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I. Il punto di partenza per una storia della letteratura italiana - Gli antichi rimatori siciliani

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Gli antichi rimatori siciliani.

lettera a camillo de meis


Volevo in questi giorni scrivere alcuna cosa delle antiche poesie italiane; ma come fare? Non ho ancora la mente tanto quieta, ch’io possa mettermici riposatamente. — Pensiamo, dico fra me stesso, pensiamo seriamente a Fra Guittone e Fra Iacopone; — e vi ci tengo fissa la mente e mi sforzo di cacciar via gli altri pensieri. Ma questi stessi sforzi li attirano, e in sul piú bello Napoli e Torino, e gli amici e i congiunti, seggono non invitati accanto a Fra Guittone e a Fra Iacopone. Non potendo contrastare a questa disposizione di animo, il meglio è acconciarvisi. Permettimi, dunque, mio amatissimo, che a te indirizzi la parola, a te che soprattutto mi stai ostinatamente innanzi; e però, mescolandoti con queste mie osservazioni, io non fo che tradurre in iscritto quello che ha luogo nel mio animo. Mi è dolce di conversare con te, di trovare una voce amica che risponda alla mia, ora massimamente che, lontano dall’Italia, parmi quasi che tutti mi abbiano dimenticato.

Ogni volta che apro una qualsiasi storia della letteratura e che m’intoppo nella famosa quistione dell’origine della lingua italiana, i miei sedici anni mi tornano innanzi. Capitato da poco nella scuola di Basilio Puoti, io mi appassionai per [p. 180 modifica]questa quistione com’erami prima appassionato per Annibale e Leibnizio. Uscito appena dal Portoreale e dall’abbate Troise, gittatomi a capo in giú in mezzo all’aureo Trecento e ficcatimi bene bene nel cervello una cinquantina di testi di lingua, mi tenevo giá un grande uomo e parlavo di tutto. Non passava giorno ch’io non m’azzuffassi con qualcuno de’ miei compagni; e a vederci per via cosí caldi alzare la voce e protender le braccia, ciascun dicea in cuor suo: — Che diavol li tocca? — . Il diavol che ci toccava era la famosa quistione dell’origine della lingua italiana.

Lingua italiana? anzi toscana, anzi fiorentina; e davo dell’asino a chi la chiamava altrimenti; ben inteso che questo grazioso epiteto era una specie di pallone, che mi si rimandava con la stessa cortesia. La mia collera scoppiava soprattutto quando udivo ad alcuni attribuire l’origine della nostra lingua all’idioma provenzale; chiamavo costoro nemici e traditori del loro paese, e se fossi stato ministro, avrei istituita una commissione delle bastonate per insegnar loro ad amare la patria. Per dimostrare la nobiltá della nostra lingua, io correva fino al dialetto romano, fino alla lingua osca; avrei voluto correre fino ad Adamo. E guai a chi mi parlava di siciliani! Rovistavo librerie per trovare qualche testo antico toscano; e a Ciullo d’Alcamo contrapponevo trionfante messer Agatone de’ Drusi da Pisa e il cavaliere Folcacchiero de’ Folcacchieri da Siena. Chi ti può dire, mio caro Camillo, le dispute e le ire?

Dopo tanto tempo, ora che questa stessa quistione mi si riaffaccia, gitto un’occhiata a parecchi scrittori che ne hanno trattato, e veggendoli cosí appassionatamente smarrirsi in piccole gare, parmi di ravvisare in essi il mio antico me, di trovare in ciascuno qualche cosa de’ miei sedici anni.

Credo sia oramai tempo che la storia della nostra letteratura venga considerata con anima serena, pura da ogni preoccupazione. Abbiamo tante ricchezze, che possiamo con orgoglio mostrarle, senza arrogarci l’altrui: la vanitá e l’invidia non conviene a verace grandezza, e noi siamo una grande nazione. Ed a vergogna di quegli animi piccoli, che pongono l’italianitá [p. 181 modifica]nell’ignoranza e nel disprezzo delle letterature straniere, massime tedesca, io voglio, o Camillo, citarti le parole di un critico tedesco, il quale non crede di menomare la gloria della sua nazione, riconoscendo la nostra grandezza:

Se si gitta un’occhiata anche di volo sulla storia d’Italia del medio evo, si vedrá subito quanto ella si distingua dalla storia degli altri popoli europei, mostrando un rigoglio di forze vive, una varietá di manifestazioni, una virtú produttiva in tutte le possibili forme della vita come non se ne ha in nessun altro luogo. Si può dire che quello che le altre nazioni hanno prodotto singolarmente, si trova tutto insieme in Italia; quello che gli altri popoli hanno condotto a termine in lungo spazio di tempo, lá è venuto in luce con un moto incredibilmente celere; quello che altrove è stato eseguito, lá è stato almeno una volta tentato. Presso nessun altro popolo le idee e le tendenze del mondo antico sono state si lungamente tenaci ed operose, e presso nessun altro le moderne sono germogliate si presto.

E dopo di aver discorse le cagioni di questo straordinario fenomeno, egli soggiunge:

Si comprende dunque come in questa terra potè essere tanto straordinario sviluppo, cosí ricca storia, e tome gl’Italiani poterono divenire il centro della coltura del Medio evo (das Kulturvolk des Mittelalters). E cosí è: e in politica e in amministrazione, nella scienza e nella poesia, nelle arti plastiche e nella musica, ne’ commerci e nella vita sono essi stati i maestri dell’Europa moderna1.

Lasciamo da parte le quistioni futili e le ipotesi. Ciullo d’Alcamo fu il primo che abbia scritto in versi? Ecco una quistione futile. Posto che si, non perciò gli daremo un brevetto d’invenzione. La sua poesia fa parte di tutto un ciclo poetico. La lingua italiana ha origine dal dialetto romano? dalla lingua osca? Si e no: mere ipotesi. Sono problemi che mancano di dati sufficienti. E quanto men soccorrono i fatti, tanto piú lavora la fantasia, e le chiacchiere abbondano. [p. 182 modifica]Restringiamoci a’ fatti, esaminandoli prima bene, e vedremo, dopo, quali deduzioni se ne possono cavare.

Nella Corte di Federico II, abbiamo un primo centro letterario. Gittiamo una rapida occhiata su questi primi trovatori. Ciullo d’Alcamo, il re di Gerusalemme, Rinaldo d’Aquino, Folco di Calabria, Ruggiero Pugliesi, Federico II e i suoi tre figli, Arrigo, Enzo e Manfredi, Pier delle Vigne, Guido e Odo delle Colonne, Iacopo da Lentino, ecc.

Invano leggo e rileggo: non vi trovo alcun vestigio di poesia nazionale: niente che sgorghi dall’intimo della vita sociale. Quante passioni in quel tempo! e quanta energia in quelle passioni! Alcune poesie sono state attribuite ad uno, e poi si è scoperto esser di un altro: e che importa? Le possono essere dell’uno e dell’altro; tutte si rassomigliano: non ci è imperatore, ministro o popolano: poetano tutti ad un modo. Che cosa ci è della loro personalitá? La poesia è la loro domenica: sembra ch’ei scrivano versi per obbliarsi: a quel modo che l’operaio si ubbriaca il di di festa per dimenticare che il dimani è lunedi.

Non solamente non vi è orma della pubblica, ma né della vita privata. Ciascuno mette in quello che pensa qualche cosa del suo cielo, de’ suoi monti, del suo paese, ciascuno mescola di sé tutto che gli si para dinanzi. Vivevano sotto il riso e gli ardori di un cielo meridionale; la natura lussureggiava a’ loro occhi; abitavano una terra dove le passioni sono accesissime e l’amore quasi una febbre. I loro versi sono uno spegnitoio: tutto ciò che vi cala, vi diviene tenebre.

Chi sono costoro? Non sono giá gli uomini dotti, i letterati: questi scrivono per la posteritá, per accattar fama; fanno periodi latini e non si degnano di scrivere in volgare, nella lingua del volgo. Sono forse il volgo? Neppure. Noi non abbiamo poesie popolari.

Chi sono costoro? Sono uomini colti, che vogliono divertirsi, passare il tempo «in onesto sollazzo», come dice il Buti. Si divertono, cantando, sonando, poetando e amoreggiando: la poesia è la «gaia scienza». In Corte di Guglielmo II (ii66) si trovava «di ogni professione gente. Quivi erano li buoni dicitori [p. 183 modifica]in rima di ogni condizione; quivi erano gli eccellentissimi cantatori, quivi erano persone di ogni sollazzo, che si può pensare virtudioso ed onesto» (Buti, citato dal Trucchi). Andiamo ora all’altra estremitá di questo periodo letterario, a re Manfredi. «Lo re la notte esceva per Barletta cantando strambotti e canzuni, che iva pigliando lo frisco, e con isso ivano dui musici siciliani, che erano gran romanzatoli» (Matteo Spinelli, citato dal Trucchi). La poesia per costoro non è una cosa seria; nessuno ha ricevuto dalla natura il caro dono dell’arte. Né mi si dica ch’io domando troppo piú che non sia possibile in questi rozzi inizii. Perché ciò che domando è appunto questa rozza poesia popolare, ingenua, schietta, vera. Leggete le poesie in dialetto siciliano, napoletano, lombardo, veneziano, ecc., e voi sentirete risonare tutte le corde dell’anima commossa, gelosia, amore, malinconia, e gioie e dolori, e fantasie e illusioni; vi abbonda la grazia e non ci manca la forza: il popolo è un gran poeta.

Certo non dovevano mancare a quel tempo canti popolari di questa sorta in dialetto, ma non è lá che attínsero i nostri uomini colti; amarono meglio di poetare in provenzale. E quando allato al dialetto sorse un’altra lingua, gentile e cortigiana, vi gittarono entro una poesia tutta fatta e d’imprestito. La lingua letteraria fe’ cadere in oblio la lingua e la poesia del popolo.

Quando la coltura si spande in un popolo, sorge immediatamente come un muro che separa il volgo dalle cosí dette classi colte. Nel Regno gli uomini colti si riannodarono intorno alla Corte, e cominciò a comparire ne’ costumi e ne’ modi una certa gentilezza ed eleganza. Gli uomini costumati e civili furon detti «cortigiani» e «cortesi»: il che aiuta a spiegare i «cortesi» amanti di Petrarca. Il primo effetto notabile di questa coltura è una nuova lingua, che le classi colte si foggiano a loro simiglianza. Vogliono distínguersi dal volgo nel parlare, come se ne distínguono ne’ modi e nelle vestí. Nacque cosí la lingua «cortigiana» o «aulica», la lingua degli uomini «cortesi».

La lingua delle classi colte è essenzialmente diversa dal dialetto. Questo non esce mai dal cerchio delle mura domestiche; [p. 184 modifica]quella tende naturalmente a propagarsi al di fuori, a farsi generale. Perché il volgo per idee, per sentimenti, per costumi rimane chiuso in se stesso; il suo pezzo di cielo è tutto il suo universo. Ma gli uomini colti de’ diversi paesi costituiscono tutti insieme una sola societá; la lettura li rende contemporanei delle generazioni passate e cittadini di tutto il mondo civile; ricevono ed esercitano una influenza politica e letteraria. Ond’è che i dialetti nascono dalle plebi e le lingue dalle classi colte: una lingua comune suppone giá una certa coltura e una vita comune nazionale.

Gl’italiani erano giá da lungo tempo in comunanza d’idee politiche, religiose e letterarie, e la Lega lombarda e le fratellanze guelfe e ghibelline dovettero stringerli ancor piú. Una lingua comune dovette dunque avere origine di buon’ora; parlata in ciascuna cittá da tutti coloro che sdegnavano il linguaggio del volgo. Trasandata da’ letterati, che scrivevano in latino, e dal popolo che parlava il dialetto, era essa materia ancora grezza, qualche cosa d’indefinito, mescolata da ciascuno col suo dialetto; nondimeno, come parlata dalle classi colte, soprastava giá agli aspri e inculti linguaggi plebei per qualitá eufoniche e per determinazioni grammaticali.

Quando la coltura trovò un centro nella Corte sveva, dove convenivano da tutte le parti i piú eletti ingegni italiani, sorse un disprezzo generale de’ dialetti, e si prese a coltivare con amore la lingua: i due fatti vanno insieme. Ciascun sa con quanta violenza Dante tonava piú tardi contro i dialetti: tanto incontrava ancora di resistenza l’uso della lingua comune.

Il disprezzo de’ dialetti trasse seco il disprezzo e l’obblio della poesia popolare; e cominciò fin d’allora quella scissione tra la plebe e le classi colte, che dura anche oggi, talché sembrano due societá accampate nello stesso luogo senza mescolarsi.

Il popolo non fa versi a vanitá e a passatempo; esso esprime i suoi bisogni e i suoi sentimenti. Estraneo ad ogni coltura, e guardando il mondo attraverso del suo campanile, la sua poesia è schietta immagine del suo stato, rozza, grossolana ne’ sentimenti e nella espressione, ma vera e naturale, piú degna del [p. 185 modifica]nome di poesia che tutti i versi latini di quei tempi. Che cosa potesse essere la poesia popolare italiana, possiamo argomentarlo da’ versi di Ciullo d’Alcamo, disprezzati tanto per la loro salvatichezza, condannati da Dante come scritti in dialetto, e che nondimeno mi sembra quasi che si leggano volentieri in mezzo a tante rime noiose.

Sembra che giá innanzi ci siano state poesie con una certa tendenza a scostarsi dal dialetto ed avvicinarsi ad una forma di dire piú delicata e piacevole all’orecchio. Il povero Ciullo ci si sforza anch’egli, e toglie di peso e trasporta in mezzo a’ crudi suoni del dialetto alcune frasi, che troviamo in poesie posteriori e che quivi stanno in contrasto col rimanente. Tali sono: «Pensando pur di voi. Madonna mia»; «Donna cortese e fina»; «Di bon cor t’amo e fino», ecc. Aggiungerò che la maggior parte de’ modi, mutate le desinenze, sono schiettamente italiani...

  1. Franz Wegele, Dantes Leben und Werke.