La capitana del Yucatan/11. Un incontro inaspettato

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11. Un incontro inaspettato

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CAPITOLO XI.


Un incontro inaspettato.


La corsa del lupo di mare attraverso i centomila vegetali che ingombravano il suolo durò una buona mezz’ora, poi bruscamente cessò ai piedi d’un enorme cedro che lanciava la sua cima a sessanta metri dal suolo.

Quella improvvisa fermata non era causata da un cattivo incontro nè da un esaurimento di forze, bensì da una viva inquietudine che si era impadronita dell’uomo di mare. Egli non riconosceva più i luoghi che poco prima aveva percorsi per seguire il cubano.

Nella sua foga aveva corso a casaccio, senza direzione alcuna, credendo di poter giungere facilmente al campo e si era ora accorto di essersi smarrito in mezzo a quel caos di vegetali.

Il terreno paludoso era scomparso e si trovava ora in mezzo a terreni avvallati, però pur sempre, per sua disgrazia, coperti da una vegetazione straordinariamente intensa, anzi così fitta da non poter nemmeno più scorgere il sole.

— Per centomila pesci-cani!... — esclamò Cordoba, tergendosi il sudore che gl’inondava il viso. — Sono corso come uno stordito, senza pensare che è più facile dirigersi in pieno mare anche senza una bussola che in una foresta. Ecco una imprudenza che posso pagare cara!...

E non posseggo la più piccola bussola!... Ehi, amico Cordoba, apri bene gli occhi: corri il pericolo di passare la notte a ciel sereno!...

Guardò in alto per vedere se poteva osservare la posizione del sole, senza alcun risultato però, poichè il fogliame era così fitto da non permetterlo. Si guardò intorno sperando di riconoscere, in quei colossi vegetali, qualche gruppo che avesse già notato durante la marcia verso la palude ed invece s’avvide che le piante erano tutte d’altra specie. Non vedeva che cedri selvatici altissimi e assai grossi, frammischiati a pochi banani intristiti e senza frutta ed a gruppi di mauritie, superbe palme che portano delle foglie lunghe trenta piedi, ossia di dieci metri, le quali coronano un tronco che sale per cento piedi, e di heliconie argentate che lasciavano cadere le loro splendide spiche a tricolori.

— Questa foresta non è più quella di prima, — mormorò Cordoba, le cui inquietudini aumentavano. — Dove sono andato a cacciarmi io?... Non mancava che questo malanno, oltre la brutta nuova che ho appresa!... Ah!... Farò dei segnali!... —

Si levò dalla spalla il fucile e lo puntò in aria. Stava per far partire il colpo, quando un improvviso pensiero lo trattenne. [p. 89 modifica]

— Quale bestialità stavo per commettere, — disse, abbassando l’arma e gettandosela a tracolla. — E gli uomini che ho scorti, me li avevo adunque dimenticati?... Se odono i miei spari possono tornare, piombarmi addosso e farmi prigioniero. Sono dei ribelli e forse dei più decisi, troppo contenti per poter catturare il comandante in seconda del Yucatan. Amico Cordoba, prepara le gambe e avanti a tutte vele spiegate!... —

Il lupo di mare si rimise animosamente in cammino, procurando di mantenere una via press’a poco diritta, cosa però molto difficile, perchè l’uomo smarrito in una foresta, involontariamente, per quanta attenzione ci metta, tende a descrivere dei giri più o meno vasti, poggiando quasi sempre verso sinistra.

Cordoba non sapeva ove andava e se quella era la direzione giusta; continuava ad avanzarsi sperando di giungere o sulle rive della savana o nella foresta che aveva già percorsa. Disgraziatamente le piante diventavano così fitte, da costringerlo a descrivere sovente delle curve per poter trovare dei passaggi.

I cedri giganti, vecchi forse di parecchi secoli, avrebbero permesso facilmente di inoltrarsi con passo rapido, non crescendo gli uni accanto agli altri, però sotto di essi era sorta un’altra foresta assai intricata, costituita da piante di dimensioni minori e assai fitte.

Erano macchioni di orchidee splendide, di salvia fulgens dai fiori cremisini, di nentzelia dal profumo delicato, di cyntheas dal tronco d’un bel nero, a riflessi metallici, colle loro immense foglie merlettate e di hibiscus ferox che ergevano i loro calici rossi dalle corolle dorate, e di grandi canne inghirlandate da campanule azzurre e purpuree del più splendido effetto. Ora invece s’imbatteva in ammassi inestricabili di passiflore, dalle radici ramose, dal fusto erbaceo o ligneo, dalle foglie reticolate, cariche di quei bizzarri fiori che portano con loro gli emblemi della passione di Gesù Cristo, ossia tre steli raffiguranti perfettamente tre chiodi, cinque stami che sembrano martelli, una piccola corona di spine e un’aureola simile a quella che si dipinge attorno al capo dei santi.

Il lupo di mare, affogato fra tutti quei vegetali, aveva rallentata la marcia. Cominciava ad essere stanco dopo tante ore di continuo cammino ed anche affamato, essendo già il sole prossimo ormai al tramonto.

— Orsù, — mormorò, arrestandosi alla base d’un acajù, e guardando malinconicamente le grandi piante che lo circondavano.

— Bisogna che mi decida a passare la notte qui ed attendere il sole di domani. Fortunatamente in quest’isola non vi sono bestie feroci, oltre i caimani, quindi nessuno verrà a rosicchiarmi le gambe.

Se trovassi almeno qualche cosa da porre sotto i denti ed un sorso d’acqua, sarei ben contento. Vediamo: è impossibile che non possa trovare almeno una pianta di banani o di aranci. — [p. 90 modifica]

Riprese la marcia lentamente, guardando a destra ed a manca e dopo tre o quattrocento passi giunse in una piccola radura che portava le tracce d’una recente coltivazione, essendovi qua e là dei solchi, delle buche e delle canne secche disperse per ogni dove.

— Questa radura un tempo deve essere stata coltivata a canne da zucchero, — mormorò.

Si guardò intorno e scorse, sul margine della foresta, un gruppo di piante che subito riconobbe.

— Ah!... Dei magney!... — esclamò, mandando un lungo sospiro di soddisfazione. — Potrò almeno dissetarmi. —

Quelle che il lupo di mare chiamava magney, erano alcune agave, piante molto preziose, che crescono con buon risultato nelle Grandi Antille.

Questi vegetali che spuntano ovunque, anche nei terreni più sterili, traendo la maggior parte del loro nutrimento dall’umidità dell’aria, impiegano quindici a vent’anni prima di raggiungere il loro completo sviluppo. Durante questo lunghissimo periodo di tempo non aumentano che nelle foglie, le quali diventano lunghe perfino due metri e dello spessore di otto o dieci centimetri. Quando è giunto il periodo favorevole, dal mezzo della pianta sorge un lungo fusto che in soli due giorni, raggiunge l’altezza di quattro e perfino cinque metri!... Osservandolo, lo si vede crescere a vista d’occhio, al pari dei bambù giganti dell’India.

Sulla cima di quel fusto spunta allora il fiore, che non si deve lasciar sviluppare, poichè allora dalla preziosa pianta non si ricaverebbe alcun risultato.

Invece lo si recide e si forma nel fusto un cavo della capacità di due o tre litri, il quale si riempie, due o tre volte ogni ventiquattro ore, d’un liquido zuccherino, fresco, incolore, che chiamasi aguamiele. Quel liquido è il succo che dalle foglie avrebbe dovuto passare nel fiore e che invece si arresta all’estremità del gambo reciso.

Per cinque mesi la pianta continua a somministrare l’aguamiele, dandone circa mille litri, poi esaurita completamente si dissecca e finisce col morire.1

Quel liquido, esposto per dodici ore all’aria, in luogo ombroso, fermenta e forma una bevanda spumante, leggermente inebbriante, gradevolissima e che, specialmente nel Messico, viene consumata in quantità enorme. Si chiama allora pulque.

Non si creda però che la produzione dell’agave termini qui. Dalle sue radici si estrae una specie di acquavite che viene chiamata mezcal!; dalle sue foglie si ricava una specie di carta indistruttibile sulla quale furono scritti i manoscritti degli aztechi, [p. 91 modifica]le famose e civili tribù messicane; colle parti fibrose si fanno corde assai resistenti e dei tessuti, e le sue spine vengono adoperate nella costruzione delle capanne, servendo da chiodi.

Cordoba che era molto assetato, s’avvicinò ad una di quelle piante che era stata decapitata del suo fiore, e trovato il cavo del fusto ripieno di liquido, si mise a bere con viva soddisfazione.

Stava per volgersi onde cercare qualche frutto, quando vide, sul margine opposto della foresta, un uomo che stava immobile ad osservarlo, con un’aria sospettosa, non esente da una viva inquietudine.

Era un giovanotto di ventiquattro o venticinque anni, di statura piuttosto bassa, dai lineamenti angolosi e gli occhi nerissimi e che indossava la divisa dei soldati coloniali spagnoli, di tela bianca. Invece del ros però, un kepì di forma speciale, coperta d’una tela cerata grigia, aveva il capo riparato da un ampio cappello di paglia.

Non aveva alcun fucile, ma al fianco portava la daga, anzi l’aveva impugnata con gesto risoluto, pronto ad estrarla in caso di pericolo.

— Toh!... Un soldato!... — esclamò Cordoba, allegramente. — Ecco un incontro ben fortunato!... Buona sera, giovanotto: siate il benvenuto! —

Il soldato, che si era tenuto sempre presso il margine della foresta per essere pronto a rinselvarsi, credendo forse d’aver innanzi qualche insorto, udendo quelle parole lasciò l’impugnatura della daga e fece alcuni passi innanzi, dicendo:

— Siete un cacciatore voi?

— In questo momento, se devo dire il vero, andavo più in cerca di vegetali che di selvaggina, — rispose Cordoba, ridendo.

— Da dove venite?

— Dalla costa, amico.

— E che cosa siete venuto a fare in queste foreste?

— A cercare il capitano Carrill. Lo conoscete voi?

— Il capitano Carrill!... — esclamò lo spagnolo, con stupore. — Il capitano Carrill, avete detto? Chi siete voi adunque?

— Io sono un uomo di mare.

— Cubano?

— No, un po’ spagnolo ed un po’ anche messicano.

— E che cosa volevate dal mio capitano?

— Dal vostro capitano!... Per mille balene!... Sareste voi uno della scorta incaricata di ricevere il carico del Yucatan?

— L’Yucatan! — gridò lo spagnolo, andando precipitosamente incontro a Cordoba. — È giunta quella nave?

— Da due giorni.

— Nella baia di Corrientes?

— Precisamente.

— Disgraziati! [p. 92 modifica]

— Oh!... Oh!... Che cosa volete dire, giovanotto?

— Non lo sapete adunque?

— Che cosa?...

— Che la scorta che doveva ricevere il carico, è stata fatta prigioniera dalle bande del capitano Pardo?

— Tuoni dell’Yucatan!... — esclamò Cordoba, impallidendo. — Prigioniera!... Ecco una brutta notizia!

— E non sapete che la vostra nave corre il pericolo di venire catturata?

— Catturata!... Adagio, giovanotto mio. Mastro Colon, che comanda in assenza mia e della marchesa del Castillo, non è uomo da lasciarsi prendere ed i centodieci marinai che ha con lui sono giovanotti da far pagare caro il tentativo.

— Voi non sapete la trama infernale che hanno progettata?

— L’ho già indovinata.

— Si cercherà di attirarvi nell’interno, farvi prigionieri e poi strapparvi un ordine per far sbarcare il carico.

— Ah!... È così? — disse Cordoba, che aveva riacquistato il suo sangue freddo. — Ditemi, giovanotto, conoscete un certo signor Del Monte?

— È il mulatto che doveva recarsi alla baia onde condurvi nell’interno e tradirvi.

— Il furfante! Lo aveva sospettato!

— L’avete veduto?

— È al campo colla marchesa del Castillo.

— Maledizione su quel cane!

— Vi dico che domani non sarà più vivo, parola di Cordoba. Ora mi direte chi siete voi.

— Io sono l’attendente del capitano Carrill.

— E come vi trovate qui?

— Per la semplice ragione che sono riuscito a fuggire al capitano Pardo. Sono trenta ore che cammino come un disperato, onde giungere alla baia ed avvertire gli uomini del Yucatan del pericolo che corrono. Disgraziatamente vedo che sono fuggito troppo tardi.

— Tutto non è ancora perduto, giovanotto. Siamo ancora liberi ed armati, e l’Yucatan ha dei buoni cannoni per gl’insorti. Dove si trova il vostro capitano?

— Nelle mani di Pardo.

— Con tutta la scorta?

— Sì.

— Da quanto tempo?

— Da tre giorni, — rispose il soldato. — Gl’insorti ci avevano teso un agguato nel folto della foresta, assalendoci in grosso numero e piombandoci addosso così rapidamente, da impedirci d’organizzare la resistenza. Non avrebbero però di certo [p. 93 modifica]conosciuto lo scopo della nostra spedizione, senza i nostri portatori negri.

— Sono stati i negri che hanno raccontato ogni cosa al capitano Pardo?

— Sì, quei furfanti, signore. Forse intimoriti dalle minacce o comperati coll’oro, quei vili hanno tutto svelato.

— E gl’insorti, ai quali premeva che al maresciallo non giungessero armi, hanno preparata la trama. Lo sapevo.

— Voi! —

Cordoba si frugò in una tasca, estrasse il pezzo di carta trovato nella carniera e lo spiegò, leggendo ad alta voce:


«Si ordina a tutti i capi delle bande di catturare la marchesa del Castillo ed il suo seguito, incaricati di sbarcare nella baia di Corrientes un carico d’armi e di munizioni pel maresciallo Blanco, e d’impadronirsi della nave.»

«Pardo».


Carramba! — esclamò il soldato, guardando il lupo di mare con vivo stupore. — Chi vi ha dato quel documento?

— L’ho trovato in una capanna.

— Signore, — disse lo spagnolo. — Dovevate subito tornare a bordo del Yucatan.

— Sarei stato ben contento di andarmene, mentre invece non sono stato nemmeno capace di tornare all’accampamento della marchesa. Per spiare quel furfante di Del Monte, mi sono smarrito in questa dannata foresta.

— Sicchè non sapete ove si trovi il campo?

— Non deve essere lontano; però dove sia lo ignoro.

— Lo troveremo, signore. Io conosco queste foreste, avendole più volte percorse, ora però è troppo tardi per mettersi in cammino. Il sole tramonta e fra poco non ci si vedrà più sotto questi fitti vegetali.

— Attenderemo l’alba.

— La marchesa vi aspetterà?

— Non ho alcun timore. La Capitana non è donna da abbandonare i suoi uomini.

— Ci accamperemo qui e aspetteremo che il sole ricompaia, — disse il soldato. — Avete fame, signore?

— Sono sfinito e sgretolerei volentieri un paio di biscotti.

— Non posso procurarveli poichè non ne ho; nondimeno ho da offrirvi qualche cosa che può surrogarli. Seguitemi, signore. —

Lasciarono la macchia di agave dopo di essersi nuovamente dissetati, quindi si diressero verso il margine della foresta. Il soldato guardò in aria per alcuni istanti come se cercasse di discernere qualche cosa fra il folto fogliame, poi si fermò dinanzi ad un albero dal tronco liscio e fusiforme, sostenuto da un certo [p. 94 modifica]numero di radici che uscivano da terra, tenendolo come sospeso ad un metro d’altezza e che all’estremità superiore portava un bellissimo ciuffo di foglie, in mezzo al quale sorgeva un germoglio voluminoso, lungo più di due piedi.

— La nostra cena sta lassù, — disse il soldato.

— È vero, — rispose Cordoba. — Conosco quest’albero. È l’areca oleracia.

— O meglio un cavolo palmizio, come lo si chiama qui, — rispose il soldato.

Il soldato si sbarazzò della daga, abbracciò il tronco che era assai panciuto nella sua parte inferiore, ed aiutato da Cordoba, dopo non poca fatica potè giungere sulla cima e troncare, con alcuni colpi di coltello, il grosso germoglio gettandolo al suolo.

Quella pianta, come aveva detto Cordoba, era una di quelle che i botanici chiamano areca oleracia, alberi che crescono in gran copia nell’America centrale ed anche più al sud, soprattutto però nelle Antille.

Appartengono tali vegetali alla numerosa famiglia delle areche e quelli dell’America producono una specie di mandorla di dimensioni enormi, essendo lunga quasi un metro e grossa alla base quanto la coscia d’un uomo, di sapore gradevolissimo, dolce e anche nutriente, ricercata specialmente dai negri delle piantagioni.

Quella mandorla cresce proprio nel centro del gruppo di foglie, in forma di cono e può nutrire a sufficienza quattro ed anche cinque uomini.

Se ne fa però un tale consumo, da temere che col tempo quelle utili piante finiscano collo sparire, poichè privandole di quel germoglio distruggono gli organi della riproduzione.

Cordoba ed il soldato, caricatisi della grossa mandorla, tornarono nella piccola radura e levate le nove foglie che la rinserravano, si misero a sgretolarla avidamente, essendo entrambi assai affamati.

Quando si furono satollati, si distesero placidamente fra le erbe, accanto alle agave, accendendo una sigaretta e chiacchierando come due vecchi amici.

— Orsù, — disse Cordoba, dopo d’aver narrate le peripezie toccate all’Yucatan durante la traversata dello stretto, — ditemi come va la guerra. Da quattro giorni noi siamo perfettamente all’oscuro sulle mosse degli americani. Cosa fanno quegli insolenti?

— Poco di buono finora, — rispose il soldato. — Si limitano a bloccare le coste, cercando di predare le navi mercantili spagnuole.

— Da veri pirati.

— Hanno già catturato la goletta Buenaventura, che navigava presso Key West ed il piroscafo Pedro presso le coste settentrionali di Cuba, ed il Guido. [p. 95 modifica]

— E nessun bombardamento finora?

— Sì, due fatti d’arme. A Cardenas la nostra cannoniera la Ligera ha respinto a cannonate, danneggiandola fortemente, la contro-torpediniera americana Cushing che tentava di sbarcare delle armi per gli insorti, e Matanzas è stata bombardata dalle navi americane New-York, Cincinnati e Puritan, con poco profitto però e nessun sbarco.

— Se la prendono con calma gli yankees, — disse Cordoba, ridendo.

— A Cuba sì, pare però che altrove agiscano rapidamente, — disse il soldato, la cui fronte si era oscurata.

— Cosa volete dire?

— Che le isole Filippine sono esposte ad un grande pericolo e che si teme assai per Manilla. Quando noi lasciammo l’Avana, regnava una viva inquietudine per le brutte notizie giunte dalla Spagna.

— La squadra americana del Pacifico si dirige forse verso Manilla? — chiese Cordoba, con ansietà. — Se ciò è vero, temo che le Filippine corrano un gravissimo pericolo.

— Sì, la notizia è stata comunicata, ma è da sperare che la nostra flotta le impedirà l’accesso nella baia. —

Un sorriso d’incredulità sfiorò le labbra del lupo di mare.

— La nostra flotta! — disse con voce amara. — Cosa credete che possa fare contro i grossi incrociatori corazzati del contrammiraglio Dewey?... Uno solo basterebbe a ridurre a mal partito le vecchie navi dell’ammiraglio Montojo, anche se queste fossero aiutate dalle batterie di terra.

Non ve n’è che una, delle nostre, che possa resistere qualche po’: la Reina Regente e anche questo incrociatore di seconda classe non è protetto.

Amico mio, mi dispiace a dirvelo, ma se il contrammiraglio americano muove verso le Filippine, ai nostri marinai non rimarrà altra prospettiva che di farsi bravamente uccidere a bordo delle loro vecchie navi.

— Lo credete?

— È un uomo di mare che vi parla.

— Allora le Filippine sono perdute.

— Lo temo, amico, tanto più che anche laggiù gli insorti non si sono completamente calmati. Il fuoco cova ancora sotto le ceneri e da un momento all’altro può scoppiare con nuova violenza. Cosa potrebbero fare i nostri compatrioti, assaliti dalla parte del mare dagli americani e dalla parte di terra dagl’insorti?

— Si diceva che l’insurrezione era stata spenta.

— Non del tutto. Gli americani la risveglieranno, siatene certo tanto più che hanno a bordo d’una delle loro navi Aguinaldo, uno dei più influenti capi dell’ultima insurrezione. Orsù: [p. 96 modifica]Dio protegga la Spagna o la finirà male qui ed anche nell’Oceano Pacifico, nonostante il valore o l’energia indomabile dei nostri compatrioti.

Amico, buona notte!...

— Dormite?...

— Chiudo gli occhi per qualche ora.

— Io veglierò.

— Grazie, poi vi darò il cambio. —

Il lupo di mare stava per allungarsi fra le erbe, quando si rialzò bruscamente, esclamando:

— Uno sparo!... —

Note

  1. Mi sorprende come non si sia mai pensato a trarre profitto di questa preziosa pianta che cresce bene nelle nostre provincie meridionali, specialmente in Sicilia.