La capanna dello zio Tom/Capo XVII

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XVII. La difesa dell’uomo libero

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Harriet Beecher Stowe - La capanna dello zio Tom (1853)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1871)
XVII. La difesa dell’uomo libero
Capo XVI Capo XVIII

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CAPO XVII.


La difesa dell’uomo libero.


Nella casa dei quaccheri, mentre il giorno inclinava alla sera, notavasi un leggero rumore e un insolito affaccendarsi. Rachele Halliday andava senza fare strepito or qua or là, raccogliendo da’ suoi armadii tutte le provigioni necessarie e che si potessero ridurre a picciolo volume per i fuggitivi, i quali doveano partire al giungere della notte. Le ombre della sera già cominciavano a stendersi dalla parte di Oriente: il vermiglio disco del sole stava pensosamente presso all’estremo lembo dell’orizzonte, e illuminava del tranquillo suo raggio la cameretta ove sedeano Giorgio e la sua sposa. Egli teneva il suo figliuoletto sulle ginocchia, e la mano di Elisa nella sua. Ambedue parevano immersi in tristi pensieri, e sulle loro guancie si vedeano traccie di lagrime.

— «Sì, Elisa — disse Giorgio — conosco che ciò che tu di’ è vero. Tu sei una buona ragazza, migliore assai che non sono io: e farò di seguire in tutto le norme che tu mi dài: voglio che la mia condotta sia degna d’uomo libero, degna di cristiano. Iddio onnipotente sa che furono sempre rettissime le mie intenzioni, che mi sforzai di far bene quando pure m’era avversa ogni cosa. Ed ora voglio porre in oblio tutto il passato, cacciare ogni sentimento di rancore, leggere la mia Bibbia, ed imparare ad essere un uomo virtuoso.»

— «E quando noi saremo al Canadà — soggiunse Elisa — io potrò esserti d’aiuto. Io so far vesti, lavare assai bene e stirare; sicchè mercè il lavoro di ambedue si potrà guadagnare con che vivere onestamente.»

— «Sì, Elisa, noi saremo felici, se indivisi. Oh Elisa! Se tutti potessero comprendere quanto è dolce ad un uomo il sentire che la sua sposa e i figli gli appartengono! Io spesso ebbi grande maraviglia vedendo uomini che aveano moglie e figli ch’erano loro, veramente loro, travagliarsi d’altri pensieri. Ora io mi sento ricco e forte, quando pure non avessimo altro che le nostre braccia: non chieggo a Dio nulla di più. Sì, io lavorai pertinacemente ogni dì finchè giunsi all’età di venticinque anni; e non ho un soldo, non un tetto che mi dia asilo, non un palmo di terra che mi appartenga: ma pure, ove mi lascino viver libero, io sono pago abbastanza. [p. 189 modifica]Quanto al mio antico padrone, io l’ho rimborsato sovrabbondantemente delle spese ch’egli fece per me: non gli sono più debitore di nulla.»

— «Ma non siamo ancora usciti di pericolo — disse Elisa; — al Canadà non ci siamo ancora.»

— «È vero — riprese Giorgio; — ma parmi ch’io respiri un’aria libera, ond’io prendo conforto e vigore.»

In quel momento s’udirono alcune voci dalla stanza vicina che s’avvicendavano in dialogo assai vivace. Subito poi un picchio alla porta. Elisa trasalì, ed aperse.

S’affacciò Simeone Halliday, e con lui un altro quacchero ch’egli presentò sotto il nome di Finea Fletcher. Finea era alto della persona e magro: rossa la capigliatura; un viso da cui traspariva una singolare accortezza ed astuzia. Ei non aveva già l’aria placida, mite, contemplativa di Simeone Halliday; pareva anzi pieno di sicurezza e di risoluzione, come uomo che conosca il suo merito, e ne sia altero, e stia sempre avvisato; tutte qualità che mal s’accordavano al suo largo cappello ed alla sua fraseologia.

— «Il nostro amico Finea ha scoperto qualche cosa che s’attiene al tuo interesse, o Giorgio, e a quello de’ tuoi — disse Simeone. — Ti torna molto l’udirlo.»

— «Ecco di che si tratta — disse Finea — e vedrete quanto sia necessario in certe condizioni star continuamente con un’orecchia tesa anche dormendo, come ho detto più volte. Ier sera io mi trovava in una piccola osteria laggiù presso alla strada. Ti dei ricordare del sito, Simeone. E l'osteria ove l’anno scorso vendemmo le mele a quella donna corpacciuta che avea enormi orecchini. Or bene, io era spossato dal lungo cammino: dopo cena, attendendo che mi fosse apparecchiato il letto, mi sdraiava sovra un mucchio di sacchi in un canto, e mi copersi con una pelle di bufalo. Quindi m’addormentai.»

— «Con un’orecchia tesa?» domandò tranquillamente Simeone.

— «No veramente: erano ben chiuse nel sonno tutte due, poichè io era stanchissimo. Ma tostochè mi riscossi un cotal poco, mi accorsi che stavano in quella stessa camera alcuni uomini, seduti intorno a una tavola bevendo e ciarlando. Siccome mi era giunta all’orecchio la parola quacchero, stimai cosa prudente, prima di mostrarmi, sapere di che parlassero. — Sicchè, disse uno di loro, se ne stanno nascosti nella casa del quacchero: non c’è dubbio. — Allora stetti in orecchi, ascoltando attentamente ogni loro parola, e conobbi che parlavano dei fatti vostri. Senza volerlo, mi chiarirono di tutti i loro disegni. Il giovane, dicevano, sarà rimandato al Kentucky al suo antico padrone, il quale te lo concierà per modo, che di qui innanzi non verrà più a’ negri il ghiribizzo di darla a [p. 190 modifica]gambe. Quanto alla donna, due di loro han fatto disegno di recarla alla Nuova-Orleans, e colà venderla, e sperano guadagnare mille seicento o mille ottocento dollari. Il fanciullo poi, secondo ch’essi dicevano, è già venduto ad un trafficante di negri. Parlavano anche dello schiavo Gim e di sua madre, e fecero intendere che li ricondurrebbero nel Kentucky a’ loro antichi padroni. Dissero pure che s’attendevano da un vicino villaggio due constabili per dirigere le operazioni, e che la donna sarebbe tratta dinanzi al giudice. Uno di questi mariuoli, un omicciuolo dalle parole melate, promise ch’egli attesterebbe con giuramento, che quella giovine gli appartiene, e se la farebbe rilasciare per condurla al Sud. Essi conoscono assai bene la strada che noi dobbiam prendere questa notte, e ci seguiranno: saranno sei o sette. Or che dobbiam noi fare?»

Il gruppo, che stava in diversi atteggiamenti, dopo queste comunicazioni, era degno d’esser ritratto da un valente pennello. Rachele Halliday, che aveva terminato allora di preparare un’infornata di biscotti, all’udir quelle novelle alzava al cielo le mani infarinate, mostrando in volto il più profondo dolore: Simeone era assorto in cupi pensieri: Elisa avea gettato le braccia intorno al collo del marito, e stava guardandolo in atto di grande pietà: Giorgio colle pugna chiuse, con occhi di fiamma, mostrava tutto il furore che può provare l’infelice il quale senta che sua moglie sarà venduta all’asta, e il figliuolo abbandonato a un mercante, e che, per più strazio, queste iniquità avranno la protezione delle leggi di una nazione cristiana.

— «Che faremo, Giorgio?» chiese Elisa con languida voce.

— «So ben io che farò» rispose Giorgio.

E passando nella piccola stanza, prese ad esaminare le sue pistole.

— «Ohimè — disse Finea a Simeone scuotendo la testa — tu vedi che cosa si prepara.»

— «Lo vedo — disse Simeone sospirando: — e prego il cielo che non si giunga a tale estremo.»

— «Io non voglio — disse Giorgio — che alcuno si ponga a pericolo con me o per mia cagione. Se volete imprestarmi la vostra carrozza e indicarmi la via, noi ce ne anderemo soli fino alla prossima fermata. Gim è forte come un gigante, ardito come la morte e la disperazione, e tale sono anch’io.»

— «Ah! bene, amico — disse Finea — ma tu hai pur bisogno d’una guida. Puoi batterti a tua posta, se così ti piace: ma io conosco certi tratti della strada, che tu non conosci per nulla.»

— «Ma io non voglio mettervi in un impiccio.»

— «Mettermi in un impiccio? — rispose Finea con un curioso atteggiamento di sorpresa beffarda. Quando riuscirai a metter me in un impiccio, abbi la compiacenza di farmelo sapere.»

[p. 191 modifica]— «Finea è un uomo accorto e prudente — disse Simeone. — Faresti ottima cosa. Giorgio, ad attenerti a’ consigli di lui. Anzi tutto bisogna non essere troppo avventati — soggiunse, posandogli amichevolmente la mano sovra una spalla ed accennando le pistole. — I giovani hanno il sangue bollente.»

— «Io non sarò il primo ad assalire alcuno — rispose Giorgio. — Non chieggo da questo paese, che di lasciarmi partire liberamente. Io me ne andrò tranquillamente. Ma...»

Qui tacque un istante; la sua fronte si corrugò; il viso si sparse d’una subita fiamma.

— «Mia sorella fu venduta sul mercato della Nuova-Orleans: e so bene a che le donne vi sono vendute. Ed io starò indolentemente a vedermi rapire la moglie e disonorarla, mentre Iddio mi ha dato un paio di braccia vigorose per difenderla? No: Iddio m’aiuta. Io combatterò sino all’ultimo sospiro, innanzi che mi tolgano la moglie ed il figlio. Potete forse biasimarmi?»

— «Alcun mortale non potrebbe biasimarti, Giorgio. La carne e il sangue non possono operare altrimenti — disse Simeone. Guai al mondo a cagione degli scandali: ma guai a colui per cui viene lo scandalo!»

— «Non fareste voi lo stesso, signore, se vi trovaste in mio luogo?»

— «Io prego Iddio mi preservi dall’esser tentato. La carne è inferma.»

— «Io penso che in simile circostanza la mia carne avrebbe una forza bastante — disse Finea, stendendo un paio di braccia simili alle ali di un molino a vento. — Parmi, amico Giorgio, che ove tu abbia a saldare qualche conto con alcuno di quei furfanti, io ti aiuterò molto volentieri.»

— «Se l’uomo dovesse mai resistere al malvagio — disse Simeone — questo certamente per Giorgio sarebbe il caso. Ma coloro che guidano il nostro popolo ci insegnano una via molto migliore; perocchè la collera dell’uomo non opera già la giustizia di Dio; ma ciò incresce alla volontà corrotta dell’uomo; e niuno sa soggettarvisi, salvo coloro a cui è dato. Epperò noi preghiamo a Dio, che non ci lasci tentare.»

— «Fo lo stesso anch’io — disse Finea. — Ma se fossimo tentati oltre le nostre forze.... Abbiamo dunque giudizio: questo a quel che importa.»

— «Ben si vede che tu non nascesti tra’ quaccheri — disse Simeone sorridendo; — di tratto in tratto lasci trapelar qualche cosa della tua indole prima.»

Ei dicea vero. Finea era lungamente vissuto tra i boschi, terribile alle fiere; ma avendo posto amore ad una leggiadra quacchera, era stato mosso dal potere delle attrattive di lei, ad entrare nella società degli [p. 192 modifica]Amici: e quantunque egli fosse onesto, sobrio, operoso, e non si potesse allegare particolarmente cosa alcuna contro a lui, pure coloro ch’erano i più spirituali in quella società, trovavano che nel complesso ei lasciava ancor molto a desiderare.

— «L’amico Finea ha certi modi tutti suoi — disse Rachele Halliday, sorridendo; — ma ciascun di noi e persuaso ch’egli ha un ottimo cuore.»

— «Non sarebbe miglior consiglio — disse Giorgio — che noi sollecitassimo la nostra fuga?»

— «Io m’alzai alle quattro del mattino — disse Finea — e venni a tutta fretta; avremo pertanto, se pongono ad effetto il loro disegno, un vantaggio su loro di due o tre ore. Partire innanzi che l’aria sia affatto scura sarebbe imprudenza; poichè ne’ villaggi vi hanno certi tristi, che potrebbero darci non poca noia, se s’avvedessero del nostro viaggio, e cagionarci qualche ritardo. Fra due ore potremo partire senza pericolo. Io vo a cercare di Michele Cross, per pregarlo ch’ei salga a cavallo e ci segua, e osservi attentamente lungo la via, e ci faccia avvertiti se per avventura c’inseguissero. Michele ha un cavallo eccellente che può vincerne molti nel corso. Ove ci sovrasti qualche pericolo, ei ci raggiungerà di leggeri e ce ne darà avviso. Intanto vado ad avvertire Gim e la vecchia che si tengano pronti, e siano pure apprestati i cavalli. La fortuna ci è propizia, e v’è tutta la probabilità che noi giungiamo alla prima stazione prima ch’essi si pongano sulle nostre orme. Coraggio dunque, amico Giorgio! ch’io di siffatte imprese ne ho già condotte a buon fine più d’una.»

Ciò detto, Finea chiuse la porta.

— «Finea è accorto — disse Simeone. — Egli farà per te tutto il possibile.»

— «Ma mi duole estremamente — disse Giorgio — del rischio a cui vi ponete.»

— «Non franca la spesa di parlarne, amico Giorgio. Quanto facciamo ci è comandato dalla nostra coscienza, nè potremmo fare altrimenti. — Ed ora, o madre — diss’egli, voltosi a Rachele — affretta i tuoi preparativi; che certo non vogliamo che se ne partano digiuni.»

E mentre Rachele e i suoi figli erano occupati a far cuocere le focacce, il prosciutto e i polli, e apprestavano tutte le altre cose attenenti alla cena, Giorgio e sua moglie si ritrassero nella loro cameretta, e quivi colle lagrime agli occhi si abbracciavano, e pensavano che tra poche ore potevano forse venir disgiunti senza speranza.

— «Elisa — disse Giorgio — coloro che hanno amici e case e terre e denari, non possono certo amarsi fra loro così ardentemente come noi, [p. 193 modifica]ciascuno de’ quali non ha nulla al mondo fuorchè l’altro. Fino al dì ch’io ti conobbi, Elisa, niuna umana creatura mi aveva amato, fuorchè la povera mia madre e la sorella. Io vidi la infelice Emilia la mattina di quel La vecchia negra, tocca di profonda pietà, prese a’ sorreggere sulle sue ginocchia la testa del ferito. Capo XVII.


dì in cui il trafficante se la tolse via. Ella venne presso al cantuccio ov’io dormiva, e mi disse: — Povero Giorgio! la tua ultima amica se ne va. Che sarà di te? poveretto! — Mi alzai; me la strinsi al petto singhiozzando; ed ella pure singhiozzava. Corsero dieci anni senza ch’io udissi [p. 194 modifica]altre parole di affetto. Il mio cuore s’era chiuso ed inaridito; finchè io ti vidi. E tu mi amasti! Il tuo amore mi trasse da morte a vita. Ed ora, Elisa, io verserò il mio sangue fino all’ultima stilla anzi che ti strappino dalle mie braccia. Perchè t’abbiano, sarà loro forza di passare prima sul mio cadavere.»

— «O Dio, abbiate pietà di noi! — disse Elisa singhiozzando. — Ci conceda di uscire insieme di questo paese; non gli chiediamo di più.»

— «Iddio sta per loro! — disse Giorgio, piuttosto per disfogare l’amarezza del proprio cuore, che per rispondere alla moglie. — Perchè mai permette egli tali iniquità? Ed osano dirci che la Bibbia le approva? Ah! essi hanno la forza, sono ricchi, sani, felici: sono membri d’una chiesa, e sperano il cielo. Oh! la via del cielo non è molto angusta per loro. E tanti poveri e onesti cristiani; tanti cristiani si buoni come essi, o anche migliori, giacciono nella polvere calpestati da cotestoro: essi li vendono e li comprano, fanno mercato del sangue del loro cuore, dei loro gemiti, delle loro lagrime. E Iddio non vi bada!»

— «Amico Giorgio — gridò Simeone dalla cucina — ascolta questo salmo: può giovarti assai.»

Giorgio trasse la sua seggiola presso l’uscio; ed Elisa, asciugandosi le lacrime, si fece innanzi per udire, mentre Simeone leggeva ciò che segue:

«Quanto è a me, quasi che incapparono i miei piedi; come nulla mancò che i miei passi non isdrucciolassero.

Perciocchè io portava invidia agl’insensati, veggendo la prosperità degli empi.

Perciocchè non vi sono alcuni legami alla lor morte; e la lor forza è prosperosa.

Quando gli altri uomini sono in travagli, essi non vi son punto, e non ricevono battiture col rimanente degli uomini.

Perciò la superbia li cinge a guisa di collana: la violenza gl’involge come una veste.

Gli occhi escono loro fuori per lo grasso: avanzano l’imaginazione del cuor loro.

Son dissoluti, e per malizia ragionano d’oppressare: parlan da alto.

Mettono la lor bocca dentro al cielo, e la lor lingua passeggia per la terra.

Perciò il popol di Dio riviene a questo, veggendo che l’acqua gli è spremuta a bere a pien calice.

E dice: — Come può essere che Iddio sappia ogni cosa, e che vi sia conoscimento nell’Altissimo?»

— «Non sono questi i tuoi sentimenti, o Giorgio?»

[p. 195 modifica]— «È vero: io potrei soscrivere a quanto avete letto.»

— «Or bene, odi il rimanente:»

«Io ho dunque pensato di voler intender questo: ma la cosa mi è paruta molto molesta.

Infino a tanto che sono entrato ne’ santuari di Dio: ed ho considerato il fine di coloro.

Certo tu li metti in isdrucccioli: tu li trabocchi in ruine.

Come sono eglino stati distrutti in un momento? come son venuti meno, e’ sono stati consumati per casi spaventevoli?

Son come un sogno, dopo che l’uom s’è destato: o Signore, quando tu ti sveglierai, tu sprezzerai la loro vana apparenza.

Ma pure io sono stato del continuo teco: tu m’hai preso per la man destra.

Tu mi condurrai per lo tuo consiglio, e poi mi riceverai in gloria.

— Egli m’è buono d’accostarmi a Dio: io ho posta nel Signore Iddio la mia fidanza.»

Queste parole di verità, pronunziate solennemente dal buon vecchio, scesero come una musica sacra al cuore ardente ed amareggiato dell’infelice Giorgio, e appena esalarono, il suo volto raggiava di dolcezza e di sommissione.

— «Se non vi fosse altro mondo che questo — disse Simeone — tu potresti chiedere a buon diritto: Ov’è il Signore? Ma spesso coloro appunto che furono in questa vita più poveri, sono gli eletti da lui al suo regno. Confida in lui, e checchè ti avvenga quaggiù, un dì avrai giustizia altrove.»

Se queste parole fossero state pronunziate da qualche esortatore dalla facile eloquenza, avvezzo ad una vita dolce e senza contrasti, sul cui labbro non sarebbero state che come un fiore di rettorica pia per confortare in qualche modo quelli che soffrono, esse non avrebbero fatto molta impressione; ma dette da un uomo, che tutti i dì s’esponeva ad essere posto in prigione, a pagare un’ammenda per la causa di Dio e degli uomini, avevano una autorità irresistibile, ed ambo i poveri e sconsolati fuggitivi ne sentirono calma e conforto.

Rachele prese affettuosamente per mano Elisa, e la condusse a tavola. Appena furono seduti s’intese a picchiare all’uscio leggermente, ed entrò Rut.

— «Io vengo — ella disse, — per recarvi queste calzettine pel bimbo; sono tre paia in lana, che certo gli terranno caldo. Il clima del Canadà è così freddo!... Coraggio, Elisa!»

E così dicendo girò alle spalle di Elisa, le riuscì a fianco, e le strinse affettuosamente la mano. Quindi diede una focaccia al piccolo Enrico.

[p. 196 modifica]— «Ne ho portate alcune — ella disse traendosi di saccoccia un cartoccio.... — I fanciulli, ben lo sai, mangerebbero da mattina a sera.»

— «Oh! grazie, siete troppo cortese.»

— «Vieni, Rut, mettiti a tavola con noi» disse Rachele.

— «Non posso assolutamente. Io ho lasciato John a casa col fanciullo, e i biscotti nel forno. S’io mi trattengo qui, benchè per pochi minuti, John lascierà bruciare i biscotti e darà al bimbo tutto lo zucchero che gli verrà tra mano. Ecco il vezzo ch’egli ha — disse la piccola quacchera ridendo. — Addio dunque, Elisa; addio Giorgio, Iddio vi conceda un viaggio felice!»

E con passo leggiero ella uscì rapidamente dalla stanza.

Pochi istanti dopo la cena, una grande carrozza coperta si fermò alla porta. Il cielo scintillava di stelle. Finea scese prestamente a terra per ordinare convenevolmente i viaggiatori. Giorgio si fece alla porta tenendo per mano da un lato il fanciullo, e la moglie dall’altro. Il suo passo era sicuro, il volto tranquillo e risoluto. Rachele e Simeone gli tenean dietro.

— «Uscite per un momento — disse Finea a coloro che stavano entro alla carrozza; — permettete ch’io acconci il fondo per le donne e pel fanciullo.»

— «Ecco due pelli di bufalo — disse Rachele. — Fa che seggano comodamente quanto è possibile. È dura cosa viaggiare tutta la notte.»

Gim scese il primo, e fece discendere con precauzione la vecchia sua madre, che appigliandosegli al braccio guardava intorno paurosamente, come se le fossero alle spalle i suoi persecutori.

— «Gim, le nostre pistole stanno a dovere?» chiese Giorgio con voce sommossa, ma ferma.

— «Sì, in fede mia» rispose Gim.

— «E sai tu qual uso s’ha a farne, ove quelli ci raggiungano?»

— «Lo so troppo bene — rispose Gim mostrando il largo suo petto, e respirando profondamente. — Pensi tu ch’io voglia che si riprendano mia madre?»

Durante questo breve colloquio Elisa prese commiato dalla sua buona amica Rachele, fu fatta entrare in carrozza da Simeone, e rincantucciandosi in fondo col figliuoletto si assise sulle pelli di bufalo. La vecchia donna le si collocò a canto. Giorgio e Gim si sedettero davanti a loro, e Finea montò sulla cassetta.

— «Addio, amici miei!» disse Simeone al di fuori.

— «Iddio vi benedica!» risposero tutti da entro.

La carrozza cominciò a correre trabalzando sul terreno indurito dal ghiaccio. I viaggiatori non facevano parola, che l’asprezza della via e il fragore delle ruote impediva ogni conversazione. Si andava innanzi [p. 197 modifica]rapidamente, ora a traverso di oscure foreste, ora di sterili e immense pianure, ora su per colline, ora giù per valli: e si proseguiva sempre oltre trabalzando e ondeggiando. Il fanciullo non tardò molto ad addormentarsi, e s’abbandonò in seno alla madre. La povera vecchia dimenticò i suoi terrori, ed Elisa medesima, coll’avanzarsi della notte, sentiva la sua stanchezza farsi maggiore dell’inquietudine, nè potea rimuovere il sonno. Finea parea il più sveglio e vivace tra tutti, e cacciava la noia fischiando certe ariette, che senza dubbio non entravano nella collezione dei canti adottati dalla società degli Amici.

Come furono scorse a un dipresso tre ore dalla loro partenza, Giorgio intese distintamente lo scalpitare d’un cavallo che galoppava dietro alla loro carrozza. Diede subito una gomitata a Finea, il quale arrestò i cavalli per ascoltare.

— «Forse è Michele — egli disse; — parmi di riconoscere il passo del suo cavallo.»

Cio detto, s’alzò, e piegò la testa verso la parte onde sorgeva il rumore, porgendo attentamente l’orecchio. Quindi riconobbe sulla cima d’un colle lontano l’oscura immagine d’un uomo a cavallo che correva a tutta briglia.

— «È desso, io credo» disse Finea.

Giorgio e Gim balzarono a terra innanzi di pensare che dovessero farsi. Tutti i viaggiatori, taciti ed ansiosi, volsero gli occhi verso il cavaliere. Questi dispare e scende nella valle: intanto il calpestìo del cavallo si fa più vicino e più distinto. Finalmente egli riappare sovra un’altura, la quale non era così distante che non vi potesse giunger la loro voce.

— «Sì, sì è Michele — disse Finea. — Olà, Michele, di qui.»

— «Sei tu, Finea?»

— «Sì. Che nuove? vengono forse?»

— «Sì, ci sono alle spalle otto o dieci ubbriachi d’acquavite, e bestemmiano come demonii.»

E in quel momento medesimo l’aura recò il suono lontano di cavalli correnti precipitosamente.

— «Presto, dentro di nuovo! — disse Finea. — Se vi è forza combattere, si vada almeno in luogo più acconcio.»

Giorgio e Gim montarono nuovamente in carrozza. Finea sferzò i cavalli. La vettura balzava, ondeggiava, scorreva rapidamente sul terreno ghiacciato. Ha il rumore de’ cavalli accorrenti si rendea ognora più chiaro. Le donne lo intesero, e tratto il capo degli sportelli, videro sulla cresta d’una collina molte persone i cui contorni si disegnavano in nero sul cielo rossiccio dell’oriente. Ecco, si fanno più presso. S’avveggono della carrozza che, coperta di bianca tela, era facilmente visibile a mediocre [p. 198 modifica]distanza. I fuggenti odono alzarsi alle spalle un urlo di gioia feroce. Elisa sentì mancarsi le forze, e si strinse al seno il figliuoletto. La vecchia, singhiozzando, mormorava una preghiera. Giorgio e Gim afferrano le pistole con impeto disperato.

I nemici più e più s’avvicinavano. Ma la carrozza, deviata con subito giro, condusse i fuggitivi presso ad una catena di rupi scoscese che come una mole smisurata ed informe sorgevano in mezzo alla pianura. Quell’ammasso isolato di rocche sorgeva aero e compatto nel cielo rischiarato dagli albori del mattino, e parea promettere un nascondiglio e un asilo. Finea era assai pratico di quel luogo, poichè un tempo l’avea esplorato cacciando; ed avea ora spinto innanzi i cavalli a tutto corso per raggiungerlo.

— «Ci siamo — disse egli, arrestando i cavalli e lanciandosi a terra d’un salto. — Or via, scendete subito, e venite con me su quelle rupi. Michele, attacca prontamente il tuo cavallo alla vettura, e vattene ad Amariah, e digli che accorra co’ figli per dire quattro parole a questi furfanti.»

In un batter d’occhi tutti aveano sgombrata la carrozza.

— «Ottimamente — disse Finea, togliendosi in braccio il piccolo Enrico. — Ciascuno di noi si prenda pensiero d’una donna, e affrettate il passo se vi è cara la vostra libertà.»

Non era certo mestieri di esortazioni. In meno che nol diciamo, tutti i fuggitivi, oltrepassata una siepe, s’avviarono a gran fretta verso la rupe. Michele, sceso di sella, attaccava il cavallo alla vettura, e s’allontanava rapidamente.

— «Avanti! — gridò Finea tostochè furono appiè della rupe, e poterono discernere al misto chiarore delle stelle e dell’alba le tracce d’un dirupato sentiero che saliva alla cima. — Qui fui alla caccia più volte, e conosco il terreno a palmo a palmo. Avanti!»

Finea andava innanzi a tutti, rampicandosi su quei dirupi come una capra, e tenendo tra le braccia il fanciullo. Gim gli venia dopo, portando sulle spalle la sua vecchia madre, che tremava di paura. Giorgio ed Elisa venivano gli ultimi. Gli uomini a cavallo vennero presso alla siepe, mandando grida e bestemmie, scesero a terra preparandosi ad inseguire i fuggenti. I quali, dopo alcuni istanti di faticoso cammino, erano riusciti sovra uno spianato, e s’avviavano un dinanzi e l’altro dopo per un augusto sentiero. Quand’ecco trovano interrotta la via da un burrone e da una profonda fenditura, larga intorno di quattro piedi. Di là da questa eravi un masso perpendicolare, simile a un muro di castello, e sorgeva isolato, formando un precipizio di circa trenta piedi. Finea varcò di leggieri il burrone, e depose il fanciullo sopra una piattaforma di musco ricciuto e biancastro che ricopriva la sommità della rupe.

[p. 199 modifica]— «Animo! — egli gridò. — Presto, un salto, o siete perduti.» Tutti l’un dopo l’altro si lanciarono oltre il burrone. Alcuni frantumi di rocche staccate formavano una specie di riparo, che li toglieva alla vista di coloro che stavano al basso.

— «Bene! eccoci tutti riuniti — disse Finea, volgendo uno sguardo dalla cima di quelle rupe agli assalitori, i quali confusamente s’adoperavano a salire fra i macigni. — Ci assalgano ora, se basta loro la vista! Sarà d’uopo che passino ad uno ad uno fra le due rupi a tiro delle nostre pistole. Non è egli vero?»

— «Lo veggo bene — disse Giorgio. — Ed ora, siccome la faccenda non riguarda che noi, lasciate che ne corriamo tutto il pericolo, e che combattiamo noi soli.»

— «Fa pure, Giorgio — disse Finea mostrando alcune foglie d’un vicino arbusto. — Ma potrò avere almeno il piacere di osservare, credo. Oh! guardate! I nostri nemici sono stretti a consiglio, e alzano la testa come galline che stiano per volare sul posatoio. Non sarebbe opportuno di volger loro una parola d’avviso prima che salgano, per significare loro cortesemente che, ove tentino di ascendere, saranno accolti a colpi di pistola?»

Il gruppo degli assalitori, facili ora ad esser riconosciuti al chiarore del mattino, si componeva delle nostre antiche conoscenze, cioè di Tom Loker e Marks con due contabili, e d’un rinforzo di alcuni vagabondi, che guadagnati poco innanzi nell’osteria mercè d’una copiosa distribuzione d’acquavite, aveano consentito di buon grado a darla caccia ai fuggitivi.

— «Che ne dici, Tom? — disse uno di que’ satelliti. — Mi paiono incappati nella rete.»

— «Sì, li vidi ascendere su quelle rupi, ed ecco un sentiero, rispose Tom Loker. Orsù, voglio ormarli. Certo che non vorranno fare un capitombolo da quelle cime per isfuggirci; e in pochi istanti li faremo uscire dal covo.»

— «Ma se dall’alto dei loro ripari ci facessero fuoco addosso? — chiese Marks. — Il giuoco non m’andrebbe guari a versi.»

— «Uh! disse Loker ghignando. — Tu non pensi mai che a salvare la pelle. Non c’è pericolo di sorta. I negri han tutti un cuor di coniglio.»

— «Non veggo perchè io non debba pensare a salvar la pelle: corbezzoli! non ne ho che una: e i negri talvolta menano le mani come demonii.»

In questo istante Giorgio si mostrò sulla cima della rupe, e ad alta voce gridò:

— «Signori, chi siete, e che desiderate?»

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— «Cerchiamo una banda di negri fuggiti — rispose Loker; e un Giorgio Harris, sua moglie e il figlio; Gim Solden, e una vecchia. Abbiam con noi gli uffiziali di giustizia, e un mandato di arresto. E li avremo in nostro potere ben presto! Sei tu per avventura Giorgio Harris, schiavo del signor Harris, della contea di Shelby nel Kentucky?»

— «Io sono Giorgio Harris. Un certo Harris del Kentucky mi tenne lungamente come sua proprietà; ma ora io sono un uomo libero, sovra un suolo che non appartiene che a Dio; e mia moglie e mio figlio sono miei, Gim e sua madre son pur qui. Ci basta il cuore a difenderci; e ci difenderemo! Potete salire, se così vi aggrada. Ma il primo che giunga a tiro, è spacciato; agli altri toccherà successivamente la stessa sorte.»

— «Calma, calma! — disse un uomo tarchiato e paffuto, traendosi innanzi e soffiandosi il naso fragorosamente. — Mal vi stà il parlare in cotesto modo, giovine sconsiderato. Ben vedete che noi siamo uffiziali di giustizia. Abbiamo dal canto nostro la legge e la forza, e via dicendo. Rendetevi tranquillamente per lo migliore nè vogliate costringerci ad usare la forza.»

— «So pur troppo — ripigliò Giorgio amaramente — che stanno per voi la legge e la forza. Voi volete strapparmi mia moglie, condurla alla Nuova-Orleans e venderla, e trarre mio figlio al mercato come un vitello, rimandare la madre di Gim all’uomo brutale che la caricava di percosse perchè non poteva maltrattare il figlio di lei. Volete rimettere Gim e me con lui in balìa di coloro che si diceano nostri padroni, e or ci apprestano il bastone e le torture. Le leggi stanno per voi! infamia per voi e per quelle! Ma non siamo ancora in vostro potere. Noi non riconosciamo le vostre leggi, non riconosciamo il vostro paese: siamo qui liberi sotto il cielo di Dio, al paro di voi; e pel gran Dio che ci ha creati combatteremo per la nostra libertà fino alla morte!»

Mentre Giorgio facea questa dichiarazione d’indipendenza, stava ritto, maestoso a vedersi sulla cima della rupe. Il chiarore dell’alba colorava il bruno suo volto, e lo sdegno e la disperazione scintillavano ne’ suoi sguardi. E come se egli si appellasse dagli uomini alla giustizia di Dio, parlando egli alzava la destra al cielo.

L’atteggiamento, lo sguardo, la voce di colui che parlava sì arditamente resero per qualche istante taciti ed immobili gli assalitori. V’ha nel coraggio e nella risolutezza qualche cosa che a prima giunta muove a meraviglia e rispetto anche le indoli più rozze. Marks fu il solo che non se ne commosse punto. Egli caricò la sua pistola, e durante il breve silenzio che tenne dietro alle parole di Giorgio trasse il colpo.

— «Ch’egli sia ricondotto al Kentucky vivo o morto è tutt’uno.» disse freddamente; e intanto ripuliva colla manica dell’abito la pistola.

[p. 201 modifica]Giorgio balzò addietro; Elisa diè un grido. La palla gli avea rasentato i capelli, e passando vicinissima alla guancia d’Elisa s’era condita nel tronco d’un albero che sorgea dietro a loro.

— «È nulla, Elisa» disse Giorgio tranquillamente.

— «Meglio varrebbe che ti togliessi alla loro vista, anzi che gittare il fiato in vane allocuzioni — disse Finea — sono veri mariuoli.»

— «Pon mente, Gim, se le tue pistole sono in acconcio, ed abbi fissi gli occhi con me a cotesto sentiero. Io farò fuoco sul primo che si affacci; tu avrai cura dei secondo; e così a vicenda pe’ rimanenti. Comprendi bene che non abbiamo a sparare due colpi per un solo assalitore.»

— «Ma se tu per avventura non lo cogliessi?»

— «Non temere; sono sicuro del fatto mio.»

— «Perdio! questo giovine ha un cuore» mormorò Finea tra’ denti.

Frattanto gli assalitori, poichè Marks ebbe tratto il suo colpo, stettero qualche tempo indecisi.

— «Penso che ne abbiate ferito qualcheduno — disse uno tra gli assalitori. — Ho inteso un grido.»

— «Vado ad assicurarmene — soggiunse Loker. - Io dei negri non ebbi mai una paura al mondo: nè l’avrò ora. Animo! chi mi segue?»

E cominciò a salire.

Giorgio intese indistintamente queste parole. Trasse la pistola; l’esaminò attentamente e prese la mira verso quella parte del sentiero ove dovea sbucare chi fosse salito.

Uno de’ più coraggiosi di quella banda seguì Loker: ed essendosi perciò rincorati gli altri, tutti presero ad ascendere sulla rupe; e gli ultimi spingevano innanzi chi stava loro di fronte; con più fretta che questi non avrebbero desiderato. Non sì tosto la vasta mole di Loker si mostrò in cima della rupe sull’orlo del burrone, l’arma di Giorgio scattò. L’assalitore fu côlto in un fianco: tuttavia, benchè ferito, non si ritrasse; ma alzando un mugghio come di toro in furore, si lanciò innanzi, e già piombava in mezzo agli assediati.

— «Amico — disse Finea, facendosi improvvisamente innanzi, e respingendolo con le lunghe sue braccia — tu ci saresti di soverchio.»

Loker rotolò già nel burrone fra’ sterpi, alberi, cespugli e pietre divelte, finchè giacque, tutto pesto e guaiolante, ad una profondità di trenta piedi. La caduta lo avrebbe ucciso, se non fosse stata resa men rapida dai rami d’un albero a cui s’aggrapparono le sue vesti: ad ogni modo ci percosse al fondo più duramente che non avrebbe desiderato.

— «Iddio ci aiuti, son veri diavoli!» gridò Marks, dirigendo la ritirata giù per le rupi con più fretta ch’egli non era salito, mentre tutta quella accozzaglia si precipitava addietro confusamente: tra’ quali specialmente il corpacciuto constabile ansava e sbuffava a tutto potere.

[p. 202 modifica]— «Compagni — disse Marks — correte a soccorrere il povero Loker. Io intanto monto a cavallo, e vo’ a chieder rinforzo.»

E senza darsi pensiero dei motteggi e delle fischiate, salì a cavallo e disparve.

— «Che vile poltrone! — disse uno degli ausiliarii raccozzati poco innanzi nell’osteria: — ci trae egli stesso in quest’impiccio, e ci pianta!»

— «Tuttavia — disse un altro, — bisogna dar soccorso al caduto; ma il fistolo mi colga, se m’importa ch'egli sia morto o vivo.»

Volgendosi là onde venivano i lamenti di Loker, si aprirono una via tra gli sterpi e gli alberi abbattuti fino al luogo, ove l’eroe si giaceva assai malconcio, alternando con uguale veemenza lamenti e bestemmie.

— «Fate un fracasso, ch’io ne disgrado il diavolo — disse un di loro — La vostra ferita è forse grave?»

— «Che ne so io? Sorreggetemi: vediamo se posso levarmi da terra. Che Dio mandi il malanno a quel quacchero infernale. Se non era per lui, n’avrei fatto sdrucciolare più d’uno a misurarmi la profondità di questo burrone.»

Finalmente, dopo molto adoperarvisi, dopo molti lamenti, si riuscì a sollevare il caduto, e recarlo a braccia là ov’erano i cavalli.

— «Fate di trasportarmi almeno fino all’osteria. Datemi un fazzoletto, un pannolino qualunque per arrestare il sangue.»

Giorgio in questo frattempo stava spiando dalla cima della rupe. Vide che coloro che stavano intorno al ferito s’adoperavano a porlo in sella. Ma dopo alcuni istanti, tornando in vano ogni tentativo, ei vacillò e percosse duramente a terra.

— «Voglio sperare ch’ei non sia morto!» disse Elisa.

— «Che? ben non gli starebbe?» chiese Finea.

— «Ma dopo la morte viene il giudizio» soggiunse Elisa.

— «Sì — disse la vecchia madre di Gim, che non avea cessato fino a quel momento di pregare secondo il costume dei metodisti; — è un istante tremendo per un’anima immortale.»

— «Oh! stiamo a vedere che l’abbandonano.»

Ei dicea vero. Dopo alcuni istanti d’incertezza e di sommesse parole, tutti balzarono in sella e se ne partirono più che di galoppo.

Tosto che furono tant’oltre che non si potevano più discernere, Finea consigliò che si scendesse.

— «Ci sarà forza — disse — di fare un tratto di cammino a piedi per trovar Michele, che sta attendendoci colla vettura. Non avremo a far molti passi; nè siamo discosti della meta del viaggio più che due miglia; e già l’avremmo raggiunta se la strada fosse migliore.»

Poichè ebbero varcata nuovamente la siepe, i fuggitivi videro da lungi la loro carrozza che ritornava sotto la scorta d’alcuni cavalieri.

[p. 203 modifica]— «A maraviglia — gridò Finea tutto lieto; - ecco Michele, Stephen e Amariah. Or siamo sicuri quanto se avessimo raggiunto il termine del nostro cammino.»

— «Quando è così — disse Elisa — soffermiamoci alquanto, e vediamo di porgere qualche soccorso a questo sventurato: ei mette grida che straziano.»

— «Non faremo che il debito del cristiano» disse Giorgio.

— «Poniamolo entro la carrozza, e conduciamolo con noi.»

— «Acciocchè sia curato da’ quaccheri!» disse Finea.

— «Sia pure; per me non resterà. Vediamo in che stato si trova.»

E Finea, che durante la sua vita di cacciatore avea acquistato alcune cognizioni di chirurgia, s’inginocchiò accanto al ferito, e prese ad esaminarlo attentamente.

— «Marks, sei tu?» disse Loker con languida voce.

— «Avresti un bel chiamarlo, amico — rispose Finea. — A Marks non preme punto di te: non gli cale che della sua pelle. È spulezzato da un pezzo.»

— «Ho capito, son morto! quella ribalda canaglia mi lascia qui come un cane! Ah! me l’avea pur detto mia madre che un dì o l’altro finirei in questa guisa!»

— «Oh! udite questa povera creatura! — disse la vecchia negra: — egli ha fatto parola di sua madre. Ei mi fa veramente pietà!»

— «Cheto, cheto! non è questo il tempo di fare il bravo e digrignare i denti, amico — disse Finea a Loker che springava calci e menava le mani. — Se non riesco a ristagnar questo sangue, tu sei spacciato.»

E Finea cominciò a fasciargli le ferite col fazzoletto e con ciò che potè avere da’ compagni.

— «M’avete precipitato giù dalla rupe!» disse Loker con debole voce.

— «Senza dubbio! s’io non ti avessi prevenuto, tu avresti costretto tutti noi a fare quel salto — disse Finea. — Or via, lasciami fare; non abbiamo con te alcun rancore. Ti trasporteremo in una casa ove ti si prodigheranno cure tali, che le più amorevoli non ti potrebbe usare tua madre.»

Loker diè in un sospiro, e chiuse gli occhi.

Negli uomini d’indole simile a costui, il coraggio e l’energia s’attengono assai al vigore del corpo, e se ne vanno col sangue.

L’abbattimento di quel colosso stringea veramente il cuore.

La seconda truppa di quaccheri s’avvicinò. Si tolsero i banchi della vettura; le pelli di bufalo furono disposte da un lato; e quattro uomini, sollevando a gran fatica il ferito, riuscirono ad adagiarlo su quel letto [p. 204 modifica]formato e racconcio così in fretta. Mentre il recavano via, egli svenne affatto. La vecchia negra, tocca di profonda pietà, prese a’ sorreggere sulle sue ginocchia la testa del ferito. Elisa, Giorgio e Gim si allogarono alla meglio dall’altra parte della carrozza, e si riposero in cammino.

— «Che pensate voi del ferito?» chiese Giorgio a Finea, che gli sedeva accanto.

— «La palla non passò oltre le carni; tuttavia penetrò molto addentro; e le contusioni e scorticature ch’egli ebbe dalla caduta lo hanno assai aggravato. Ha perduto sangue in gran copia, e con quello il coraggio; ma egli ne uscirà, e questo avvenimento gli darà una lezione ch’egli non dimenticherà di leggieri.»

— «Le vostre parole mi rassicurano — rispose Giorgio. — Mi darebbe troppo dolore l’esser cagione della sua morte, con tutto che la mia causa sia giusta.»

— «Sì — disse Finea; — uccidere un uomo, o anche una bestia, è sempre brutta cosa. Fu un tempo ch’io era assai appassionato per la caccia, e ti dirò ch’io vidi spesso i daini feriti e morenti guardarmi in guisa che mi facea veramente dolore d’averli uccisi. Quando poi si tratta d’un uomo, il caso è molto più grave; poichè, come diceva tua moglie, dopo la morte c’è il giudizio. Egli è per questo che le idee degli Amici intorno a questa materia non mi paiono soverchiamente severe: e, fatta ragione de’ costumi ch’io ebbi da prima, parmi d’essermici adattato ottimamente.»

— «Che farem noi di questo sventurato?»

— «Lo porteremo in casa di Amariah: questi ha una vecchia nonna per nome Dorcas, espertissima a curare gl’infermi. Ella ha per ciò una singolare inclinazione, e si tiene avventurata quando può assistere un malato. Sii certo che, mercè le cure di costei, il tuo ferito potrà abbandonare il letto entro una quindicina di giorni.»

A capo di un’ora i nostri viaggiatori giunsero stanchi ad una fattoria, ove fu loro apprestata un’abbondante colazione. Loker fu posto sovra un letto più pulito e più soffice assai di quello ove solea caricarsi. La ferita di lui fu curata e fasciata con estrema attenzione; ed egli giaceva, languidamente aprendo e chiudendo gli occhi, come un fanciullo stanco, e guardando le bianche cortine e le tranquille fisonomie che passavano con tacite orme in quella stanza.

Noi lo lascieremo per ora, e torneremo presso allo zio Tom.