La vigna sul mare/La donna nella torre

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La donna nella torre

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La vigna sul mare Festa nel Convento

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LA DONNA NELLA TORRE

La bionda Cristina stava affacciata alla ringhiera di ferro della sua prigione, a meditare sul suo triste destino: ma bisogna subito dire che questa prigione consisteva in una stanzetta piena d’aria e di luce, una specie di belvedere coperto, con quattro finestroni che si aprivano sui quattro punti cardinali della torre di una grande villa, anzi di un surrogato di castello, in riva al mare.

Grande e bello era il mare, in quella sera del tardo agosto, e le paranze, appena partite per la pesca, vi si avanzavano lentamente a coppie, quasi leziose, come ballerini in una sala dove ancora non è cominciata la danza: ma grande e bellissima era anche, dal lato opposto, la campagna, con la festa delle vigne cariche d’uva, i prati arati, alle cui zolle l’arancione del tramonto dava tinte di rame; e, in fondo, le muraglie verdi dei pioppi scintillanti di occhi di rubino. Nell’orto sotto la villa, in un campo di lattughe tenere, i susini rossi, coi rami completamente [p. 114 modifica]filigranati di frutti, davano l’idea di alberi di corallo in un fondo marino.

Tutto questo non impediva alla bella Cristina di credersi la donna più infelice del mondo, chiusa nella torre per espiare un delitto non commesso, o dal marito geloso: e chiusa vi era, dal marito, ma perché ella non se ne andasse in giro, lasciando aperta la villa, della quale erano custodi.

*

Il marito, che oltre al custodire la villa, faceva l’ortolano, era andato in città per un suo affare, imponendo alla moglie di vigilare dall’alto della torretta sull’orto e l’entrata della casa: e per essere più sicuro l’aveva chiusa a chiave, consegnando poi questa chiave a Panfilio, il vecchio contadino che coltivava l’orto vicino al suo. Ella lo sapeva, e aveva voglia di urlare, di spaventare i vicini, di richiamare gente. «Figlio di un boia, figlio di un cane, malandrino e somaro», erano i titoli più educati fra quelli che in quel momento ella dava al marito; e gli augurava la mala morte, o per lo meno di rompersi uno stinco; o che arrivassero davvero i ladri e saccheggiassero l’orto e la villa: lei avrebbe finto di svenire, per stare zitta.

Nulla però di tutto questo succedeva: sulla spiaggia pulita e argentea come un vassoio pas[p. 115 modifica]savano le belle bagnanti, coi vestiti di fioraliso ai cui lembi le ondine spumanti pareva tentassero un assalto fraterno: dall’altra parte i ragazzi dei contadini si divertivano a far ragliare il giovane asino in amore di Panfilio; tutti ridevano e si agitavano; lei sola era prigioniera di quel serpente, figlio di un boia impiccato da un altro boia. E propositi di vendetta la consolavano. Alla prima occasione, come del resto spesso faceva, sarebbe scesa a godersi un bagno, col suo costume rosso, comprato di nascosto del marito: costume a maglia, che richiamava l’ammirazione ingorda dei vecchi peccatori della spiaggia; e, sempre offrendosi l’occasione, sarebbe anche andata in pattìno, con qualche giovinetto rematore, spingendosi in alto mare e dicendo le solite sciocchezze, non del tutto innocenti, che abbondavano sulle sue labbra tinte con la carta rossa: parole, diceva suo marito, che sembravano albicocche ed erano patate. E avrebbe lasciato aperta la villa, per dare una lezione a lui, che la trattava come un cane perché figlio di un cane era lui.

*

D’un tratto sbadigliò, e accorgendosi che aveva fame sentì la sua rabbia aumentare. Era l’ora di cena, poiché, come di solito i contadini, lei e il marito andavano a letto presto; e a questo [p. 116 modifica]ricordo ella provò un improvviso sgomento. Egli non aveva mai tardato tanto a rincasare: qualche incidente gli doveva esser dunque accaduto. Le imprecazioni ch’ella gli invocava le caddero ai piedi, come cambiate in pietre roventi; poi caddero anche gl’improperî; e dal subbuglio nebbioso dei suoi cattivi pensieri la figura del marito emerse vittoriosa, ritornando ad essere quella di Giollo, il giovinottone forte e rosso come un toro: un toro che sotto il petto velloso nascondeva un cuore di agnello.

Ed ecco ch’ella si scolorì tutta, anche nelle mani, come si scoloriva il cielo sopra il mare: e sentì freddo, e sentì paura. Adesso, davvero, il senso della solitudine e della prigionia le gelò il cuore: vide il fumo salire dal camino di Panfilio, vide una stella, poi un’altra, impigliarvisi dentro, maliziose e dorate come gli occhi del gatto che gioca col gomitolo; e si attortigliò anche lei ai ferri della ringhiera, col proposito di buttarsi giù se fra cinque minuti Giollo non tornava.

I cinque minuti passano, e Giollo non torna. Si sentivano, sì, nella strada ovattata di sabbia, i biroccini tornare, e le voci dei loro padroni che aizzavano i cavalli; ma, fra tutte, quella del suo uomo taceva. Allora si mise a gridare:

— Panfilio, Panfilio!

L’asinello innamorato le rispose con scherno: pareva le dicesse: [p. 117 modifica]

— Sta bene lì, capricciosa e scervellata che altro non sei. Abbastanza hai vagabondato ieri, per orti e spiagge, a far la civetta con tutti, mentre Giollone lavorava per te. Per questo egli oggi ti ha chiusa nella stia, come un galletto pazzo. Ben ti sta, ben ti sta.

E lei, a sua volta, replicò con un gemito, che poteva anche essere di pentimento: poiché in quel nuovo muoversi del suo cuore ella si rivedeva servetta, anzi sguattera, nella cucina dei signori che in quel tempo venivano ancóra a villeggiare nel castello; e ricordava come Giollo, anche lui al loro servizio, l’avesse pescata dal lavandino, ripulendola come lei ripuliva i bei piatti di porcellana bionda.

Ma lei, a poco a poco, si era dimenticata di tutto; si era mascherata e ubbriacata come a carnevale, rendendo infelice il suo benefattore.

— Giollo, Angelo, angelo mio, perdonami....

Egli non rispondeva; non ritornava; forse non sarebbe tornato mai più. E, quasi per avvalorare questo presagio di sventura, uno splendore rosso, simile a quello che a sera annunzia il turbine per il giorno dopo, sfolgorò ad occidente, riportando sulle cose la luce del tramonto; ma una luce esasperata e demoniaca. Ella balzò, con gli occhi verdi di follìa. C’era un incendio, laggiù: si sentivano urli e richiami: un mugolare di bestie, un correre di gente. Anche l’asino riprese a ragliare: altri risposero: tutto il luogo [p. 118 modifica]parve colto dal brivido del pericolo mostruoso. Nel suo terrore incosciente, anche la donna pensò che il fuoco poteva arrivare fino a lei e arrostirla viva sulla graticola della ringhiera. E ricominciò a gridare chiamando Panfilio.

Nessuno le rispose. Dalla casa del contadino vide però uscire un essere strano, una grande cavalletta, che saltava agitando le ali nella luce cremisi dell’incendio. Era il vecchio che con due frasche correva ad aiutare a spegnere il fuoco.

*

E solo quando il fuoco fu spento, giù, nel silenzio stupito della strada, si sentì finalmente la calma e un po’ nasale voce di Giollo. Egli parlava con Panfilio, e si fermò un momento da lui per riprendere la chiave. Solo allora Cristina si rinfrancò, anzi ebbe un moto felino di rivolta; e attese in armi il marito ritardatario. Ma egli non aveva fretta: rimise a posto le sue cose, poi salì, con un passo pesante da vero carceriere.

— Ho fatto tardi, — disse, cercando di scusarsi, — perché mi sono fermato ad aiutare a spegnere l’incendio, giù dai Pagnini. Quelle sono disgrazie! — aggiunse, ma come per conto suo. — Tutto, tutto hanno perduto, i Pagnini: il grano, la paglia, il fieno: una vacca s’è ustionata, [p. 119 modifica]un bambino pure, e questo forse se ne va all’altro mondo. La vecchia sembra impazzita: l’abbiamo tenuta a forza, perché voleva buttarsi nel pozzo. Ohé, quelle sono davvero disgrazie, cara la mia gente!

Parlava calmo, con la sua voce un po’ nasale, ma, pure nel buio, mentre gli sentiva addosso un odore fumoso di tizzone spento nell’acqua, la moglie lo trovava d’improvviso cambiato. Anche lui, sì; come se anche lui avesse passato un’ora di spavento e corso un pericolo.

— Ohé, quelle sono disgrazie — andò ripetendo, mentre scendevano la scaletta della torre; e si volgeva verso la moglie, come per aggiungere: «In confronto, le nostre beghe sono roba da ridere».

Non lo diceva; lei però lo capiva, e stava incerta se chiedergli o no perdono, come si era proposta nel momento del terrore. Il ricordo del brutto momento la decise per il no: così, un’altra volta, se al buon Giollo tornava il ticchio di volerla chiudere in casa, per farglielo passare ella gli avrebbe ricordato la disgrazia dei Pagnini.