La capitana del Yucatan/10. I misteri delle foreste cubane

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10. I misteri delle foreste cubane

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9. Una spedizione a terra 11. Un incontro inaspettato

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CAPITOLO X.


I misteri delle foreste cubane.


Udendo quel comando, pronunciato con un tono che non ammetteva replica, il drappello si era subito fermato, aggruppandosi sotto una macchia formata da cinque o sei banani, le cui foglie smisurate bastavano a nasconderli completamente. Tutti però, il solo cubano eccettuato, con una mossa simultanea avevano presi i fucili puntandoli all’ingiro, non sapendo ancora da quale parte poteva giungere il pericolo. Cogli occhi fissi sotto le arcate degli alberi e gli orecchi tesi, stettero in ascolto, in preda a quell’ansietà affannosa che deriva da un pericolo sconosciuto.

Da principio nulla udirono, all’infuori del cicalare di alcuni pappagalluzzi che si tenevano sui più alti rami d’un colossale arancio. Dopo alcuni istanti però, distinsero perfettamente uno scrosciare di foglie dapprima leggero, poi più forte, che pareva si avvicinasse lentamente.

— Degl’insorti? — chiese donna Dolores al cubano, il quale ascoltava col capo curvo verso terra.

— Non lo so, — rispose questi, asciuttamente.

— Qualcuno però si avvicina.

— L’odo.

— Può essere qualche cinghiale, — mormorò Cordoba, il quale allungava il collo cercando di discernere qualche cosa fra quel caos di rami e di foglie. — In quest’isola sono abbondanti.

— Io invece sospetto che siano uomini, — disse il cubano.

Come per dargli ragione, proprio in quel momento, in mezzo alle folte piante, si udì a echeggiare un grido strano che rassomigliava a quello che mandano le aquile caracara.

Carramba! — borbottò Cordoba. — Conosco troppo bene [p. 80 modifica]il grido di quei rapaci volatili per lasciarmi ingannare. Donna Dolores, questo è un segnale.

— Lo credi?

— Sono certissimo di non ingannarmi. —

Un altro grido, simile al primo, si udì un po’ più lontano in una direzione affatto contraria, a cui subito rispose il primo su altro tono, con una modulazione singolare.

— Ohe, signor Del Monte, cosa ne dite? — chiese Cordoba.

— Io dico nulla.

— Credete che siano aquile?

— È possibile che lo siano.

— Io vi dico che sono uomini i quali ci fanno dei segnali.

— Non sono convinto. Conosco le caracara e so che gridano in vari modi.

— Io vi dico che non le conoscete, se affermate questo, mio caro signor Del Monte.

— Un cubano!

— Ho abitato molto tempo anch’io a Cuba.

— Volete una prova che sono aquile?...

— Datemela. —

Il cubano senza attendere altro accostò le mani alle labbra e mandò alcune grida rassomiglianti alle prime.

— Cosa fate?... — chiese Cordoba. — Se sono invece insorti, ci farete scoprire.

— Udite?... — chiese invece il cubano, con una leggera punta d’ironia.

Due grida eguali avevano risposto al suo appello, una a destra della macchia di banani e l’altra a sinistra.

— Avevo ragione a dirvi che erano due caracara? — chiese il cubano.

Cordoba non rispose; lo guardava con due occhi nei quali si poteva scorgere un lampo di diffidenza.

— Possiamo ripartire, — riprese il cubano, dopo qualche istante. — Forse gl’insorti non sono ancora giunti qui.

— Sì, andiamo, — rispose la marchesa. — Ho molta fretta di vedere il capitano Carrill e di tornarmene a bordo del Yucatan. —

Il drappello, rassicurato dalle parole del cubano, si rimise in cammino attraverso a quella foresta che pareva non dovesse mai terminare, aprendosi il passo fra le liane e le radici enormi che sorgevano dal suolo, serpeggiando come smisurati pitoni e girando e rigirando fra i centomila tronchi.

Alla foresta dei mangli era succeduta un’altra boscaglia di piante diverse, crescenti le une vicine alle altre, strettamente avvinte da piante parassite.

Si vedevano cedri enormi sorgere accanto ai cotoni selvatici; tamarindi colossali, dai rami smisurati ed eccessivamente flessibili alzarsi in mezzo ai macchioni di banani dalle grandi foglie [p. 81 modifica]Ad un suo cenno la scialuppa si staccò dal Yucatan. [p. 83 modifica]palmizi d’ogni specie lanciare in aria le loro splendide foglie piumate ed intrecciarle a quelle non meno pittoresche dei cavoli palmisti, mentre al di sotto di quella cupola di verzura senza fine, spuntavano alla rinfusa rigogliosi cespi di leandri, i cui fiori si mescolavano a quelli sanguigni dei cordii ed a quelli bianchi dei gelsomini, od ai mazzi delicati delle ghirlande d’unguentaria ed alle foglie seriche ed argentine delle portlandia.

Pochi uccelli si vedevano in mezzo a quella folta vegetazione, per lo più pappagalluzzi e qualche volta dei beccaccini annuncianti la vicinanza di qualche palude. Abbondavano invece i cinghiali; erano però così diffidenti che scomparivano subito in mezzo alle macchie più folte.

Verso il mezzodì, il drappello giungeva in una piccola radura coltivata a cacao, piante che si trovano in grande numero nell’isola di Cuba, anzi formano, colle canne da zucchero, la principale ricchezza di quelle fertili terre.

Questi alberi, importati dal vicino Messico ed ormai completamente acclimatati, sono quelli che dànno la cioccolatta. Appartengono alla famiglia delle bittneriacee affine alle malvacee, e sono piccoli, con rami diritti e gracili e foglie oblunghe. Dopo i fiori producono delle frutta ovali, carnose, divise in dieci carpelli e rassomiglianti ad un piccolo cetriolo.

È in mezzo a quella polpa assai amara che si nascondono i preziosi semi, i quali dopo essere stati spogliati del loro inviluppo, leggermente torrefatti, quindi macinati e mescolati collo zucchero dànno la cioccolatta. Ogni frutto ne contiene in media venti e talvolta anche venticinque.

La coltivazione di quelle piante ormai si è estesa in tutte le Grandi e Piccole Antille non solo, ma anche in tutte le repubbliche dell’America centrale ed anche in quelle dell’America meridionale, specialmente nell’Equatore, nel Perù, nella Bolivia e perfino nel Chilì dove si fa un consumo tale di cacao, da toccare i venticinquemila scudi all’anno.

Non si creda però che la coltivazione sia facile. L’albero richiede immense cure, soffre se non si rimuove continuamente la terra, sbarazzandola dalle male erbe, e in talune regioni bisogna proteggerlo coll’ombra di due piante maggiori che gl’indiani chiamano il padre e la madre del cacao.

Le piante della radura, una dozzina in tutto, avevano già cominciato a soffrire per la mancanza di quelle cure e si vedevano le loro foglie pendere tristamente al suolo.

Il drappello, stanco da quella lunga marcia che durava dalle sei del mattino, vedendo che quel luogo era deserto e sicuro da una improvvisa sorpresa, decise di accamparsi alcune ore, anche per evitare qualche colpo di sole, non essendo prudente marciare dal mezzodì alle quattro pomeridiane.

Avendo trovato una cappannuccia già mezza diroccata, vi si [p. 84 modifica]ripararono, preparando rapidamente la colazione consistente in carni conservate, biscotti ed alcuni banani e cedri raccolti dal cubano.

Avevano appena terminato di mangiare, quando il signor Del Monte, che da qualche istante pareva in preda ad una certa inquietitudine, si alzò bruscamente, dicendo:

— Finchè voi vi riposate, io andrò a esplorare il bosco.

— Temete di esservi smarrito? — chiese la marchesa.

— Oh no, signora, — rispose prontamente il cubano, con un risolino. — Conosco troppo bene l’isola e ritrovo sempre la via anche se percorsa una sola volta.

— Andate a vedere se vi è qualche traccia di ribelli?

— Sì, signora marchesa.

— Volete che vi accompagni? — chiese Cordoba.

— È inutile, — rispose il cubano, sulla cui fronte si era disegnata improvvisamente una profonda ruga. — Il sole è ardente in queste ore.

— La mia testa è a prova dei colpi di sole, signor Del Monte.

— Vi credo; sarà meglio però che restiate a guardia della signora. —

Ciò detto, senza attendere altra risposta, il cubano si gettò sulle spalle il fucile e s’allontanò frettolosamente, scomparendo in mezzo agli alberi.

— Che strano uomo!... — esclamò Cordoba. — Ditemi, donna Dolores, cosa pensate di quel cubano?...

— Lo domando a te che hai abitato molto tempo in quest’isola, — rispose la marchesa.

— Non vi sembra un po’ originale?...

— È vero, Cordoba. È un uomo di poche parole, di modi molto bruschi e se non si sapesse che è stato qui mandato da un capitano spagnolo, potrebbe far nascere dei brutti sospetti sul suo conto.

— È quello che pensavo anch’io, marchesa.

— Ah!... Diffidi forse di lui?...

— Un po’, lo confesso.

— Io credo che tu abbia torto, Cordoba.

— E perchè, donna Dolores?...

— Se non fosse stato mandato dal maresciallo Blanco, come vorresti che avesse fatto a sapere che noi dovevamo sbarcare il carico nella baia di Corrientes?

— È vero.

— E poi chi avrebbe potuto sapere che l’Yucatan era comandato da me?...

— È vero anche questo, però...

— Parla Cordoba, — disse la marchesa, vedendo che il lupo di mare esitava.

— Vi è una cosa che mi tormenta, donna Dolores.

— E sarebbe?... [p. 85 modifica]

— Le grida delle aquile caracara. Carramba!... Sono quasi cubano anch’io, conosco bene l’isola, anzi ho passato molti anni della mia gioventù nelle foreste della costa settentrionale e vi dico che non erano aquile quelle che gridavano così.

— Puoi esserti ingannato, vecchio amico.

— Hum!... Non sono affatto convinto.

— Cosa vuoi dunque concludere?...

— Nulla per ora: ma vi dico che io sorveglierò attentamente quel signor Del Monte e che se m’accorgo che cerca d’ingannarci, lo mando dritto a casa di messer Belzebù con venti grammi di piombo nel cervello e comincio da questo momento.

— Cosa vuoi fare? — chiese la marchesa, vedendolo alzarsi e gettarsi in ispalla il fucile.

— Vado a fare anch’io una passeggiata nei boschi per esplorare la via, — rispose il lupo di mare, sorridendo.

— Ti prenderai un colpo di sole.

— Baie!... La mia zucca è impenetrabile a messer Febo.

— Ohe!... Giovanotti!... Vi raccomando di fare buona guardia alla nostra Capitana. —

Ciò detto Cordoba accese una sigaretta, introdusse una nuova cartuccia nel fucile e se ne andò fischiando fra i denti un fandango.

Il lupo di mare attraversò lentamente la radura e appena giunto sotto i grandi alberi zittì di colpo, gettò via la sigaretta, si mise il fucile sotto il braccio e s’inoltrò rapidamente in mezzo ad un macchione di banani, cogli occhi in guardia e gli orecchi tesi per raccogliere il menomo rumore.

— Andiamo un po’ a vedere dove è andato a finire quel caro signor Del Monte, — mormorò. — Ah!... Non voleva la mia compagnia?... Può averla rifiutata per non espormi ad un colpo di sole e per lasciarmi riposare, può anche averlo fatto per altro motivo ed io sono un po’ curioso, mio caro signor Del Monte. Non mi sono mai fidato di questi sanguemisti. —

Attraversata la macchia, Cordoba s’arrestò alcuni istanti per ascoltare. Non udendo alcun rumore in nessun luogo, s’avanzò nella grande foresta passando sotto magnifici cedri, aranci e palmizi d’ogni specie, fra i quali spiccavano per la loro bellezza quelli reali (areadesea regia) e caobas, meglio conosciuti sotto il nome di acaiù, e che dànno un legno molto ricercato e ad ammassi di splendide orchidee in mezzo alle quali nidificavano numerosi palomitas, le più belle colombe delle Antille, anzi le regine della specie.

Il lupo di mare camminava da mezz’ora, soffermandosi di tratto in tratto per tendere gli orecchi, quando si trovò improvvisamente sul margine d’una vasta savana, specie di palude dalle acque oscure e puzzolenti e dal fondo traditore essendo costituito da sabbie mobili, le quali inghiottono le persone che vi cadono dentro. [p. 86 modifica]

Il luogo sembrava deserto. Non si vedevano che stormi di beccaccini volteggianti al di sopra delle piante palustri, uccelli molto stupidi che si lasciano ammazzare a centinaia, senza spaventarsi dei colpi di fucile o per la morte dei loro compagni, volatili, come si vede, molto diversi dai nostri che sono invece così diffidenti. Cordoba, dopo d’aver dato uno sguardo alla savana, stava per tornare indietro, quando la sua attenzione fu attirata da un grosso caimano il quale si dirigeva, con una certa fretta, verso un isolotto coperto di folte piante che sorgeva a breve distanza dalla riva, alla quale anzi era collegato da una serie di piccoli banchi coperti da paletuvieri.

— Cosa può spingere quell’ingordo bestione verso quell’isolotto? — si chiese Cordoba. — Bisogna che vi sia qualche preda laggiù. —

Si nascose dentro il tronco d’un enorme cedro, afferrò il fucile e attese seguendo le evoluzioni del rettile, il quale di passo in passo che s’avvicinava all’isolotto, diventava più prudente.

Già il ributtante mostro non distava che quindici o venti passi, quando Cordoba vide le estremità delle piante agitarsi, poi qualche cosa di bianco trasparire fra i rami e le foglie e passare rapidamente in mezzo ai paletuvieri.

Carrai!... — mormorò. — Vi sono degli uomini nascosti e che cercano di raggiungere la riva. Non possono essere che insorti e forse degl’insorti che ci spiano. —

Alzò bruscamente il fucile e lo puntò verso i paletuvieri; una subitanea riflessione lo trattenne.

— Non commettiamo delle corbellerie, — disse, abbassando l’arma. — Forse quegli uomini ignorano la nostra presenza e se faccio fuoco, potrebbero piombarci addosso in grosso numero. Fulmini!...

Quella esclamazione repentina gli era stata strappata nello scorgere un cappello di paglia, dalle ampie tese, apparire fra l’apertura di due fronde.

— Fulmini!... — ripetè, con profondo stupore. — O m’inganno assai o quello era il cappello del nostro cubano. —

S’alzò di scatto e si mise a correre attraverso al bosco per giungere su quella riva prima che gli uomini dell’isolotto potessero scomparire. S’accorse ben presto che l’impresa non era facile in causa del terreno pantanoso, delle liane e delle radici che serpeggiavano dovunque in ammassi enormi.

Quando dopo lunghi sforzi e dopo d’aver lasciato parecchi lembi della sua giacca in mezzo agli sterpi ed alle spine potè giungere di fronte all’isolotto, gli uomini che sperava di poter scorgere erano ormai spariti nel folto della foresta.

— Dannata selva!... — esclamò il lupo di mare, che era diventato di assai cattivo umore. — Se non avessi incontrate tutte quelle liane e quelle radici, a quest’ora potrei sapere qualche cosa [p. 87 modifica]sul conto di quegli sconosciuti e forse su quel caro signor Del Monte. Oh!... Possiamo fare una passeggiata su quell’isolotto. —

Si guardò intorno, temendo qualche sorpresa od un improvviso ritorno di quegli uomini, poi salì sulle radici dei paletuvieri e passando dall’una all’altra ed aprendosi il passo fra i rami e le foglie, attraversò i banchi, giungendo in brevissimo tempo sull’isolotto.

Era un piccolo brano di terra, di forse cinquanta metri di circonferenza, circondato da alte canne palustri e da paletuvieri e coperto da alti mangli, i quali colle loro radici avevano rassodato il suolo che un tempo doveva essere stato un semplice banco limaccioso.

Nel mezzo Cordoba scorse una piccola capannuccia di foglie di banani, piantata su quattro pali che la mettevano al coperto dalle inondazioni ed anche dagli assalti dei caimani e fors’anche dai grossi serpenti d’acqua delle savane.

— Che sia il rifugio di qualche negro che ha da rendere dei conti alla giustizia? — si chiese. — Oppure qualche stazione delle spie degl’insorti?... Vediamo. —

S’arrampicò lestamente su di un palo e raggiunse la piattaforma issandovisi sopra. La prima cosa che scorse fu un’amaca tesa fra i due pali più grossi e che occupava mezza capanna, e poi una raccolta di banani, di cedri e di mangli, quindi una lepre che pareva fosse stata scuoiata di recente, poi appesi ad una trave un fucile da caccia di vecchia fabbricazione ed un carniere assai gonfio.

— Si può andare a vedere cosa vi è là dentro, — mormorò Cordoba, diventato eccessivamente curioso.

Tirò giù il carniere e si mise a frugarlo, levando successivamente del canape, una scatola di polvere, un rotolo di pallini, poi degli stracci. Stava per rimettere tutto a posto, quando vide sfuggire, da uno di quegli stracci, un pezzo di carta ripiegata in quattro.

— Oh!... Oh!... — mormorò. — Vediamo cosa contiene; suppongo che non sarà un piano di guerra degl’insorti. —

Spiegò la carta e appena guardatola non potè frenare un gesto di stupore, nè trattenere un grido.

— Ritorniamo presto e di corsa, — disse, cacciandosi in tasca quella carta. — Ah!... Mio caro Pardo, ti giuro che l’Yucatan non è fatto per te.

Ridiscese prontamente, attraversò i paletuvieri, sostò un momento sulla riva per vedere se era seguito, poi si lanciò attraverso la foresta, ripetendo:

— L’Yucatan non fa per te. —