La tecnica della pittura/CAP. II.

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CAP. II. L'encausto

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CAP. I. CAP. III.
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CAPITOLO II


L'Encausto.


L
e notizie incerte che si hanno sulle origini di tutti i processi di dipingere togliendo la possibilità di ordinarne lo studio, secondo la precedenza di comparsa nell'arte, permettono che nel trattare partitamente di ciascuno la scelta s'informi al rapporto più diretto che hanno la pratiche d'ogni singolo metodo col fine della durabilità del dipinto, sia per i principi generali che se ne possono dedurre che peri vantaggi effettivi che l’una pratica presenta sull'altra.

Né, forse, nessun argomento quale il ritenuto vantaggio della introduzione della cera nei colori per la conservazione delle pitture, offre campo d’iniziare le facoltà critiche del pittore, rispetto all'impiego dei suoi mezzi materiali, tenuto calcolo inoltre della circostanza che il più complesso fra i metodi di dipingere degli antichi fu certamente l’encausto, perché reclamava, oltre il concorso principale della cera e dei colori, convenientemente preparati, il sussidio del fuoco pel miscuglio delle tinte e la verniciatura finale. [p. 38 modifica]Che questo processo di pittura si debba ritenere più antico dei Greci e dei Romani si dimostrò esaurientemente dal Fabbroni1, nella pubblica adunanza della R. Accademia Economica di Firenze delli 10 Febbraio 1794, illustrando la pittura ad encausto di un frammento di bende e tuniche di una mummia, del grandioso Museo Egizio della stessa città, opinione sostenuta anche dalle prove evidenti di residui di cera colorata, che ancora si scorgono nelle figure incise di alcuni sarcofaghi in granito e legno posseduti dal Museo Egizio del Louvre.

Le traccie di cera rilevate su antiche pitture sono innumerevoli tanto da far ritenere, come osserva il Girard, che l’encausto abbia durato quanto il mondo antico e sopravissutogli anche, estendendosi dappertutto.

In una tomba gallo-romana, scoperta a Saint-Médard des Prés, in Vandea, si è trovato un bagaglio completo da pittore ad encausto, composto fra gli altri oggetti di una scatola di bronzo a guisa di tavolozza, e di una spatola, la cui forma ricorda quella del cestrum, istrumento caratteristico della pittura a cera.

Ma di questa pittura singolare che si vuole impartisse ai colori una trasparenza e intensità inaccessibile alla pittura ad olio ed a fresco non rimangono che reliquie rarissime ed incerte.

La « Musa di Cortona » dipinta sull’ardesia, delle dimensioni di appena centimetri 38 e mezzo di altezza e centimetri 33 di larghezza, non offre di questo processo di colorire un esemplare sicuro, dubitandosi persino che potesse essere opera del 1500, ed i ritratti raccolti dal medio [p. 39 modifica]Egitto, appartenenti a mummie del primo secolo dell'era nostra, che figurarono all’ Esposizione di Parigi nel 18809, seppure interessanti pel senso di vita colto dall’artista in qualcuno di quei volti, non istruiscono gran fatto sul meccanismo di esecuzione ben lontano da quella perfezione che i grandi elogi fatti dagli scrittori alla scuola di Sicione e alle opere di Pausia e di Protogene, e il continuo invocare di quest'arte, farebbero supporre.

Talchè del metodo di dipingere detto ad encausto, rappresentato da così pochi e deboli esemplari, da indurre la maggior meraviglia che possano mai servire di base persuasiva degli entusiasmi sempre pronti a rinascere per la pittura a cera, nulla si saprebbe senza quanto ne scrissero Plinio e Vitruvio, e anche questo forse dimenticato senza l'attenzione richiamata su di esso da eruditi ed artisti della seconda metà del secolo XVIII, che ne resero il nome più comune di quanto effettivamente il processo sia praticabile e di uso nell'arte moderna.

I primi tentativi di dipingere a cera si iniziarono a Parigi. « Poche parole di Vitruvio e di Plinio, e queste oscure a’ dì nostri e dai critici variamente lette ed intese, erano la carta e la bussola da scoprire questo nuovo metodo », scrive il Lanzi.

Il Conte di Caylus si ritiene il promotore delle ricerche che dovevano appassionare per un secolo i dilettanti dell’arte ed un numero grandissimo di persone che misero a contributo quanto la filologia, la chimica e la pittura parevano suggerire e porgere di aiuto alla interpretazione delle troppo laconiche informazioni dei due romani scrittori. Le prove non potevano che riescire laboriose, ma infine i lavori di Caylus, Arduino, Bachellière, Cochin il giovine, Valter e Mayault, si concretarono in una memoria presentata dai tre primi e dall'Accademia delle iscrizioni rite[p. 40 modifica]nuta degna di premio, facendo posto all'encaustica fra gli articoli ampiamente illustrati dell’ Enciclopedia francese.

In Italia le tante pitture murali antiche resistenti alle ingiurie dei secoli e quelle che si venivano continuamente scoprendo negli scavi di Pompei, non erano minor causa di riflessioni per i cultori d'arte dell’epoca fra il deperimento delle opere moderne invecchiate sotto i loro occhi e la conservazione sorprendente delle decorazioni dell'Ercolano, segnatamente quelle della Villa Stabbia che il Winckelmann tanto esaltava, e stimolo a seguire con interesse il movimento d’oltralpe associandovi l’opera della mente e della mano.

Lo spagnuolo abate Requeno, soggetto, dice il Lanzi, nel quale si accoppiavano le qualità richieste a disaminare e promuovere la nuova scoperta: « intelligenza di letterato, pratica di pittore, raziocinio di filosofo e pazienza di esperimentatore », prese occasione da questo stato di animi e dalle considerazioni suggeritegli dai vari sistemi di pittura encaustica che dalla Francia facevano capolino in Italia, per tentare le prove che diffusamente esplicò nei suoi Saggi sul ristabilimento dell'antica arte dei greci e dei romani pittori, libro corso per le mani di tutti.

Una quantità di opuscoli fece seguito a questa che si può dire l’opera capitale prodotta fra noi, come quella da cui derivano tutte le altre, essendoché la Cerografia del Tomaselli, le disquisizioni sulla cera del conte Torri e i lavori dell’Astorri e del Fabbroni, concordino in certo modo sul fine, pure essendo nei mezzi proposti per le varie applicazioni della cera fra i colori affatto diversi: e, singolare a notarsi fra tanti ricercatori, il criterio altresì per la soluzione dello stesso problema non è mai punto di partenza per un perfezionamento possibile delle modalità proposte, ma ciascheduno ha il proprio processo da contrapporre a [p. 41 modifica]quanti si conoscono, quasi a dimostrare che sostanzialmente non si era preoccupati dal pensiero dell’utile dell’arte, quanto dall'ambizione di essere chiamati scopritori dell’encausto.

Tre differenti modi di unire la cera ai colori distinguono l’encausto descritto da Plinio2, dei quali tre metodi, secondo i migliori interpreti, due per la difficoltà dell’esecuzione si impiegavano per piccoli dipinti, mentre il terzo, derivato dalla maniera di dipingere le navi, e lavoro principalmente di pennello, dette campo di estendere l’uso delle cere colorate sino alle più grandi pitture murali.

Il primo metodo, pel quale si adoperava uno strumento di ferro (rhabidion) schiacciato da un estremo in guisa di spatola ed acuminato dalla parte opposta, consisteva nel disporre le cere colorate a piccole porzioni secondo uno stabilito disegno, e questa specie di mosaico veniva poi modellato e fuso dallo stesso strumento convenientemente riscaldato all’una o all'altra delle sue estremità.

Il secondo metodo si vuole che fosse praticato incidendo l’avorio, coperto di uno strato di cera per mezzo del cestrum o veruculum, foggiato come un bulino, che scaldato abbruciava alquanto l’avorio messo poi di uno o più colori e infine verniciato di cera per mezzo del fuoco.

Ma veramente con molte ragioni spiega l'abate Requeno che si trattasse invece di una pura incisione su avorio ingiallito, nel quale i lumi si ricavavano raspando leggermente la tinta gialla che metteva a nudo il bianco sottostante, e le ombre fossero scavate e bruciate collo stesso stiletto rovente.

Il terzo metodo si ritiene fosse diviso in due operazioni [p. 42 modifica]distinte: preparare cioè le cere colorate e sciolte, distendendole col pennello al modo solito della pittura, e in ultimo passare davanti al dipinto con una specie di braciere, detto cauzerium, e fondere tutte le cere per dare loro il finito e un lustro generale.

Se varie furono le interpretazioni cui si prestano le parole sibilline di Plinio che l’abate Requeno traduce3: « Anticamente furono due generi di pittura all’ encausto, cioè con la cera, ed in avorio collo stiletto o sia schidioncino; in finché cominciarono a dipingersi le navi; giacché allora avvenne un terzo metodo di dipingere col pennello struggendo la cera al foco; la qual pittura delle navi non si corrompe, o guasta nè pel sole, nè pel sale, nè pe’ venti », e si volevano ritenere come spiegazione sufficiente per ricostruire il processo encaustico, confortati dall'altro enigma della « cera punica », infinite risultarono le esperienze tentate per determinare prima la composizione della cera punica, ingrediente principale, ed in seguito il modo di rendere la cera ubbidiente al pennello, dacché la durezza che acquista nel rapido raffreddarsi toccando il quadro, mostri subito la necessità di qualche altro sussidio che la mantenga molle il tempo indispensabile per poterla modellare.

Nel pullulare in Francia ed in Italia dei processi suggeriti come succedanei dell’encausto greco, i sistemi si possono ridurre a tre: la soluzione della cera in ranno, ovvero, in termini più generali, in qualunque mezzo che valga ad incorporare la cera coll’acqua; la liquefazione al fuoco in olio fisso; la soluzione per mezzo di olio essenziale4. [p. 43 modifica]L’abate Requeno sciogliendo al fuoco cera e diverse resine coi colori in polvere, trovò una composizione che, macinata ad acqua, si presta obbediente al pennello come una tempera, e verniciata a cera, si fonde col calore, formando un corpo solo, a detta dell'autore, di una solidità considerevole. Allora contrappose arditamente il suo trovato ai processi presi in considerazione dall’Accademia francese, insieme scrivendo una critica poco lusinghiera per gli inventori premiati a Parigi.

Egli analizza l'articolo « encaustique » del gran Dizionario Enciclopedico, dove vengono compendiate le dissertazioni ed i metodi d’imitare l’antica pittura, presentati dal Conte Caylus da M. Bachellière e Cochin figlio, sui vari encausti dei Greci e dei Romani, in un colle loro interpretazioni del famoso brano di Plinio e i vaghi appoggi di alcuni versi: di Marziale e d’Ovidio, dal cui contesto emergono gli estremi del processo: sciogliere cioè le cere in modo da renderle coi colori maneggiabili al pennello e abbruciare in qualche modo la cera per condurre a termine il lavoro; e si sbarazza subito del Conte Caylus perchè fonda il suo sistema su manipolazioni chimiche ignote agli antichi, ai quali il Requeno nega sino la conoscenza del bagno-maria, degli spiriti di terebinto e di altri oli, forse con precipitato giudizio.

Sulle esperienze di M. Bachellière che in parte corrispondono colle prime ricerche dello stesso abate Requeno, è così tipico, in fatto di ricette pittoriche, il caso toccato all’erudito abate, che vale la pena di riferire le sue stesse parole:

« Leggonsi più piacevolmente i quattro metodi di dipingere all’encausto di M. Bachellière, due dei quali furono rigettati dall'Accademia; ma il terzo premiato ed encomiato col quarto, il quale è una diversa applicazione del terzo. [p. 44 modifica]« lo però non posso contenermi in questo luogo senza lagnarmi duramente dell'estensore dell’articolo, perché o per trascuraggine o per mancanza d'intelligenza dell’argomento, tralasciò qualche circostanza necessaria onde poter rendere praticabile il vantato metodo dello scioglimento delle cere. Contro il suddetto articolo opporrò le mie replicate esperienze, senz’animo però di tacciare né l’Accademia né il signor Bachellière, giacché non è punto credibile l'impostura in un uomo onesto, né la sorpresa negli accademici più illuminati.

« Io ho fatto per sei volte la prova in diversi tempi del 3° premiato metodo del signor M. Bachellière, avendo in mano l'ultima volta per non mancare di un jota l'articolo copiato fedelmente dall’ Enciclopedia, ove è scritta e lodata l'operazione del suddetto autore.

« Incominciai prima a scaldare l’acqua naturale in un pignattino di terra verniciata e nuovo, poi la satollai di sal tartaro e facendola sgocciolare per carta grigia, vi gettai pezzetti di cera bianca e vergine, i quali con la spatola d'avorio, come si prescrive, mischiai in maniera tale sulle bragie che fecero all'occhio una calda saponata; l’esperienza procedeva benissimo, ma la mescolanza di cera e sal tartaro raffreddata fu tanto lontana dal diventare facile e solubile nell'acqua fresca, come doveva, che tutt’all'opposto acquistò una tale resistenza e durezza quali da sé non ha mai la sola cera. Tornai una o più volte a fare accuratamente la esperienza provvedendomi in diverse officine del sale di tartaro e fino di cremor tartaro: con ambedue questi sali feci separatamente la prova ma senza profitto: ultimamente chiamando due amici, i quali avrei sommamente a grado di poter nominare, sì per dare più peso alle mie asserzioni colla testimonianza di due persone profondamente instrutte nella lettura di sì fatte esperienze, [p. 45 modifica]come per dare la meritata lode ai loro talenti, li chiamai, dissi, acciocché attentamente osservassero, quanto io era nuovamente per eseguire; dopo avere dunque uno di loro letto meco l'articolo « encaustique » dell’ Enciclopedia, e con singolar attenzione il tratto del terzo premiato metodo, del quale feci io un transunto: avendolo io in mano a fine di notare se mancava in qualche picciola circostanza; tornai sotto i loro occhi e col loro ajuto a replicare tutte le operazioni; ed essi pure trovarono la cera raffreddata tanto lontana dal diventare solubile che l’uno degli assistenti amici disse, maneggiandola certo con la spatola, che gli pareva più consistente di prima. Onde conchiusi che l’estensore dell’articolo non aveva data notizia di tutte le circostanze, da riuscire nello scioglimento della cera ».

Però l'ostacolo insuperabile che incontrò nello sciogliere la cera col sal tartaro di M. Bachellière è vinto, senza avvertirlo, da lui stesso in un tentativo che descrive in tal modo: « Disperato di non avere trovata veritiera l'Enciclopedia, senza badare per allora alla verità dell’encausto, mi posi a pensare una nuova maniera di sciogliere le cere e da renderle atte alle operazioni del pennello; e subito mi venne alla mente che il sapone bianco e comune era capace di fare migliore effetto che il sale di tartaro: feci infatti la prova ed essa mi riescì a meraviglia. Scaldai entro un pignattino un poco d’acqua naturale, entro la quale gettai tre parti di sapone e una di cera bianca: mischiai la cera col sapone diguazzandola con un bastoncino senza interruzione e trattenendola al fuoco fino al bollore: la ritirai schiumosa, e gonfia; e dopo che fu questa massa bianca raffreddata restò la cera come una vera saponata; onde può stemperarsi nell'acqua fresca e naturale: e mischiarsi con tutti i colori. Io in tela bianca dipinsi un San Francesco di Sales d'un braccio d'altezza. Terminata e asciutta che [p. 46 modifica]fu la pittura, l’avvicinai ad un gran fuoco pel rovescio del dipinto, trattenendola ferma verso la fiamma frattanto che fumava la pittura. L'effetto fu unirsi tutti i colori alla tela, senza guastarsi il disegno né distaccarsi il colore. La tela restò inzuppata delle cere colorite. Il colorito dopo l’abbruciamento comparve assai più bello di prima: ma tutto chiaro e distinto ».

« Poteva forse vantarmi » prosegue l’abate Requeno « del mio pensiero e credere con più ragione di M. Bachellière, aver ritrovato l'antico encausto a pennello, giacchè io col sapone nominato da Plinio, non col sal tartaro alcalico, sconosciuto affatto agli antichi, avevo fatto lo scioglimento delle cere, ed eseguito l’abbruciamento: ma sebbene io conosceva essere talvolta utile il mio metodo, pure studiando più e riflettendo conchiusi che nè il metodo premiato dall'Accademia di Parigi di M. Bachellière, né il mio del sapone non furono que’ degli antichi greci, e romani: quello di Bachellière perciò che l’abbruciamento, o encausto non può eseguirsi se non dietro alla tela di- pinta: operazione a farsi impossibile nelle grosse tavole, e molto più nelle pareti, nelle quali tra greci si dipinse a pennello e si fece l’encausto; e perciò eziandio, che i greci non conobbero altro tartaro fuor delle feccie di vino calcinate, dal quale dista assai il sale alcalico; per fare il quale è necessario un lambicco di recente arabica costruzione, incognito agli antichi greci e romani. La mia saponata di cera e il mio encausto in un col metodo non può essere degli antichi per le medesime ragioni: posto che il sapone nominato da Plinio era tanto diverso dal nostro quanto il sal di tartaro adoperato da M. di Bachellière dalle feccie di vino calcinate dagli antichi greci e romani ». Oggi che l’analogia della potassa e della soda è universalmente nota, come è nota la numerosa nomenclatura del [p. 47 modifica]carbonato di potassa nei vecchi ricettari: Cardonas (sub) potassae, Carbonas potassae, Dentocarabonas potassi, Sal absynthit, Sal fixum absinthi, Sal tartari, Tartarus mephiticus, Mephîtis potassae, Alkaest Vanktelmonti, Nitrum fixrum per carbones, Nitrum firum per se, Nitrum alcalinum, Alcali firum vegetabile acreatum, Tartarinum, Lixiva, Lixivium, Potassa carbonica, sino alle più recenti di olio di tartaro ed acquetta Lechi dei restauratori, le disillusioni del Requeno fanno sorridere, ma tutta la cerografia zoppica di tal passo, onde non è a meravigliarsi se anche l’ultima trovata dell’ abate Requeno di mescolare la cera con resina e colore fu soggetto di critiche. La sua composizione, due parti di cera e cinque di mastice o pece greca, oppure tanta cera quanto mastice e colore sufficiente per poterle impastare, non attecchì più degli altri encausti a base di saponi e di oli essenziali, e l’'erudito abate sarebbe stato assai mortificato se avesse saputo che a non tanto tempo da lui si sarebbe impiegato il suo composto pel restauro... degli affreschi!

Non è qui il luogo per indagare se l'ammirazione accordata alla pittura ritenuta ad encausto dei dipinti di Roma e Pompei, anziché una preoccupazione tecnica derivata dagli inconvenienti della pittura ad olio, non fosse uno dei sintomi precursori dell'imminente neo-classicismo, un’inconscia tendenza a prepararsi il materiale per seguire l’oggettività pittorica di un’altra epoca così come presentemente, fraintendendosi i caratteri esteriori delle tempere dei quattrocentisti, la cui chiarezza non è effetto del processo a tempera, ma deriva da una giustezza maggiore d’osservazione del vero, è data la stura a cento invenzioni di tempere impraticabili, e si attribuisce a difetto intrinseco della pittura ad olio la prevalenza di alcune tinte decorative dei pittori del secolo XVI e la ristrettiva ricerca di luminosità dei tenebristi. [p. 48 modifica]Non è nuovo nell'arte lo scambio di alcune ragioni in. time dell’arte stessa che originarono divagazioni tecniche, ma non oltrepassando l'argomento del comportarsi dei colori materiali, nei loro rapporti colle superfice d’appoggio e intermediari di solubilità, coesione e durevolezza, riesce inconcepibile come mai ricercandosi un processo di dipingere che si faceva risaltare per le sue proprietà di resistenza agli effetti del tempo, fosse poi questa dimenticata negli ingredienti che dovevano comporre la pittura encausta e specialmente nella sua vernice finale, che non si sapeva imaginare composta altrimenti che di pura cera, quasi che nel secolo XVIII non si sapesse dell’ ingiallimento della cera, della sua perpetua mobilità alle menome differenze di temperatura, la nessuna resistenza agli attriti, l'opacità e la polvere continua che trattiene su tutto ciò dov'è distesa, ond'è l’ultima sostanza cui pensare per la protezione di un dipinto.

Ciò induce a credere che ritenendosi a cera le pitture pompeiane e di Roma, che pel loro stato di conservazione mostrano di avere potuto superare tutte le accidentalità di una vita quasi millenaria, si accordasse così, senz’altra indagine, alla cera quei requisiti di rendere inalterabili i colori che altrimenti bisognava procacciarle.

Una testimonianza esplicita di questo preconcetto è offerta dal Fabbroni nella memoria citata, giacché nella deduzione che egli fa di un solvente che scompare senza lasciare traccia di sé, come la nafta; e nel ritenere questo liquido il migliore veicolo per l'impiego dei colori a base di cera, senza intervento di alcun'altra sostanza adatta ad aggiungere solidità e resistenza alle mille cause che intaccano una superfice colorata, dimostra a pieno l'assenza del dubbio sulle proprietà intrinseche della cera medesima o la dimenticanza di occuparsene: sempre però dipendente[p. 49 modifica]mente dal preconcetto supposto, perché, non si può a meno di notarlo, nella stessa memoria e per argomenti consimili, il Fabbroni si mostra dotato di un criterio analitico pro- fondo e proprio in soggetto alle alterazioni prodotte dalle azioni fisiche è chimiche sui colori.

Il calore delle dispute intorno all'encausto, che tiene luogo di argomentazioni presso tanti dei fautori della pittura a cera, non ha riscontro storico se non nella guerriglia dialettica combattutasi intorno alla origine della pittura ad olio. Dopo l’autorevole parere di Raffaello Mengs, che ritenne per affreschi quei cimeli dell’arte greco-romana, l’attenzione di tanta gente bisognosa di rinnovare i procedimenti pittorici colla cera, si trasportò sulle pitture murali del medio-evo. Da questo momento la confusione fra encausto, affresco, tempera e pittura ad olio diventa inestricabile. L’impossibilità di praticare analisi chimiche definitive sulle opere in questione, lasciò insolute tali dispute e campo larghissimo a mostrare che l’erudizione, la pratica dell’arte ed il criterio comune possono travolgere a grossolani errori appena che lo spirito sia occupato da un falso preconcetto.

In tentativi più recenti di pittura a cera o con surrogati della cera, giacché perdura sempre la fiducia di somministrare all'arte un modo di dipingere privo: delle difficoltà dell'affresco e degli inconvenienti del processo ad olio, nonché dotato di solidità superiore ad ambedue, si è fatto strada il sentimento di rimediare al lato difettoso dei primi studi con addizioni di materie insolubili ed opponentisi al calore ed agli attriti che sono i punti più deboli della cera; ma fino agli ultimi proposti, e ve ne sono di ieri, manca quel fondamento di esperienza e di utilità che devesi richiedere, tanto più sicuro quanto più grande è la pretesa che il metodo nuovo si imponga sui precedenti, e devesi [p. 50 modifica]aggiungere ancora, quanto maggiore può essere l’adescainento che le qualità esteriori del processo offerto possono esercitare sugli artisti.

Quale si sia però l'opinione concepita sulle ricerche moderne e sulle qualità che poté avere l’encausto praticato dagli antichi, non rimane meno certo che l’uso della cera ebbe largo impiego nella pittura, documentato abbastanza dagli scrittori che ne videro i saggi5, e come Vitruvio e Plinio, ne conobbero la tecnica, forse tanto comune da non dubitare che se ne perdessero le tradizioni e tramandarle ai posteri, con tutte quelle particolarità che specialmente in Plinio sono così frequenti nella sua celebre storia naturale e per soggetti di assai minore importanza. Salvo che, come altri ritengono; tutto l’encausto o bruciamento non si riducesse in fatto che allo scaldare la cera che serviva di vernice ultima alla comune pittura a tempera, a colla od all'uovo, supposto confermato dalla descrizione di Vitruvio del metodo per far comparire lo splendore del minio sulle pareti, non essendo possibile alcun dubbio sul senso di queste parole: « quando il parete sarà pulito e secco, allora dia col pennello di cera punica liquefatta al foco, temperata con alquanto olio, dappoi posti i carboni in un vaso di ferro, farà sudare quella cera scaldandola col parete, e farà sì che si stenda ugualmente, dappoi con una candela et con un lenzuolo netto la freghi al modo che si nettano le nude statue di marmo, e questa operazione grecamente si chiama Causis. Così la coperta della cera punica non permette che lo splendore della Luna né i raggi del Sole toccando levino via il colore da quelle politure »6. [p. 51 modifica]Ma questa ipotesi è troppo debole, essendo noto che Vitruvio non parla che di pitture architettoniche, semplici tinte di pareti e riquadrature, nulla ostando però che la sola vernice a cera si potesse applicare anche a dipinti d’ornato e di figure. Anzi quest’incerato esteriore fu quello che illuse, secondo Sir Eastlake, il Winckelmann sulle pitture murali di Pompei; né ciò basterebbe ancora a spiegarne il processo vero, né a conchiudere che i Greci ed i Romani dipingessero così comunemente a fresco, come furono propensi a crederlo gli scrittori d'arte; sui libri dei quali, come osserva l'Emeric David nel suo Discorso storico sulla pittura moderna, incorre la parola « affresco » ogni qualvolta non conoscono il processo di esecuzione di una pittura murale.



Note

  1. Fabbroni, Antichità, vantaggi e metodo della pittura encausta. Roma, 1797.
  2. Plinio, Storia naturale, Libro XXXV, cap. XI.
  3. Requeno, Saggi etc, Venezia, 1784, pag. 135.
  4. Eastlake, op. cit., pag. 103.
  5. Henry Cros et Charles Henry, op. cit., pagg. 1-16.
  6. Vitruvio, trad. e comm. di Mons. DanieLe Barsaro. Venezia, 1567. Libro VII, cap. 9.