La scienza nuova seconda/Libro quarto/Sezione duodecima/Capitolo terzo

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Sezione duodecima - Capitolo terzo - Della custodia delle leggi

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[CAPITOLO TERZO]

della custodia delle leggi

999La custodia degli ordini porta di séguito quella de’ maestrati e de’ sacerdozi, e quindi quella ancor delle leggi e della scienza d’interpetrarle. Ond’è che si legge nella storia romana, a’ tempi ne’ quali era quella repubblica aristocratica, che dentro l’ordine senatorio (ch’allora era tutto di nobili) erano chiusi e connubi e consolati e sacerdozi, e dentro il collegio de’ pontefici (nel quale non si ammettevano che patrizi), come appo tutte l’altre nazioni eroiche, si custodiva sagra ovvero segreta (che sono lo stesso) la scienza delle lor leggi: che durò tra’ romani fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, al narrare di Pomponio giureconsulto. E ne restarono detti «viri», che tanto in que’ tempi a’ latini significò quanto a’ greci significarono «eroi», e con tal nome s’appellarono i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e i giudici, come altra volta si è detto. Però noi qui ragioneremo della custodia delle leggi, siccome quella ch’era una massima propietá dell’aristocrazie eroiche; onde fu l’ultima ad essere da’ patrizi comunicata alla plebe.

1000Tal custodia scrupolosamente si osservò ne’ tempi divini; talché l’osservanza delle leggi divine se ne chiama «religione», la quale si perpetuò per tutti i governi appresso, ne’ quali le leggi divine si devon osservare con certe innalterabili formole di consagrate parole e di cerimonie solenni. La qual custodia delle leggi è tanto propia delle repubbliche aristocratiche che nulla piú. Perciò Atene (e, al di lei esemplo, quasi tutte le cittá della Grecia) andò prestamente alla libertá popolare, per quello che gli spartani (ch’erano di repubblica aristocratica) dicevano agli ateniesi: che le leggi in Atene tante se ne scrivevano, e le poche ch’erano in Isparta si osservavano.

1001Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimi custodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra veduto; tanto [p. 103 modifica] che da Tacito funne detta «finis omnis aequi iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertá (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a’ quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sopra dimostra, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest’istesso da Livio fu ella detta «fons omnis aequi iuris», perch’ella dovett’esser il fonte di tutta l’interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell’ateniese, tuttodí comandava delle leggi singolari, perché d’universali ella non è capace. Al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch’era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le Quistioni perpetue; ma, rinnunziata ch’ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com’i politici l’avvertiscono, non vi è via piú spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti principi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertá popolare si custodirono sí severamente le formole dell’azioni, che vi bisognò tutta l’eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene », perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l’eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d’Aulo Cecina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantino cancellò affatto le formole, ch’ogni motivo particolar d’equitá fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani le umane menti sono docili a riconoscere l’equitá naturale. Cosí, da quel capo della legge delle XII Tavole: «Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristocrazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto, nella libertá popolare, si giunse a tanto sotto le monarchie, ch’i principi non fann’altro che concedere privilegi, de’ quali, conceduti con merito, non vi è cosa piú conforme alla naturai equitá. Anzi tutte l’eccezioni, ch’oggi si [p. 104 modifica] danno alle leggi, si può con veritá dire che sono privilegi dettati dal particolar merito de’ fatti, il quale gli tragge fuori dalla comune disposizion delle leggi.

1002Quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nella crudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero le leggi romane: tanto che in Francia era con gravi pene punito, ed in Ispagna anco con quella di morte, chiunque nella sua causa n’avesse allegato alcuna. Certamente, in Italia si recavano a vergogna i nobili di regolar i lor affari con le leggi romane e professavano soggiacere alle longobarde; e i plebei, che tardi si disavvezzano de’ lor costumi, praticavano alcuni diritti romani in forza di consuetudini: ch’è la cagione onde il corpo delle leggi di Giustiniano ed altri del diritto romano occidentale tra noi latini, e i libri Basilici ed altri del diritto romano orientale tra’ greci si seppellirono. Ma poi, rinnate le monarchie e rintrodutta la libertá popolare, il diritto romano compreso ne’ libri di Giustiniano è stato ricevuto universalmente, tanto che Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa.

1003Però qui è da ammirare la romana gravitá e sapienza: che, in queste vicende di stati, i pretori e i giureconsulti si studiarono a tutto loro potere che di quanto meno e con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole. Onde forse per cotal cagione principalmente l’imperio romano cotanto s’ingrandí e durò: perché, nelle sue vicende di stato, proccurò a tutto potere di star fermo sopra i suoi principi, che furono gli stessi che quelli di questo mondo di nazioni; come tutti i politici vi convengono che non vi sia miglior consiglio di durar e d’ingrandire gli Stati. Cosí la cagione, che produsse a’ romani la piú saggia giurisprudenza del mondo (di che sopra si è ragionato), è la stessa che fece loro il maggior imperio del mondo; ed è la cagione della grandezza romana, che Polibio, troppo generalmente, rifonde nella religione de’ nobili, al contrario Macchiavello nella magnanimitá della plebe, e Plutarco, invidioso della romana virtú e sapienza, rifonde nella loro fortuna nel libro De fortuna romanorum, a cui per altre vie meno diritte Torquato Tasso scrisse la sua generosa Risposta.