Le Fenicie (Euripide - Romagnoli)/Secondo stasimo

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Secondo stasimo

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Euripide - Le Fenicie (410 a.C. / 409 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1928)
Secondo stasimo
Secondo episodio Terzo episodio
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli


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coro

Marte, di triboli padre, perché fra la morte e l’eccidio
sempre t’aggiri, nemico ti serbi alle feste di Bromio?
Non tu fra leggiadre corone di floridi giovani
effondi le anella del crine, né accordi la voce con gli aliti
del flauto che ispirano del ballo le grazie:
contro la stirpe che nacque da Cadmo, i guerrieri tu spingi che fulgono
nell’armi, tu spingi l’esercito,
un ballo guidando che ignaro è del flauto.
Né, pieno del Dio che folleggia col tirso, ti cuopri di nèbridi,
ma spingi con carri, con briglie, il corsier solidúngulo,
e d’Ismèno correndo sui margini,
sugli Argivi sospingi lo scàlpito
dei cavalli, sospingi la furia
degli Sparti, che imbracciano, tíaso
bellicoso, gli scudi, e scintillano
di bronzo, schierati
lunghesse le mura lapídee.
L’Erinni è terribile Dèmone,
che contro i signori di questa contrada, i Labdàcidi,
sciagure terribili macchina.

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Antistrofe

Monte gremito di fiere, velato di frondi santissime,
o Citerone coperto di neve, o pupilla d’Artèmide,
Edípo, deh, mai non avessi nutrito, che pargolo
esposto alla morte fu qui, fu dai Lari gittato, i malleoli
trafitto, per segno, dall’auree fíbule.
Deh mai non fosse qui giunta la vergine alata, l’alpestre prodigio,
la Sfinge, di Tebe cordoglio,
che un dí, coi suoi canti che ignorano giubilo,
qui venne, e sui muri di Tebe piantata, rapía la progenie
che nacque da Cadmo, con l’unghie e la branca quadruplice
nella luce inaccessa dell’ètere.
L’inviava il Signore dagli àditi
sotterranei, l’Averno, a sterminio
della stirpe di Cadmo. Ed or misera
nuova lite fiorí nella reggia
d’Edípo, tra i figli. Ché mai ciò ch’è illecito, lecito
divenne; ed i figli che nacquero
dal grembo materno illegittimi, pel padre son macchia:
ché il letto ella ascese del figlio.

Epodo

O Terra, fra i barbari udii raccontar nella patria
che tu la progenie
generasti che nacque dai denti del drago crestato di porpora,
pasciuto di belve, che fregio
fu di Tebe. E alle nozze convennero
d’Armonia gl’immortali; ed al sònito
della lira e la cetra d’Anfíone,
le torri settemplici sursero

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di Tebe, nel guado ove gèmine
le vene convengono
di Dirce, che irrorano
piú oltre la florida
pianura d’Ismeno. Ed Io, l’avola
cornígera, ai principi
cadmèi qui die’ vita; e miríadi
di beni a miríadi s’aggiunsero
per questa città ch’or negli ultimi
cimenti di Marte pericola.