Le Mille ed una Notti/Quarto viaggio di Sindbad il navigatore

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Quarto viaggio di Sindbad il navigatore

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Quarto viaggio di Sindbad il navigatore
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QUARTO VIAGGIO DI SINDBAD IL NAVIGATORE.


«I piaceri,» disse, «ed i divertimenti ai quali mi abbandonai dopo il terzo mio viaggio, non ebbero attrattive bastanti per determinarmi a non più viaggiare, e mi lasciai trascinar di nuovo dalla passione in me fortissima di trafficare e veder nuove cose. Messi in ordine pertanto i miei affari, e fatto un deposito di mercanzie nei luoghi ove aveva intenzione di andare, partii prendendo la strada della Persia; ed attraversate parecchie province, giunsi ad un porto di mare, ove m’imbarcai. Si levò l’ancora, ed eravamo già approdati a vari porti di terraferma e ad alcune isole orientali, quando facendo un giorno un lungo tragitto fummo sorpresi da un colpo di vento, che obbligò il capitano ad ammainar le vele, e dare tutti gli ordini necessari per prevenire il pericolo ond’eravamo minacciati. Ma inutili furono tutte le nostre precauzioni; la manovra non riuscì bene; le vele andarono squarciate in mille pezzi, ed il vascello, non potendosi più governare, urtò su alcuni scogli, e s’infranse in modo che gran numero di passaggieri e marinai annegarono, ed il carico fu sommerso...»

Scheherazade era a questo punto, quando vide l’alba. Schahriar alzossi; e la notte seguente ripigliò la sultana in questi sensi:


NOTTE LXXIX


— «Ebbi la fortuna,» continuò Sindbad, «al pari di parecchi altri marinai e mercanti, di afferrare una tavola, e trasportati dalla corrente verso un’isola che avevamo rimpetto, vi giungemmo felicemente e vi [p. 270 modifica]trovammo frutti ed acqua dolce che servirono a ristorarci. Riposammo anche la notte nel sito ove avevaci gettati il mare, senza aver preso alcun partito su quanto dovevasi fare, tanto fu la nostra costernazione per tal disgrazia.

«Il giorno seguente, sorto il sole, ci allontanammo dalla spiaggia, ed inoltrandoci nell’isola, scorgemmo alcune abitazioni, verso le quali procedendo, vedemmo venirci incontro molti negri che ne circondarono, s’impadronirono di noi, e ne fecero tra loro una specie di divisione, conducendoci poscia alle proprie case.

«Cinque miei compagni ed io fummo tratti in uno stesso luogo, ove ci fecero sedere e ci presentarono certa erba, invitandoci coi segni a mangiare. I miei compagni, senza riflettere che quelli che la servivano astenevansi dal mangiarne, non consultarono che la fame, e si gettarono su quei cibi con avidità. Ma io, nel presentimento di qualche superchieria, non volli neppure assaggiarne, e me ne trovai contento; che poco dopo m’avvidi che a’ miei compagni era smarrita la ragione, e parlandomi, non sapevano cosa si dicessero.

«Recarono poscia riso preparato con olio di cocco, ed i miei camerati ne mangiarono abbondantemente; io ne mangiai pure, ma pochissimo. Avevanci i negri presentata prima quell’erba per turbarci la mente, togliendone così il dolore che cagionar ne doveva la trista conoscenza della nostra sorte, e ci davano il riso per ingrassarci, essendo essi antropofagi, ed intendendo divorarci quando fossimo impinguati: e così appunto accadde ai miei compagni, i quali, perduto il senno, ignoravano il loro destino. Ora, poichè io mi era conservato in cervello, indovinerete, o signori, che invece d’impinguare come in altri, divenni ancor più magro; il timore della morte, ond’era continuamente agitato, volgendo in veleno tutti gli alimenti che [p. 271 modifica]prendeva, caddi in un languore, che mi fu però assai salutare, poichè avendo i negri fatto a pezzi e mangiati gli altri, là si rimasero, e vedendomi secco, scarno, informo, rimisero la mia morte a miglior tempo.

«Intanto io godeva di molta libertà, non essendovi chi badasse alle mie azioni; talchè ebbi un giorno agio d’allontanarmi dalle abitazioni dei negri e fuggire. Un vecchio che mi adocchiò e s’insospettì del mio disegno, gridommi con tutta la forza di tornar indietro; ma invece di obbedirgli, affrettai il passo, ed in breve fui fuor della sua vista. Era rimasto solo quel vecchio nelle abitazioni, essendone tutti gli altri assenti, nè dovendo tornare se non verso il tramonto, come solevano fare di sovente; laonde, sicuro che non sarebbero più a tempo d’inseguirmi quando sapessero la mia fuga, camminai tutta la notte. Mi fermai all’alba per prendere un po’ di riposo e mangiare alcuni viveri, dei quali m’era provveduto; indi rimessomi tosto in viaggio, continuai a camminare per sette intieri giorni, evitando sempre i siti che mi parevano abitati, e vivendo di noci di cocco (1), le quali mi somministravano a un tempo cibo e bevanda.

«L’ottavo giorno, giunto sulla spiaggia del mare, vidi d’improvviso molti uomini bianchi al par di me, occupati a raccoglier pepe ond’eravi colà grande abbondanza. La loro occupazione mi fu di buon augurio, e non ebbi difficoltà alcuna ad accostarmi...»

A Scheherazade tacque per quella notte, e la seguente proseguì di tal guisa:

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NOTTE LXXX


— Quelli che raccoglievano il pepe,» continuò Sindbad, «appena mi videro, mi vennero incontro, chiedendo chi fossi e d’onde venissi. Pieno di gioia all’udirli parlare il mio idioma, soddisfeci volentieri alla loro curiosità, raccontando in qual modo avessi naufragato su quell’isola, e com’era caduto in mano ai negri. — Ma quei negri,» dissero coloro, «mangiano gli uomini. Per qual prodigio siete scampato dalla loro crudeltà?» Feci ad essi la stessa relazione da voi testè ascoltata, e ne rimasero sommamente sorpresi.

«Restai con costoro finchè ebbero raccolta la desiderata quantità di pepe; poscia mi fecero salire sulla nave che li aveva condotti, e recatici ad un’altra isola, d’onde provenivano, mi presentarono al loro re, ottimo principe. Ebb’egli la pazienza d’ascoltare le mie avventure che lo sorpresero, e fattimi cambiar abiti, comandò di aver cura di me.

«Popolatissima era l’isola, ed abbondante d’ogni sorta di cose; facevasi poi un gran commercio nella città ove risiedeva il re. Quel grato asilo cominciò a consolarmi della mia disgrazia; e la bontà che quel generoso principe aveva per me, finì di rendermi contento. Infatti, non eravi alcuno che meglio di me fosse entrato nelle sue grazie, e per conseguenza nessuno c’era nella sua corte o nella città che non cercasse l’occasione di farmi piacere; talchè fra non molto fui considerato come nativo di quell’isola anzichè come straniero.

«Notai intanto una cosa che mi parve assai straordinaria: tutti gli abitanti, e lo stesso re, montavano i cavalli senza briglia, nè staffe; il che mi fe’ prendere [p. 273 modifica]la libertà di chiedergli un giorno, perchè sua maestà non si servisse di quei comodi. Mi rispose parlargli io di cose d’ignoto uso ne’ suoi stati. Andai subito da un operaio, gli feci fabbricare il fusto di una sella, secondo il modello che gliene diedi, e terminato che fu, lo guarnii io stesso di borra e di cuoio, e l’adornai d’un ricamo d’oro. Mi diressi quindi ad un fabbro, il quale mi fece un morso della forma che gli mostrai ed un paio di staffe.

«Quando queste cose furono ben perfezionate, andai a presentarle al re, e le provai sur uno de’ suoi cavalli. Il principe lo montò, e rimase soddisfatto di quell’invenzione, attestandomene la sua gioia con molti regali. Non potei ricusarmi di fare parecchie selle pe’ suoi ministri ed i primari uffiziali della sua casa, i quali tutti mi fecero tali donativi, che in breve ne arricchii. Ne feci eziandio per le persone più ragguardevoli della città, che m’ ebbero in grande considerazione.

«Siccome io faceva assiduamente la mia corte al re, un giorno egli mi disse: — Sindbad, io ti amo e so che tutti i miei sudditi che ti conoscono, ti tengono caro a mio esempio. Debbo farti una preghiera, e bisogna che tu m’accorda quanto sono per domandarti. — Sire,» gli risposi, «non v’ha cosa ch’io non sia pronto a fare per attestar l’obbedienza mia a vostra maestà; ella ha su me un potere assoluto. — Voglio darti moglie,» replicò il re, «affinchè il matrimonio ti fermi nei miei stati, e non abbi a pensar più alla tua patria.» Non osando io contraddire alla volontà del principe, mi ammogliò ad una dama della sua corte, nobile, bella, saggia e ricca, nella cui casa stabilitomi dopo le cerimonie nuziali, vissi alcun tempo con lei in perfetta unione. Però non era troppo contento del mio stato, ed aveva in mente di fuggire alla prima occasione, e tornarmene a Bagdad, di cui la mia [p. 274 modifica]condizione, per quanto vantaggiosa, non poteva farmi perdere la memoria.

«Trovavami in tali disposizioni, quando la moglie di un mio vicino, col quale erami legato d’intima amicizia, cadde malata e morì. Io mi recai tosto da lui per consolarlo, e trovandolo immerso in profonda afflizione: — Dio vi conservi,» gli dissi al vederlo, «e vi dia lunga vita! — Oimè!» rispose colui; come volete ch’io ottenga la grazia che mi augurate? Ho un’ora sola da vivere. — Oh!» ripigliai io; «non vi mettete in testa sì funesto pensiero; spero che ciò non accadrà, ed avrò anzi il piacere di possedervi ancora per molto tempo. — Desidero,» ei replicò, «che la vostra vita sia di lunga durata; in quanto a me, i miei affari sono assestati, e vi dirò che mi seppelliscono oggi con mia moglie. Tale è l’uso dei nostri avi stabilito in quest’isola, e che fu sempre inviolabilmente osservato: il marito superstite è sotterrato colla moglie morta, e la consorte superstite col defunto marito. Nulla può salvarmi: tutti subiscono questa legge. (2)

«Mentre stva parlandomi di quella strana barbarie, la cui notizia mi spaventò crudelmente, giunsero in folla i parenti, gli amici ed i vicini per assistere ai funerali. Si rivestì il cadavere della donna coi più ricchi abiti, come pel giorno delle nozze, adornandolo di tutti i suoi gioielli. Fu quindi posta in una bara scoperta, ed il convoglio si mise in cammino. Era il marito alla testa del funebre corteo, e seguiva il corpo di sua moglie. Presero la via d’un alto monte, e colà giunti, sollevata una grossa pietra che copriva la bocca di un pozzo profondo, vi calarono il cadavere senza levargli nè vesti, nè gioie. [p. 275 modifica]Quindi il marito, abbracciati i parenti e gli amici, si lasciò porre senza resistenza in una bara, con un vaso d’acqua e sette piccoli pani accanto, e poi fu calato nel pozzo come la moglie. La montagna distendevasi pel lungo, continuando col mare, e profondissimo era il pozzo. Finita la cerimonia, si rimise la pietra sull’apertura.

«Non è mestieri dirvi, o signori, che fui un tristissimo testimonio di quei funerali. Tutti gli altri astanti non ne parvero commossi, per la loro abitudine di vedere sovente la medesima cosa, ma io non potei trattenermi dall’esternare al re quello che ne pensava. — Sire,» gli dissi, «non saprei maravigliarmi abbastanza dello strano uso vigente ne’ vostri stati, di seppellirci vivi coi morti. Ho viaggiato molto, frequentai genti d’infinite nazioni, e non vidi, nè udii mai parlare di legge sì crudele. — Che vuoi, Sindbad» rispose il re; «è una legge comune, e vi sono soggetto anch’io: sarò sotterrato vivo colla regina mia sposa, se essa muore prima di me. — Ma, sire,» soggiunsi, «oserei chiedere a vostra maestà, se gli stranieri siano obbligati ad osservare simile uso? — Ma certo,» ripigliò il re, sorridendo del motivo della mia domanda; «essi non ne vanno esenti, quando siano maritati in quest’isola. —

«Me ne tornai melanconico a casa con questa risposta. Il timore che mia moglie morisse prima di me, e mi sotterrassero vivo con lei, facevami fare dolorose riflessioni. Frattanto, qual rimedio recare a tal male? Fu d’uopo aver pazienza, e rimettersi alla volontà di Dio. Tuttavia tremava alla minima indisposizione di mia moglie; ma, oimè! n’ebbi ben presto tutto intiero lo spavento; essa cadde malata, ed in pochi giorni morì...»

Scheherazade, a tai detti, mise fine per quella notte al racconto, ripigliandolo il giorno dopo in questa maniera:

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NOTTE LXXXI


— «Giudicate del mio dolore,» proseguì Sindbad; «essere sepolto vivo non mi pareva fine meno deplorabile di quella di venir divorato dagli antropofagi; eppure così doveva accadere. Il re, accompagnato da tutta la sua corte, volle onorare di sua presenza il funebre convoglio, e le persone più distinte della città mi fecero anch’esse l’onore di assistere a’ miei funerali.

«Quando tutto fu pronto per la cerimonia, si pose il corpo di mia moglie in una bara con tutti i suoi gioielli e gli abiti più magnifici, e quindi s’incominciò la processione. Nella qualità di secondo attore della lagrimevole tragedia, io seguiva immediatamente la bara, cogli occhi bagnati di lagrime, e deplorando il mio disgraziato destino; ma prima di giungere al monte, volli fare un tentativo sull’animo degli spettatori. Mi volsi primieramente al re, poscia a quelli che mi stavano intorno, ed inchinandomi fino a terra per baciare il lembo delle loro vesti, li supplicai ad aver compassione di me. — Considerate,» diceva, «che sono uno straniero, il quale non deve andar soggetto a sì rigorosa legge, e ch’io ho nel mio paese un’altra moglie e figliuoli.» Ebbi un bel declamare tali parole con patetico accento; niuno ne fu intenerito; anzi, affrettaronsi a calare nel pozzo il cadavere di mia moglie, e vi fui calato poco dopo in una bara scoperta, con un vaso pieno d’acqua e sette pani. Finita la funesta cerimonia, fu riposta la pietra sul pozzo, senza badare all’estremo mio dolore ed alle compassionevoli mie grida.

«A seconda che mi avvicinava al fondo, scopersi, [p. 277 modifica]col favore della poca luce che veniva dall’alto, la disposizione di quel sotterraneo; era una vastissima grotta, la quale poteva avere cinquanta cubiti di profondità. Sentii tosto una puzza insoffribile che usciva da un’infinità di cadaveri, deposti a destra ed a sinistra; anzi, credetti udire alcuni degli ultimi, che v’erano stati calati poco prima, mandare l’ultimo anelito. Tuttavia, giunto al basso, uscii prontamente dalla bara, mi allontanai dai cadaveri turandomi il naso, e mi gettai per terra, ove rimasi a lungo immerso nel pianto. Facendo allora riflessione alla trista mia sorte: — È vero,» diceva, «che Iddio dispone di noi secondo i decreti della sua provvidenza; ma, povero Sindbad, non è per tua colpa se ti vedi ridotto a soccombere in modo sì funesto? Piacesse al cielo che tu fossi perito in qualcuno dei naufragi da cui scampasti! non avresti ora a perire d’una morte sì lenta e terribile. Ma tu te la sei procurata colla tua maledetta avarizia. Ahi sciagurato! non dovevi tu restartene a casa, a godere tranquillamente del frutto delle tue fatiche? —

«Tali erano gl’inutili lamenti, de’ quali faceva echeggiar l’antro, battendomi la testa ed il petto per rabbia e disperazione, ed abbandonandomi ai più desolanti pensieri. Nondimeno (ho a dirvelo?), invece di chiamare in mio soccorso la morte, per quanto miserabile fossi, l’amor della vita si fece ancora sentire in me, e m’indusse a prolungare i miei giorni; a tentoni, e turandomi il naso, andai a cercare il pane e l’acqua entro alla mia bara, e mangiai.

«Benchè l’oscurità che regnava nella grotta fosse tanto fitta da non distinguervi il giorno dalla notte, pure non lasciai di trovare la mia bara, e parvemi che la caverna fosse più spaziosa e piena di cadaveri che non m’avesse sembrato prima. Vissi alcuni giorni del mio pane e della mia acqua; ma finalmente, non avendone più, mi preparava a morire...»

[p. 278 modifica]Scheherazade cessò qui di parlare; e la notte seguente ripigliò in questa guisa il racconto:


NOTTE LXXXII


— «Aspettava la morte,» continuò Sindbad, «quando sentii alzare la pietra. Si calarono un cadavere ed una persona viva: il morto era un uomo. È naturale il prendere nell’ultime estremità risoluzioni estreme; mentre si calava la donna, mi avvicinai al sito ove dovea essere deposta, e quando m’accorsi che si chiudeva la bocca del pozzo, diedi sulla testa all’infelice due o tre gran colpi con un pesante osso, di cui m’era impossessato, talchè ne rimase stordita, o piuttosto l’accoppai; e siccome non faceva quell’azione inumana se non per approfittare del pane e dell’acqua che trovavansi nella sua bara, ebbi viveri per alquanti giorni. Scorso quel tempo, si calò di nuovo una donna morta con un uomo vivo: ammazzai l’uomo nella stessa guisa, e poichè, per mia buona ventura, regnava allora nel paese una specie di mortalità, non mancai di viveri, mettendo sempre in opra la medesima industria.

«Un giorno, che aveva appunto spedita una donna, intesi soffiare e camminare. Mi avanzai dalla parte d’onde veniva il rumore; avvicinandomi, udii soffiare più forte, e mi parve veder qualche cosa prendere la fuga. Seguii quella specie d’ombra che fermavasi tratto tratto, e soffiava sempre fuggendo, a misura ch’io me ne accostava. La seguii tanto tempo ed andai sì lontano, che vidi finalmente una luce somigliante ad una stella. Continuai a camminare verso quella luce, qualche volta perdendola di vista, secondo gli ostacoli che me la nascondevano, ma sempre [p. 279 modifica]trovandola; e alla fine scopersi che veniva da una fessura della roccia, abbastanza larga per potervi passare.

«A tale scoperta, mi fermai alcun tempo per rimettermi dall’emozione violenta del cammino; poi, inoltratomi verso l’apertura, vi passai, e mi trovai sulla spiaggia del mare. Immaginatevi l’eccesso della mia gioia; fu essa tale, ch’ebbi gran pena a persuadermi non fosse un sogno; quando fui convinto essere cosa reale, o che i miei sensi furono tornati allo stato naturale, compresi che la cosa da me udita soffiare e ch’io aveva seguito, era qualche animale uscito dal mare, il quale fosse solito entrar nella grotta per pascersi de’ cadaveri.

«Esaminai il monte, e notai che stava tra la città ed il mare, senza comunicazione per alcuna via, essendo tanto scosceso, che la natura non l’aveva reso in alcun modo praticabile. Mi prostrai sulla spiaggia per ringraziare Iddio onnipotente della grazia fattami, e poscia rientrai nella grotta per prendervi un po’ di pane, che tornai a mangiare alla luce del giorno con miglior appetito che non avessi fatto dacchè m’avevano sotterrato in quel tenebroso luogo.

«Vi tornai di nuovo, e mi misi a raccogliere a tentone nelle bare tutti i diamanti, i rubini, le perle, i braccialetti d’oro, ed infine tutte le preziose stoffe che mi caddero sotto le mani, portando il tutto sulla spiaggia. Ne formai parecchie balle, che legai accuratamente colle corde che in grande quantità avevano servito a calare le bare, e le lasciai sulla riva, aspettando una buona occasione, senza temere che la pioggia le guastasse, non essendone ancora la stagione.

«Scorsi due o tre giorni, vidi una nave che usciva appunto allora dal porto, e la quale venne a passare vicino al sito, in cui mi trovava. Colla tela del turbante feci segno e gridai con tutta forza per farmi unire. M’intesero, e calata la scialuppa, mi vennero a [p. 280 modifica]prendere. Alle domande dei marinai, per qual caso mi trovassi in quel luogo, risposi essermi salvato due giorni prima da un naufragio colle mercanzie che vedevano; avventurosamente per me, quella gente, senza esaminare il luogo ove mi trovava, e se fosse verisimile quanto diceva, si accontentò della mia risposta, e mi condusse via colle balle.»

«Giunti a bordo, il capitano, soddisfatto in sè stesso del piacere che mi faceva, ed occupato nel comando del bastimento, ebbe la bontà di appagarsi anch’egli della scusa del preteso naufragio che gli dissi d’aver fatto; gli presentai qualcuna delle mie gioie, ma egli non volle accettarle.

«Passammo davanti a parecchie isole, e tra l’altro a quella delle Campane, lontana dieci giornate dall’altra di Serendib (3), con un vento ordinario e regolato, e sei dall’isola di Kela, alla quale approdammo. Ivi sono miniere di piombo, canne d’India e canfora eccellente.

«Ricchissimo è il re dell’isola di Kela, potente, e la sua autorità si estende su tutta l’isola delle Campane, che ha due giornate d’estensione, ed i cui abitanti sono ancora sì barbari, che mangiano la carne umana. Fatto un gran traffico in quell’isola, salpammo di nuovo ed approdammo a parecchi altri porti. Infine giunsi felicemente a Bagdad con molte ricchezze, di cui è inutile farvi qui la minuta enumerazione. Per render grazie a Dio dei favori concessimi, distribuii molte elemosine, tanto pel mantenimento di varie moschee, quanto per la sussistenza de’ poveri, e mi dedicai interamente ai parenti ed agli amici, divertendomi e stando allegro con loro. —

«Qui finì Sindbad il racconto del suo quarto viaggio, che cagionò agli uditori maggior meraviglia dei [p. 281 modifica]tre precedenti. Fece quindi un nuovo dono di cento zecchini a Hindbad, pregandolo, al par degli altri, di tornare il giorno appresso, alla medesima ora, onde pranzar con lui ed intendere la relazione del suo quinto viaggio. Hindbad e gli altri convitati s’accommiatarono; e tornati il giorno dopo, quando furono tutti adunati, si posero a tavola; e verso la fine del pranzo, che non durò meno degli altri, Sindbad cominciò di tal modo il racconto del quinto suo viaggio:


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Sindbad il Navigatore, nelle tombe.     Disp. IV.


Note

  1. Cocco, così chiemasi il frutto e l’albero che lo produce. Questo frutto è grosso come un popone, e talvolta di più. Gli Indiani estraggono filo dalla prima scorza della noce di cocco, facendone tela. La polpa n’è dolce al palato; in questo frutto, colto di fresco, si trova un liquore buono da bere.
  2. Secondo san Gerolamo, gli Sciti seppelliscono i mariti colle mogli.
  3. Nome arabo dell’isola di Ceilan.