
nè i rauchi tuoni o le saette ardenti:
ma là, dove l’Egeo gli bagna il piede,
curva in arco gli scogli, e un porto forma.
60Ivi quando a la sera il dì s’appressa,
e del monte nel mar l’ombra è maggiore,
scende Nettun dal carro, e i destrier scioglie.
Hanno i destrier la fronte e il largo petto
qual hanno i nostri, e il deretano è pesce.
65In cotal luogo antica fama suona,
che s’apra obliqua e tenebrosa via,
per cui le pallid’ombre e il vulgo esangue
scendon dolenti a le tartaree porte,
il regno a popolar del nero Giove.
70E se diam fede agli arcadi coloni,
suonan per molte miglia i campi intorno
d’urli e di pianti e di stridor di denti.
Sovente udite fur nel pieno giorno
le voci de l’Eumenidi spietate,
75e le sferze e i flagelli, ed i latrati
del Can trifauce; onde lasciaro inculti
gli sbigottiti agricoltori i solchi.
Per questa strada il messaggero alato
tra la densa caligine ritorna
80al chiaro giorno, e giù dal crin scotendo
l’infernal nebbia, il puro aer respira.
Indi alto va su le cittadi e i campi
verso l’Arturo, ed in quell’ora appunto
che a mezzo del cammin Cintia risplende.
85Il Sonno intanto de la Notte il carro
guidava e i destrier foschi; e com’ei vide
il nume, alzossi ed onorollo, e torse
dal cammin dritto, a lui cedendo il passo.
Vola più sotto del Tebano l’ombra,
90e rivagheggia le perdute stelle,
il patrio cielo e il suo terren natio.
E già di Cirra trapassati i gioghi
e Focida di Laio ancor aspersa
del fresco sangue, erano giunti a Tebe.
95Fremè l’ombra superba in su le soglie
de’ patrii Lari, e fu a l’entrar restia:
ma poich’entrato, le sue spoglie vide
pender da le colonne, e il carro, ov’egli
ucciso fu, tutto sanguigno e lordo,
100poco mancò che non volgesse il piede,
non curato di Giove il sommo impero,
e ’l gran poter del caduceo fatale.
        Ricorreva in quel tempo il dì festivo
segnato già dal fulmine di Giove,
105allor che Bacco non maturo ancora
fu dal materno incenerito seno
tratto, e riposto nel paterno fianco
a terminar di nove lune il corso.
Perciò passata avean l’intera notte
110senza dormire i popoli feroci
che vennero da Tiro, e in feste e in giuochi
sparsi pe’ i tetti e per li verdi campi,
cinti d’edera il crine, e di già vuote
le tazze e i vasi del miglior Lieo,
115gían esalando su la nuova luce
da l’anelante petto il Dio giocondo.
S’udian per tutto rimbombare i vuoti
bossi, e di bronzo i timpani sonanti:
e il Nume, il Nume stesso iva cacciando
120le non feroci donne in su ’l Citero,
le mani armate d’innocenti tirsi.
Siccome là sul Rodope gelato
i crudi Traci a fier convito uniti
di semivive carni e de le prede
125tratte di bocca de’ leoni ingordi,
pascon la dura fame; e il puro latte
condisce in parte il sanguinoso pasto,
e di lor mense è sol delizia e lusso;
se del teban liquor senton a caso
130l’odore e il gusto, di furor accesi
lanciansi e tazze e vasi, e alfin le pietre,
e poi di sangue ancor stillanti e molli
tornano a desco a rinnovar le feste:
Tal fu la notte ch’entro Tebe giunse
135l’ombra sdegnosa e ’l messaggero alato.
Invisibili entrâr per l’aria cheta,
ove il signor de l’echionia plebe
alto giacea sovra i tappeti assiri
d’oro e porpora intesti. Oh de’ mortali
140de l’avvenir non consapevol mente!
Ei le mense ha dinanzi, e dorme e posa,
e ’l suo destino ignora. Allora l’Ombra
s’accinge a l’opra; e per celar le larve
l’oscuro volto di Tiresia finge
145e ’l parlar noto; ma il canuto crine,
e la sua lunga barba e il suo pallore
veri ritiene: l’infula, le bende
d’oliva intorte son sembianze vane,
ed è vana la voce; e pur ei sembra,
150che la man stenda, e con la sacra verga
gli tocchi ’l petto, e il suo destin gli scopra.
        - Tu dormi, o Re? Ma non è questo il tempo
di riposar su l’ozïose piume,
senza sospetto aver del tuo germano.
155Gran nembo ti sovrasta, e gravi cure
te richiaman dal sonno; e neghittoso
ten stai, come nocchier che ’n mar turbato,
commosso intorno da rabbiosi venti,
lasci ’l timone, e s’addormenti e posi?
160Ma già non dorme il tuo fratel, superbo
per nuove nozze; e (come fama suona)
genti accoglie e soccorsi, ed a te il regno,
per non renderlo poi, ritoglier pensa,
ed invecchiar ne la natia sua corte.
165La dote d’Argo e ’l suocero fatale
gli aggiungon forza; e seco unito è in lega
Tideo macchiato del fraterno sangue.
Giove, di te mosso a pietà, da l’alto
a te mi manda: Egli per me t’impone
170che ’l germano crudel, che te dal regno
escluder tenta, tu dal regno escluda,
e renda vani i suoi pensier funesti,
e ’l desio c’ha de la fraterna morte.
Tu non soffrir che ad Argo ed a Micene
175serva divenga la guerriera Tebe. -
Disse; e perchè già la novella luce
a l’Inferno il respinge, il finto aspetto
lascia, e del crin le simulate bende
spoglia, e al nipote manifesta l’avo:
180poi sovra il letto se gli stende, e aperta
mostra l’immensa piaga, e lui, che dorme,
del sangue, che non ha, tutto ricopre.
Quegli allor lascia il sonno, e in terra sbalza
da l’alto letto pien di larve e mostri,
185e ’l vano sangue da sè scuote, e sente
orror de l’avo, e già ’l fratel ricerca.
Come de’ cacciatori al corso e al grido
la tigre arruffa la macchiata pelle,
apre le irate fauci, e l’unghie spiega
190e a battaglia s’appresta: indi si lancia
nel folto stuolo, e vivo uno ne prende,
ed alto il porta a satollar la fame
de’ crudi figli: in cotal guisa acceso
d’ira Eteócle incrudelisce e sbuffa,
195e col fratello in suo pensier guerreggia.
        Ma già lasciando di Titone il letto
sorgea l’Aurora, e dileguava intorno
l’umid’ombre notturne, e da le chiome
giù stillava rugiade, e rosseggiante
200era, ed accesa dal vicino Sole.
Dinanzi a lei Lucifero il destriero
in tarda fuga volge, e tardi spegne
la vaga face, e ’l ciel non suo le cede,
perfin che Febo, il gran signor de’ lumi,
205rischiari il mondo e la germana oscuri.
A lo spuntar del dì lascian le piume
il vecchio Adrasto ed il teban guerriero
e ’l calidonio eroe. Dopo la pugna
e l’orrida procella aveva il sonno
210da tutto il corno su gli eroi stranieri
versata a piena man l’onda letea.
Ma l’Inachio signor, che in mente ha fissi
gli augurii e i Numi e ’l nuovo ospizio, e pensa
qual sia il destin de’ generi fatali,
215breve goduta avea pace e riposo.
Giunti che furo del real palagio
ne la gran sala, si toccâr le destre.
Allora Adrasto in più rimota parte,
ove soleva i più segreti e gravi
220affar del regno consultar, guidolli,
e assisi in cerchio, agli ospiti sospesi,
e che pendean da lui, tai detti sciolse:
        - Certo non senza de gli Dei mistero,
giovani eccelsi, vi guidò la notte
225entro a’ miei regni, e ’l procelloso nembo
e i fulmini di Giove. Apollo istesso,
Apollo a i tetti miei drizzovvi il passo.
A voi, cred’io, come a la greca gente
è noto già con quanti studi e voti
230stuolo d’illustri Proci a me le nozze
chiedano de le figlie. (A me due figlie
crescon sotto felice ed ugual stella
de’ futuri nipoti unica speme).
Quale modestia in lor, qual sia beltade,
235voi vel vedeste; non si creda al padre.
Queste cercano a prova i Regi invitti
grandi per armi e per impero. Io taccio
i Proceri Laconi e i Foronei,
e quante madri le bramâr per nuore:
240non il tuo Eneo tanti sprezzò mariti
a la sua figlia, nè il pisan crudele
tanti ne uccise co i cavai veloci.
Ma d’Elide o di Sparta il Fato nega
che i generi io mi scelga; e a voi destina
245con lung’ordin di cose il sangue mio,
le dolci figlie, e questo trono e il regno.
Sien grazie a i Numi: io pur vi veggio quali
per stirpe e per valore a me conviene,
e fur lieti gli augurii: a tanto onore
250i procellosi nembi vi guidaro,
e questa è al sangue vostro alta mercede. -
        Qui tacque Adrasto; e si miraro in viso
i guerrier, quasi l’uno a l’altro voglia
ceder de la risposta il primo onore.
255Ma Tideo impazïente alfin proruppe:
        - O quanto parcamente a noi favelli,
buon re, de le tue lodi! O quanto vinci
con la virtù la tua fortuna! Adrasto
a chi cede d’impero? Ed a chi ignoto
260è omai che tu dal tuo primiero soglio
di Sicïon fosti chiamato, i rozzi
costumi a raddolcir de’ fieri Argivi?
Ed oh così in tua man Giove ponesse
quanto l’Istmo riserra, e quanto abbraccia
265di qua, di là con due diversi mari!
Non fuggirebbe da Micene il sole,
per non veder le scelerate mense;
nè gemerebbe la campagna elea
sotto i sanguigni carri; e l’empie Dire
270non turberian più regni: e ben lo prova
or Polinice, e a gran ragion sen duole.
Noi accettiamo il dono, e tu disponi,
buon Re, di noi, chè ne fia legge il cenno.
        Così diss’egli; ed il Teban soggiunse:
275- E chi può ricusar suocero Adrasto?
Noi, quantunque l’esilio a noi men grata
Venere renda, in te posiam le cure,
e le sgombriamo da gli afflitti petti,
il dolor nostro convertendo in gioia.
280Così nocchier respira e si rallegra,
che scopre il lido amico e il vicin porto.
Or giovi a noi sotto i tuoi fausti auspicii
in tua corte passar quanto ne avanza
di vita, e in te ripor le nostre sorti. -
285 Sorsero allora, e s’abbracciaro: Adrasto
rinnovò i giuramenti e le promesse
di ricondurli ne i paterni regni.
Tutt’Argo è in festa, e da per tutto il grido
si sparge de i due generi novelli;
290che a l’uno Argia, a l’altro il Re destina
Deifile non men vaga e vezzosa,
già mature a i legitimi imenei.
        La Fama intanto ne divulga il suono
per le cittadi amiche, e per li regni
295e prossimi e rimoti, oltre le selve
di Licia e di Partenia, e là ne i campi
de l’ondosa Corinto, e infin penétra
la Dea maligna ne l’Ogigia Tebe,
e di sè tutta la riempie intorno.
300Narra gli ospizi, i giuramenti, i patti,
le nuove nozze, e ciò che vide in sogno
il Re conferma, e la commuove e turba.
Chi tanta libertà, tanto furore
concesse a questo mostro? Ei già la guerra
305minaccia, e di discordia alza la face.
Ma già risplende in Argo il dì festivo
destinato a le nozze: i regii tetti
s’empion di lieta e festeggiante turba.
Bello è il veder le immagini de gli avi
310spirar ne i bronzi tanto al ver simíli,
che l’arte reca a la natura oltraggio.
Inaco re con le due corna in fronte
mirasi in fianco riposar su l’urna;
seguono appresso lui Jaso canuto,
315e Foroneo legislatore, e il forte
guerriero Abante; e Acrisio ancor sdegnoso
d’aver genero Giove; e ’l buon Corebo
col ferro in pugno, de la fiera uccisa
alto portando il formidabil teschio;
320e la torva di Danao austera immago,
che sta pensosa ancor sul gran delitto;
poscia mill’altri Regi. Intanto accorre
il vulgo, e tutto il gran palagio inonda.
Ma i senator ne i gradi lor distinti,
325chi presso e chi lontano al Re fan cerchio.
Dentro risuonan le più interne celle
di femminil tumulto, e a’ sacri altari
ardon gl’incensi, e porgon voti a i Numi.
Fanno d’intorno a le reali spose
330casta corona le matrone argive;
e alcuna de le vergini pudiche
rassicura il timore, e le dispone
a le leggi e a i dover de l’imeneo.
Esse sen vanno e d’abito e d’aspetto
335ragguardevoli in vista e maestose,
di modesto rossor tinte le gote,
con gli occhi a terra chini; e sol le turba
di lor verginità l’ultimo amore,
e del loro pudor la prima colpa.
340Scendon da’ vaghi lumi alcune stille,
quasi rugiada ad irrigarne i seni.
Il genitor sel vede, e sen compiace.
Tali scendon talor Palla e Diana
dal cielo insieme ambe di dardi armate,
345ambe in volto feroci, i biondi crini
dietro del capo in vago nodo attorti:
l’una da Cinto, d’Aracinto l’altra
guida le vaghe sue leggiadre Ninfe;
se tu le miri (se mirarle lice),
350non sai quale più onori, o quale appaia
più vaga, o qual sia più di grazie adorna;
e se tra lor con egual cambio l’armi
volessero mutar, ben converrebbe
a Palla la faretra, a Cintia l’elmo.
355 Intanto il popol d’Argo in ogni tempio,
ciascun secondo il suo potere, a i Numi
fan sacrifici: altri di grassi tori,
altri d’agnelle, altri di puro incenso;
nè son graditi men, s’è il cor divoto.
360Quand’ecco strano e subito spavento
(così volea la Parca) il lieto giorno
turba, e tutto d’orror riempie il padre.
Givan al tempio le due vaghe spose,
fra lieta turba e mille faci ardenti,
365de la casta Minerva, a cui Larissa
più grata è assai de’ suoi Munichii colli.
Ivi solean le verginelle argive,
destinate a le nozze, a la gran Dea
le primizie libar de i vaghi crini,
370e scusa far de’ talami novelli.
Ora mentre salian lieti e festivi
per gli alti gradi al tempio, il grave scudo
de l’arcadico Evippo al tetto appeso
giù d’improvviso rovinando cadde,
375e le faci e le tede e il sacro fuoco
del tutto spense; e rauco suon di tromba
da i sotterranei uscì, che di spavento
d’empier finì gli sbigottiti Argivi.
Tutti guardano il Re, che non dà segno
380di tema; allor l’adulatrice turba
nega d’avere il tristo augurio udito,
ma lo riserba in mente, e sen discorre
per tutto, ed il terror cresce parlando.
Ma che stupor? Se dal tuo collo pende
385il fatale d’Harmonia empio monile,
dono del tuo consorte, o bella Argia?
Lungo, ma noto è l’ordine de’ mali
de l’infausto monile, e pur mi giova
tutta narrarne la dolente istoria.
390Dacchè Vulcan ne la nascosa rete
prese l’infida sposa e ’l fiero drudo,
nè però vide a sè cessar lo scorno,
nè le insidie di Marte; ei si dispose
in sembianza di dono a far vendetta
395ne l’innocente lor misera figlia.
Impiegò tosto nel feral lavoro
i suoi Ciclopi e i tre Telchini infami,
ed ei più d’altri faticò ne l’opra:
ei v’inserì molti smeraldi ardenti
400d’occulta luce, e più diamanti impressi
d’immagini funeste, e del Gorgone
gli occhi maligni, e il cener su l’incude
avanzato de i fulmini celesti,
e de i dragon le squamme, e l’oro infausto
405de i pomi de l’Esperidi e del vello
del reo monton di Frisso, e varie pesti,
e del crin di Megera il maggior serpe,
e del venereo cinto il reo potere;
e con l’umide spume a Cintia prese
410temprò il fatal monile, e lo cosperse
tutto d’allegro micidial veneno.
Non fur presenti Pasitea gentile,
nè le minor sorelle, nè il diletto,
nè l’Idalio fanciullo: il lutto, l’ira,
415il dolor, la discordia a l’opra infame
porsero aiuto, e n’affrettaro il fine.
Prima fu Harmonia a risentirne il danno,
chè il serpeggiante suo vecchio marito
per gl’Illirici campi or va seguendo
420mutata in biscia, e sibilando duolsi.
Semele poi se n’era ornata appena,
che venne a lei l’insidïosa Giuno.
Questa in sembianza d’ôr lucida peste
te pur fregiò, Giocasta: ed a qual letto,
425misera! A quali nozze? Indi molt’altre
ne provaro il veleno: ora nel petto
splende d’Argia, che col monile infausto
de la germana il parco culto eccede.
Ma del Vate, da’ Fati omai richiesto,
430l’avara moglie il vide, e in lei destossi
tosto l’invidia, ed un’ardente brama
di possedere l’esecrabil oro.
Che giova a lei l’aver comune il letto
con l’argivo indovino? Oh quante stragi!
435Oh quanti lutti a sè prepara! Degni
inver di lei; ma l’innocente sposo
in che peccò? Qual v’hanno colpa i figli?
        Poichè dodici volte ebbe fugate
dal ciel le stelle la vermiglia Aurora,
440a le reali feste ed a i conviti
fu posto fine. Polinice allora
volse il pensiero a l’anfionie mura,
e al patrio regno. A lui ritorna in mente
il dì che la Fortuna alzò il fratello
445a l’echionio trono, ed ei rimase
privato e in odio a’ Numi, e con la sorte
vide fuggirsi i poco fidi amici.
Sol la minor sorella in su l’estreme
soglie seguillo ed abbracciollo; ed egli
450per soverchio furor rattenne il pianto.
Or l’infelice in suo pensier rivolge,
o spunti in cielo il sole, o ’l dì s’imbruni,
quali del suo partir restâr giulivi,
e quai dolenti, e l’alterigia e il fasto
455del superbo germano: il cuor gli rode
vendetta e sdegno, e de’ più rei tormenti
il maggior, la speranza e lunga e incerta.
Da tai cure agitato, egli risolve
tornar (segua che puote) a la natia
460Dirce e a i Beozi campi, e su l’avito
trono di Cadmo, che il fratel gli nega.
        Siccome toro, che guidò l’armento
gran tempo, dal rival vinto e fugato
lungi dal natio pasco e da l’amata
465giovenca, mugge dal profondo petto,
e disdegnoso sprezza il fonte e l’erba;
se le piaghe risana, e il muscoloso
petto rinfranca, e il vigor nuovo acquista,
torna superbo a miglior pugna accinto
470al prato antico ed al primiero amore;
sparge col piè l’arena, arruota il corno;
lo teme il vincitor; restan confusi,
e ’l riconoscon i bifolchi appena:
non altrimenti il giovane tebano
475medita nel suo cuor l’alta vendetta.
Ma ben s’avvide la pudica moglie,
qual ei volgesse in sè consiglio occulto;
e in mezzo a i casti mattutini amplessi
tra mille baci, a lui piangendo disse:
480- Quali moti, Signor? Che fuga è questa
che ordisci? Non s’inganna accorta amante:
i sospiri, i lamenti e gl’inquïeti
sonni i disegni tuoi mi fan palesi.
O quante volte, o quante io le man stendo,
485e sento il cuore palpitarti in petto,
ed il viso talor di pianto molle!
A me non preme l’ancor fresca fede
di nostre nozze, nè che tu mi lasci
vedova e sola in giovanetta etade;
490quantunque è in me d’Amor viva la face,
e ’l nostro letto non ben caldo ancora;
a me, dolce mio sposo, a me sol preme
la tua salvezza. E disarmato e solo
tu dunque andrai ne’ tuoi paterni regni?
495E se ’l fratel li nega? ed in qual modo
fuggirai tu da la tua Ogigia Tebe?
Ahi che la Fama, che più i Regi osserva,
narra di lui quant’è superbo e altiero
per l’usurpato soglio, e (non ancora
500finito l’anno) contro te crudele.
Io temo e tremo, e accrescono il terrore
le fatidiche voci, e le interiora
de le vittime infauste e i Numi irati,
e il volo de gli augelli e i tristi sogni;
505ah che giammai non m’ingannaro i sogni,
qualor Giuno m’apparve! E dove corri,
misero? Se pur te segreto amore
e un suocero miglior non chiama a Tebe! -
        Sorrise allora il giovane Tebano
510del van sospetto de la cara moglie,
e se la strinse al seno, e con più baci
tempronne il duolo e rasciugonne il pianto.
        - Deh sgombra, anima mia, sgombra il timore
(disse), e confida: a’ giusti voti i Numi
515saran propizi, e a le dolenti notti
succederà più d’una lieta aurora.
L’alte cure di Stato a la tua etade
non convengono ancora: il sommo Giove
sa qual fine si debba a giusta impresa,
520se Astrea pur è lassuso, e s’ei riguarda
quaggiù le cose e vuol che ’l dritto vinca.
Verrà (o ch’io spero) il fortunato giorno
che salirai col tuo consorte in trono,
e andrai di due città donna e regina. -
525Qui tacque, e abbandonò le amiche piume:
poi con Tideo s’unì, de le sue pene
e de le cure sue fido compagno:
(cotanto amor dopo la pugna e ’l sangue
era nato fra lor), e al vecchio Adrasto
530chiese dolente il già promesso aiuto.
Ei raduna il senato, e dopo molti
e diversi pareri, alfine sembra
il partito miglior che alcun si mandi,
che ’l pattuito vicendevol regno
535ad Eteocle chieda, e tenti prima
le pacifiche vie del suo ritorno.
Così conchiuso, il Calidonio audace
sè stesso offrì: ma quanto duolo, ahi quanto,
Etolo eroe, la tua fedel consorte,
540Deifile gentil, del tuo partire
risente! E che non fece, e che non disse?
Quanto pianse e pregò per ritenerti?
Ma del padre il voler, ma la pietade
de la germana e ’l dritto de le genti
545che i messaggi assicura, alfin la vinse.
Part’egli intanto, e già passato avea
aspri cammin per cupe selve e colli,
là dove ferve la lernea palude
co’ venefici flutti, ancor fumante
550per gli arsi capi da l’erculeo braccio;
e dove in la nemea valle non s’ode
de’ timidi pastor voce, nè canto;
indi era giunto a le corintie spiagge
esposte al soffio orïental de’ venti;
555ed al porto di Sisifo; e là dove
il Lecheo palemonio il mare affrena.
Poscia a Niso si volge, e alla sinistra
lasciando Eleusi a Cerere diletta,
ei calca infine di Teumesia i campi,
560e pone il piè ne l’Agenorea rocca.
Vede Eteócle in alto trono assiso
dar legge a Tebe oltre il confin de l’anno,
e del regno non suo, ma del fratello:
torvo d’aspetto, che ben mostra fuori
565l’animo aver ad ogni colpa pronto.
E appunto ei si ridea che così tardi
se gli chiedesse il patto. Allor fermossi
Tideo nel mezzo: il ramuscel d’oliva,
ch’ei porta in mano, messagger lo scopre.
570Chiesto poscia del nome e qual cagione
ivi lo meni, il tutto fa palese;
e come rozzo nel parlar e a l’ira
pronto e disposto, la sua giusta inchiesta
mischiò in tal guisa con parole amare.
575 - Se in te regnasse fede, e se de’ patti
cura prendessi, al tuo fratel ramingo
tu dovevi mandar, finito l’anno,
ambasciatori e richiamarlo al trono,
e con pronto voler, con cuore invitto
580lasciar la tua fortuna e ’l non tuo regno,
tanto che anch’egli da’ suoi lunghi errori
per ignote cittadi e da’ disastri
ne la promessa sua corte respiri.
Ma già che tanto in te può amor d’impero
585e di comando, che l’altrui ritieni,
noi te ’l chiediamo: ha già trascorso il Sole
per tutti i segni, da che i duri casi
del tristo esilio il tuo fratel sopporta.
Or tempo è bene che tu ancora impari
590andartene ramingo al caldo, al gelo
ne l’altrui case a mendicar l’albergo.
Pon modo, poni a la tua sorte: assai,
ricco d’oro e di gemme e d’ostro adorno,
del tuo fratel la povertà schernisti.
595Il piacer di regnar scordati alquanto;
soffri l’esilio, e sofferendo degno
ti renderai di ritornar sul trono. -
Sì disse: e ’l Re già torbido inquïeto
ardea nel cuore di furore e sdegno.
600Siccome serpe, cui per lunga sete
crebbe il velen ne le natie latebre,
da tutti i membri lo raccoglie al collo
e a la trisulca lingua; indi si lancia
contro il pastor, che lo ferì col sasso.
605Così Eteócle tumido ed altiero
diede a i feroci detti aspra risposta:
        - Certo se l’odio, se ’l furor, se l’ira
dubbi fossero a me del mio germano,
e non ne avessi manifesti segni,
610l’altiero tuo parlar ne faria fede.
Così al vivo l’esprimi e ne minacci
con rabbia tal, come se fosser svelte
da’ fondamenti le anfionie mura,
e tutta andasse Tebe a ferro e a fuoco.
615Se a’ feroci Bistonii ed a’ gelati
Sciti lontani dal cammin del Sole
messaggero tu fosti, in più discreti
modi so ben che parleresti, e fiero
non calcheresti de le genti il dritto.
620Ma perchè te accusar? Tu del fratello
porti le furie e ’l reo mandato esponi.
Or perchè tutto hai di minacce pieno,
nè con modi pacifici richiedi
il regno e i patti, al mio fratello argivo
625tale in mio nome porterai risposta:
        "Quello scettro, che a me la sorte e gli anni
hanno concesso, giustamente io tengo,
nè lascerollo. Te l’inachia dote,
te di Danao i tesor rendan contento;
630(già non invidio la tua gloria e ’l fasto)
tu reggi pure con felici auspicii
ed Argo e Lerna: a me l’orride zolle
bastan di Dirce, e di Beozia i campi
pochi e ristretti da l’euboico mare,
635nè mi vergogno Edippo aver per padre.
Te Tantalo, te Pelope, te Giove,
cui più t’accosti, fanno illustre e chiaro.
Come potrà la tua Regina, avvezza
a lo splendor paterno, a queste case
640povere e anguste accostumare il guardo,
cui le nostre germane umili e abiette
già fatte ancelle fileran le lane?
Come soffrir potrà la sconsolata
suocera antica? E da le sue caverne
645se urlar sentirà il padre, ahi quale orrore,
quale dispetto non ne avrà? Già il vulgo,
già i nobili e ’l senato al giogo nostro
avvezzi sono, e ne son paghi. Io dunque,
io non ne avrò pietà? Soffrir degg’io
650che mutino ad ognor principe e leggi?
Troppo a i popoli è duro un breve regno,
e offrir gli omaggi a incognito tiranno.
Mira tu stesso qual li prende orrore,
e sdegno e tema del periglio nostro:
655e questi io darò a te, per farne scempio?
Or fa’ ch’io ’l voglia: nol vorranno i Padri,
(se la lor fede, se l’onor m’è noto),
la plebe nol vorrà". - Qui impazïente
Tideo interruppe: - Il renderai malgrado,
660il renderai; non se di ferreo vallo
tu ti circondi, o l’anfionia cetra
formi triplice muro a Tebe intorno;
non le faci, non l’armi il tuo castigo
impediranno; e moribondo e vinto
665al suol percuoterai la regia fronte.
E tu a ragion... Ma di costor, crudele,
mi duol, che a guisa di giumenti e schiavi
tratti dal sen de le consorti afflitte
lungi da’ figli, a certa morte mandi.
670O quante stragi porterà il Citero!
Di quanto sangue correrà l’Ismeno!
Questa è la tua pietà? Questa è la fede?
Ma che stupor, se de l’iniqua schiatta
fu crudele l’autore, e incestuoso
675il padre? Benchè il sangue in Polinice
falla, e tu solo de l’infame Edippo
sei degno figlio; e patirai le pene
tu solo ancor. Noi ti chiediamo il patto,
e l’anno nostro. Ma che bado? - Allora
680fin da l’estreme soglie minacciando
urta, ed apre la turba, e irato parte.
        Così ’l fiero cinghial, che da l’irata
Diana offesa a desolar fu spinto
d’Oeneo i campi, al suon de l’armi greche
685arruffò il pelo, e con l’acute zanne
rivoltò i sassi e lacerò le piante
che su le ripe a l’Acheloo fann’ombra;
indi Piritoo e Telamon ferio,
poscia pugnò con Meleagro, a cui
690restò la gloria de l’uccisa belva:
tale, e più fiero il calidonio eroe
lascia il concilio, e furibondo freme,
come se a sè, non al cognato, il regno
negato fosse; e ’l ramuscel d’oliva,
695segno di pace, da sè lungi scaglia.
Miranlo d’alto le dolenti spose
e le pallide madri, e contro lui
fanno orribili voti e contro il rege,
che negò ’l giusto e se lo fe’ nemico.
700 Ma il malvagio tiranno, a cui non manca
arte e sapere in ordir frodi e inganni,
de’ più forti guerrieri e a lui più fidi
scelta una schiera, con promesse e doni
al tradimento li dispone e compra,
705e prepara a Tideo notturno assalto;
nè al sacro nome d’orator, nè al sacro
diritto de le genti omai pon mente.
Empio furor di regno, e che non osi?
O se dato a costui fosse il fratello,
710qual ne farebbe scempio? O de l’inique
menti ciechi consigli! O da’ delitti
non mai disgiunte diffidenza e tema!
Ecco come costui contro d’un solo
non altrimenti tanta gente aduna,
715che se ad un campo egli movesse assalto,
o col frequente urtar degli arïeti
d’assediata città battesse il muro.
Escon costoro, e son cinquanta insieme
fuor de le porte: o glorioso, o prode
720guerrier, contro cui sol muovon tant’armi!
E vanno per angusta e breve via
di spine cinta attraversando il bosco,
per assalire al passo il gran campione.
Sonvi due colli a la città vicini,
725cui li monti maggior fann’ombra eterna,
cinti d’intorno da un’opaca selva,
da’ quali s’esce per angusto calle.
È naturale il sito; e pur ei sembra
da l’arte fatto ad occultar gli agguati.
730S’apre per mezzo a’ sassi un piccol varco
e disastroso, che conduce a l’erto
e periglioso passo: indi i soggetti
campi miransi intorno, e valli e fiumi.
Sorge a l’incontro la tremenda rupe
735albergo de la Sfinge: in su quel sasso
stava già un tempo la terribil belva
pallida il volto e macilente, e gli occhi
lividi e torvi, con le immonde penne
di sangue intrise, e con le fiere labbia
740iva lambendo i lacerati avanzi
de’ passaggeri uccisi; intanto il guardo
girava intorno ad ispiar se alcuno
colà salisse, e temerario osasse
contender seco a sviluppar gli enimmi:
745tosto aguzzava i fieri denti, e l’ugne
spiegava, e dibattendo i pigri vanni,
gli si lanciava al viso, e de la rupe
col capo in giù lo fea cader da l’alto.
Fur felici gl’inganni, insin ch’Edippo
750giunse, e spiegò l’ambagi: allora il mostro
tristo e confuso, senza batter ali,
precipitò se stesso; e ’l fiero ventre,
e le viscere infami infrante e sparse
andaro per le rocce e pe’ i burroni.
755Conserva ancor contaminato il bosco
l’orror del mostro, e da que’ paschi infami
vanno lungi le gregge: a la nocente
ombra non vengon mai Fauni o Silvani,
nè le Driadi vezzose; ed i rapaci
760augelli e i fieri lupi il volo e il passo
(tal li prende terror) volgono altrove.
        In questo luogo l’insidiosa turba
riserbata a morir s’appiatta, e cinge
di guardie il bosco, ed appoggiata a l’aste
765l’etolo eroe stassi attendendo al varco.
Di già Febo è sparito, e già la notte
stende l’umido velo e il mondo adombra.
Ed ecco ei s’avvicina, e da eminente
luogo e di Cintia al vacillante raggio
770scorge da lungi balenar gli scudi
tra ramo e ramo de le turme ostili,
e su i cimieri tremolar le piume.
Vede, stupisce, e non però s’arretra;
ma colla mano il brando tenta, e poi
775due dardi impugna, e minaccioso grida:
        - Chi siete voi, guerrier, chè vi celate? -
Nissun risponde: ond’ei vie più sospetta
che avrà dura al passaggio aspra contesa.
Quand’ecco intanto dal robusto braccio
780di Cromio, condottier de la masnada,
vibrata un’asta fende l’aria a volo;
ma i Numi e ’l Fato fur contrari al colpo:
fora però la setolosa pelle
de l’olenio cinghiale, ond’ei si copre,
785e l’omero sinistro a lui radendo,
gli striscia il collo e passa il ferro asciutto.
Arruffò il crine allor l’etolo eroe,
e tutto se gli strinse il sangue al core:
rivolge intorno il guardo e ’l fer sembiante
790pallido per lo sdegno; e appena crede
che contro un sol stieno tant’armi ascose.
- Uscite (grida) a campo aperto, uscite,
appiattati guerrier, ch’io non m’ascondo.
A me, a me vi rivolgete: e quale
795timore vi raffrena? Oh che viltade!
Io solo, io sol tutti vi sfido a guerra. -
Rupper gl’indugi al suon de’ detti audaci
i tebani guerrieri, e d’ogni parte
uscîr d’agguato in numeroso stuolo,
800maggior di quello ch’ei pensò, da l’alto
correndo a lui e da la bassa valle.
Così cingon talor di reti e d’aste
i cacciatori le feroci belve;
e par che al peso di tant’armi e al lume
805tutt’arda e tremi quella selva antica.
Vede Tideo che a sua difesa giova
guardar le spalle, e de la Sfinge al sasso
sen corre, e benchè sia scosceso ed erto,
tanto s’appiglia con le adunche mani
810a scaglie e a greppi, che a la fin v’ascende.
Giunto ch’egli è de l’alta rupe in cima,
ne svelse un rozzo e smisurato sasso
pesante sì, che strascinarlo appena
due affannati giovenchi a collo steso
815potrian d’un edifizio al gran lavoro.
Poi tutte le sue forze in un raccolte
l’alza da terra, e lo sospende e libra;
indi lo scaglia. Così Folo appunto
contro i Lapiti rei lanciò il gran vaso.
820Mira in aria il gran monte, e ne stupisce
l’iniqua turba, che va incontro a morte,
e oppressa ne rimane: i visi, i petti,
le forti braccia, e in un l’armi e gli armati
restano infranti, stritolati e misti.
825Quattro fur quei che da la grave mole
distrutti furo, e non d’ignobil gente;
onde gli altri smarriti andaro in fuga.
Dorila il primo fu che per valore
si pareggiava a’ Regi; indi Terone
830fiero per gli avi suoi, ch’egli traeva
da’ denti del dragon già sacro a Marte;
il terzo domatore de’ destrieri,
bench’or pedestre muoia, Alì feroce.
Tu pur da Penteo discendente, in ira
835e in odio a Bacco, o Fedimo, cadesti.
Poichè li vede in fuga, egli i due dardi,
che tiene in man, lor dietro vibra, e poi
balza dal monte a più vicina guerra.
Vede lo scudo di Teron, che ’l sasso
840avea lungi da lui fatto cadere,
e l’imbraccia e ’l solleva, e contro i dardi
e contro l’aste si ricopre, ed usa
de l’ostile riparo in sua difesa;
indi fermossi: i masnadieri allora,
845che lo scorsero al pian, voltâr la fronte,
e contro lui mosser serrati insieme.
Egli trae fuori il formidabil brando,
dono di Marte al suo gran padre Eneo,
e d’ogni parte mira, e questi assale,
850e quei respinge, e col fulmineo ferro
l’aste recide e le saette ostili.
La densa turba s’impedisce, e s’ode
elmo con elmo urtar, scudo con scudo:
son vani i loro sforzi, e ben sovente
855per troppa fretta l’un l’altro ferisce,
e l’un su l’altro cade. Egli sta immoto,
angusto segno a cotant’armi, e sembra
inespugnabil rocca o quercia alpestre.
Quale il gran Briareo di tutto il cielo
860sostenne in Flegra la potenza e l’armi,
quando Febo con strali, e col Gorgone
Pallade, e Marte col bistonio cerro
gli stavan contro, e Sterope era stanco
in apprestar tante saette a Giove;
865da tante forze combattuto e cinto,
ei si dolea che fosser pigri i Numi:
con non minor furor Tideo combatte,
ed or s’avanza, or si ritira, e sempre
con lo scudo si copre, e i tremolanti
870dardi ne svelle, e contro chi lanciolli
irato li rimanda, e di già il sangue
gli esce da non mortali e lievi piaghe.
Deiloco e Fegea, che con la scure
già l’assaliva, uccide e a Lete manda;
875e appresso a questi d’Echion disceso
Licofroonte, e il fiero Gía dirceo.
Rimirano i fellon la loro schiera
scema de’ miglior capi, e in essi il fiero
desio di pugna già languisce e manca.
880Ma Cromio, che da Cadmo il sangue tragge,
avanza il passo: (Driope fenice
a lui fu madre, e n’avea l’alvo grave,
quando ne’ giuochi sacri a Bacco avendo
per l’ardue corna un fiero toro preso,
885nel gran contrasto il partorì immaturo).
Fiero ei pe’ dardi, e per la spoglia altero
d’un leon, ch’egli avea poc’anzi ucciso,
ruotando in giro una nodosa clava,
alto gli altri rampogna: - Adunque un solo
890uom da tant’armi e tanti armati cinto
tornerà in Argo vincitore? Appena
si troverà chi ’l creda. Ah miei compagni,
ove sono le destre, ove il valore?
ove le spade e l’aste? È questo quello,
895Lampo e Cidon, che promettemmo al Rege? -
Mentr’ei così minaccia, ecco uno strale
che ne le fauci ’l coglie, e per la gola
gorgoglia il suono, e gl’impedisce il sangue
che di fuor esca. Egli tardò a cadere
900sinchè, la morte in tutt’i membri sparsa,
vie più l’asta mordendo, ei cadde al suolo.
Ma già non lascio voi, di Tespio figli,
senza il dovuto onor. Perifa il primo,
mentre con man pietosa il moribondo
905fratel sostiene (mai pietà maggiore,
nè un’indole miglior de’ due germani
fu vista al mondo) e ’l già languente collo;
e mentre co’ sospir preme l’usbergo,
e l’elmo inonda col dirotto pianto,
910ecco al fianco gli giunge il crudo cerro
de l’etolo campione, e lo conficca
al fratel moribondo: ambi cadéro,
e l’ultimo ferito al di già estinto
germano affissa gli occhi, e con la fioca
915voce che ancor gli avanza, a Tideo dice:
- Tali a te diano abbracciamenti e baci,
o barbaro guerriero, i figli tuoi. -
Così giacquero entrambi: o dura sorte!
Nacquer, visser, moriro uniti insieme.
920Non bada sopra lor Tideo, ma l’asta
ricovra, e con la stessa e con lo scudo
Menete fuggitivo incalza e preme:
fugg’egli, ma fuggendo inciampa e cade.
Allor le mani stende, e mercè grida,
925e l’asta impugna, e quanto può, dal collo
la tien lontana, e in cotai detti prega:
- Deh, per queste stellate ombre, per questa
tua glorïosa notte e per i Numi
perdona a me, tanto che a Tebe vada,
930a predicare del tuo invitto braccio
l’eccelse prove, del tiranno ad onta.
Così sian sempre rintuzzate e vane
contro te le nostr’armi, ed il tuo petto
impenetrabil resti a’ colpi nostri,
935e al fido amico trionfante rieda. -
Tacque; e Tideo, senza mutar sembiante:
- Che piangi? (disse) e perchè preghi invano?
Tu pur giurasti al fier tiranno, iniquo,
questo mio capo: or lascia l’armi, e muori.
940A che mercare con viltà la vita?
Restan stragi maggiori. - E così detto
il ferro immerge a lui nel collo, e passa,
e insulta a’ vinti con acerbi motti:
        - Questa non è la sacra al vostro Nume
945triennal notte; nè guidate in giro
gli Orgii di Cadmo, nè ’l furor materno
profana quivi i sacrifici a Bacco.
Forse vi credevate, ebbri e festosi,
cinti d’edera il crine e ’l petto armato
950del vile cuoio de le belve imbelli,
al molle suon di cornamuse e flauti
guidar le vostre fanciullesche guerre
d’uomini forti indegne? Altr’armi, altr’ire
fan d’uopo qui. Gite a portar sotterra,
955o pochi, o vili, il vostro scorno e l’onta. -
        Così minaccia; ma le forze intanto
mancando vanno, e l’agitato sangue
affanna il core; e ’n vani colpi il braccio
s’aggira, e sotto gli vacilla il piede:
960lo scudo grave per tant’armi e rotto
più non può sostener: da l’anelante
petto distilla un gelido sudore;
e tutto è intriso il crin, le mani e ’l volto
del tetro sangue de’ nemici uccisi.
965Qual massile leon, che posti in fuga
i guardïani de l’imbelle armento,
a quel s’avventa furibondo e altero,
e se n’empie le fauci e ’l ventre ingordo:
saziata infine la sua ingorda fame,
970l’ira depone, e le mascelle invano
battendo, fra i cadaveri passeggia,
e la strage contempla e lambe il sangue:
così ancora Tideo di stragi carco,
ito sarebbe a Tebe, e al fier tiranno
975e a l’atterrita plebe il suo trionfo
mostrato avrebbe; ma frenò l’ardire
e ’l fiero core del gran fatto gonfio
la sempre amica a lui Tritonia Dea.
        - O del grand’Eneo generoso figlio,
980(diss’ella) a cui già promettiamo in Tebe
maggior trionfo, a le felici imprese
pon modo omai, nè più tentare i Numi
fin qui propizi: a la grand’opra manca
sol questo, che tu in Argo ora ritorni
985sicuro e pago di tua lieta sorte. -
        Restava vivo sol tra tanti estinti
l’emonide Meone: egli del cielo
conoscea i moti e degli augelli il volo,
e ’l fiero caso avea predetto al Rege,
990da lui schernito e non creduto: il Fato
gli fe’ negar la fede. A l’infelice
dona l’odiata vita il gran Tideo,
e un crudel patto a lui tremante impone:
        - O qualunque tu sia, che fra costoro
995tolto di mano agl’Infernali Dei,
rivedrai pure la vicina luce,
al tuo spergiuro Re questo dirai:
"Rinforza omai le porte, e rinnovella
l’armi e raddoppia gli ordini e le schiere,
1000e Tebe cingi di più forte vallo.
Questo campo fumar mira nel sangue
de’ tuoi guerrieri da un sol brando uccisi:
tali in battaglia ti verrem noi sopra".
        Ciò detto, a te, sacra Tritonia Dea,
1005de le acquistate spoglie alto sublime
trofeo prepara, e le raccoglie e lieto
le porta, e va contando i suoi trionfi.
Sovra eminente bica, a’ campi in mezzo
posta un’antica annosa quercia sorge
1010di dura scorza e di frondosi rami,
che stende l’ombra largamente intorno.
A questa appende l’etolo guerriero
gli elmi leggeri ed i forati arnesi,
e l’aste e i brandi tronchi; indi su quelle
1015alto si ferma e su i nemici uccisi,
ed apre il varco a la preghiera; al voto
eco fanno la notte e i boschi e i monti.
        - Guerriera Dea, Genio ed onor del padre,
cui di terror leggiadro adorna il volto
1020l’elmo lucente, e ’l fier Gorgone impugni;
di cui Bellona e ’l furibondo Marte
spingon men fieri a guerreggiar le schiere;
tu grata accogli il sacrificio e ’l voto.
O ch’or tu venga a rimirar la nostra
1025pugna da la città di Pandïone;
o ne l’aonia Itome ora tu meni
danze e carole con le ninfe amiche;
o che tu lungo il libico Tritone
le sterili giumente al corso affretti:
1030noi a te i busti de’ guerrieri uccisi
sacriamo, e l’armi e le sanguigne spoglie.
Ma se avverrà che dal mio duro esilio
ritorni un giorno al partaonio regno
e a Pleurone guerriera, io ti prometto
1035nel mezzo a la cittade alzarti un tempio,
ricco di scelti marmi e di molt’oro.
Quindi grato fia mirar da l’alto
L’Ionio procelloso, e l’Acheloo
fender il mare, e con la rapid’onda
1040de l’Echinadi opposte urtar ne’ lidi.
Ivi saran degli avi miei le imprese
scolpite, e i venerabili sembianti
de’ magnanimi Regi: a l’alto tetto
staranno appese l’armi, e aggiungerovvi
1045le spoglie opime che col sangue sparso
ho conquistate, e quelle che di Tebe
tu mi prometti, o tutelar mio Nume.
Ivi a te serviran ben cento e cento
d’attico culto vergini pudiche,
1050che t’arderan le caste faci e ’l puro
liquore de la pianta a te diletta.
Una sacerdotessa antica e grave
conserverà perpetuo il sacro fuoco
e terrà occulti i tuoi pudichi arcani.
1055A te sia in guerra, a te sia in pace, sempre
le primizie offrirò d’ogni mio fatto;
nè i voti nostri invidierà Diana. -
Disse, e ad Argo tornò su l’orme prime.