Le Mille ed una Notti/Storia del sesto fratello del barbiere

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Storia del sesto fratello del barbiere

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Storia del sesto fratello del barbiere
Storia del quinto fratello del barbiere Storia di Abulhassan Alì Ebn Becar e di Schemselnihar, favorita del califfo Aaron-al-Raschid
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STORIA

DEL SESTO FRATELLO DEL BARBIERE.


«Or non mi resta più che a raccontarvi la storia del mio sesto fratello, chiamato Schacabac dalle labbra tagliate. Aveva egli da prima avuto l’industria di far fruttare le cento dramme d’argento, lasciategli in eredità da nostro padre; ma un rovescio di fortuna lo ridusse alla necessità di mendicare la vita; e in ciò sapeva adoperarsi con molta destrezza, studiando soprattutto di procurarsi l’ingresso nelle case signorili, a mezzo degli ufficiali e de‘ servi, onde giungere liberamente ai padroni ed invocarne la pietà. [p. 152 modifica]

«Un giorno che passava davanti ad un magnifico palazzo, la cui porta elevata lasciava vedere un ampio cortile nel quale formicolava una turba di servi, si accostò ad uno di loro, e gli domandò di chi fosse quella dimora. — Buon uomo,» gli rispose il servitore, «d’onde venite per farmi simile domanda? Tutto ciò che vedete non vi fa conoscere che questa è la casa d’un Barmecida?» Mio fratello, cui era nota la generosità e liberalità de’ Barmecidi, si volse ai custodi, essendovene vari, pregandoli di fargli elemosina. — Entrate,» gli dissero, «niuno ve lo vieta, e dirigetevi voi stesso al padrone di casa, che vi rimanderà contento. —

«Mio fratello non si attendeva tanta cortesia; ringraziò i portinai, ed entrò, con loro permesso, in quel palazzo sì vasto, che molto tempo impiegò per arrivare all’appartamento del Barmecida. Giunse infine ad un grande edificio quadrato, di bellissima architettura, in cui entrò per un vestibolo, dal quale si scorgeva un giardino de’ più deliziosi, con viali di sassolini a vari colori, che ricreavano la vista. Gli appartamenti del pian terreno erano quasi tutti a sfori e rabeschi, e si chiudevano con grandi cortine per difendersi dal sole, mentre poi si aprivano per prendere il fresco quando passata era la caldura.

«Quell’ameno luogo avrebbe destata l’ammirazione di mio fratello, se fosse stato più contento di quello ch’era. Pure, avanzatosi, entrò in una sala riccamente addobbata ed ornata di pitture a fogliami d’oro e d’azzurro, ove trovò un vecchio venerabile per lunga barba bianca, seduto sur un sofà, al posto d’onore; il che gli fece supporre fosse il padrone della casa. In fatti era il Barmecida in persona, il quale, salutatolo con modi cortesi, gli domandò cosa desiderasse. — Signore,» rispose mio fratello con voce da destarne la pietà, «sono un povero uomo [p. 153 modifica]che ha bisogno dell’assistenza dei signori potenti e generosi come voi.» Non poteva rivolgersi meglio che a quel signore, assai commendevole per mille virtù.

«Il Barmecida parve maravigliato della risposta di mio fratello; e portandosi le mani al petto, come per lacerarsi l’abito in sogno di dolore: — È egli possibile,» sclamò, «che io mi trovi a Bagdad, e che un’uomo pari vostro sia nella necessità che dite? Ecco quanto non posso tollerare.» A tali dimostrazioni, mio fratello, avvisando che stesse per dargli un luminoso contrassegno della sua liberalità, gli diede mille benedizioni, augurandogli ogni sorta di beni. — Non sarà detto,» ripigliò il Barmecida, «che io vi abbandoni, e non intendo nemmeno che voi mi abbandoniate. — Signore,» replicò mio fratello, «vi giuro che non ho mangiato nulla in tutto il giorno. — Sarebbe mai vero,» tornò a dire il Barmecida, «che siate ancor digiuno a quest’ora? Oh misero me! ei muore di fame! Olà, giovinotti,» soggiunse, alzando la voce, «si portino subito il bacile e l’acqua, per lavarci le mani.» Benchè nessuno comparisse, e che mio fratello non vedesse nè bacile, nè acqua, il Barmecida non tralasciò di stropicciarsi le mani come se qualcuno gli avesse versata sopra l’acqua; e ciò facendo, diceva a mio fratello: — Orsù, accostatevi e lavatevi con me.» Schacabac giudicò allora che il Barmecida volesse ridere; e siccome amava anch’egli gli scherzi, e d’altronde non ignorava la compiacenza che i poveri debbono avere pei ricchi, se vogliono trarne partito, si avvicinò e fece come lui.

«— Suvvia,» disse poi il Barmecida, «si porti da mangiare, e non fateci attendere.» E finite quelle parole, benchè non avessero recato nulla, cominciò a fare come se avesse preso qualche cosa da un piatto, a portarla mano alla bocca, e masticare [p. 154 modifica]a vuoto, dicendo a mio fratello: — Mangia, ospite mio, ve ne prego; fate liberamente come se foste in casa vostra; mangiate, vi dico: mi sembra che per un uomo affamato mi facciate poco onore. — Perdonatemi, signore,» rispose Schacabac, imitandone i gesti, «vedete che non perdo tempo, e che faccio assai bene il mio dovere. — Che ne dite di questo pane?» ripigliò il Barmecida; «non lo trovate eccellente? — Ah signore!» riprese mio fratello, il quale non vedeva pane nè carne, «non ne ho mai mangiato di sì bianco e squisito. — Mangiatene dunque a sazietà,» replicò il Barmecida; «vi accerto che ho pagata cinquecento pezze d'oro la fornaia che me lo fa sì bene.

Voleva Scheherazade continuare; ma il giorno che appariva la costrinse a fermarsi. La notte seguente proseguì in questa guisa:


NOTTE CLXXXI


— «Il Barmecida,» disse il barbiere, «dopo aver parlato della sua schiava fornaia, e vantato il suo pane, che mio fratello non mangiava se non in pensiero, gridò: — Schiavo, portaci un altro piatto. Buon ospite,» disse poi a mio fratello (ancorchè uno fosse comparso), «gustate di questa nuova vivanda, e ditemi se mai mangiaste castrato all’orzo mondo meglio accomodato di questo. — È stupendo!» rispose mio fratello; «e ne voglio prendere appunto ancora. — Quanto piacere mi fate!» ripigliò il Barmacida. «Vi scongiuro, per la soddisfazione che provo al vedervi mangiare sì bene, di non lasciar nulla di queste vivande, giacchè le trovate tanto di vostro gusto.» Poco dopo ordinò un’oca in salsa dolce, [p. 155 modifica]preparata con aceto, miele, uve secche, piselli e fichi secchi, che gli fu portata come il piatto di castrato. — È ben grassa quest’oca,» disse il Barmecida; «mangiatene solo una coscia ed un’ala. Bisogna economizzare il vostro appetito, poichè ci verranno ben altre cose ancora.» Infatti, domandò parecchi altri piatti di varie sorta, de’ quali mio fratello, morendo di fame, continuò a fingere di mangiare. Ma ciò che il vecchio vanto sopra tutto il resto, fu un agnello ripieno di pistacchi, che ordinò di portare, e fu servito come i piatti precedenti. — Oh! quanto a questo,» disse il Barmecida, «è un piatto che non si mangia altrove fuor di qui; voglio che ve ne saziate.» Sì dicendo, fece come se avesse un boccone in mano, ed accostatolo alla bocca di mio fratello: -- Prendete,» gli disse, «mangiate questo: giudicherete se ho torto di vantarlo tanto.» Mio fratello allungò il collo, aprì la bocca, finse di prendere il boccone, masticarlo, ed inghiottirlo con estremo piacere. — Ben sapeva,» disse il Barmecida, «che lo trovereste buono. — Non ho mangiato nulla di più squisito,» rispose mio fratello; «sulla mia parola, è una cosa deliziosa questa vostra tavola. — Si porti ora il ragù,» gridò il Barmecida; «credo che non ne sarete men contento dell’agnello. Or bene, che ne pensate? — Stupendo,» sclamò Schacabac; «vi si sente tutt’insieme l’ambra, il garofano, la noce moscada, il zenzevero, il pepe, e le erbe più odorifere; e tutti questi odori sono sì ben mescolati, che l’uno non impedisce all’altro di farsi sentire. Che delizia! — Fate dunque onore a questo ragù,» replicò il Barmecida; «mangiatene a sazietà, ve ne prego. Olà, schiavo,» aggiunse, alzando la voce, «ci si porti un altro ragù. — Oh, grazie, non occorre,» interruppe mio fratello; «in verità, signore, non m’è possibile mangiar altro; non ne posso più. — Allora sparecchiate,» disse il Barmecida, «e portate [p. 156 modifica]le frutta.» Aspetto un momento, quasi per dar tempo ai servi di sparecchiare; poi, ripigliando la parola: «Gustate di queste mandorle,» proseguì; «sono buone e colte di fresco.» Fecero ambedue lo stesso atto come se avessero sgusciate le mandorle per mangiarle. Quindi il Barmecida, invitando mio fratello a prendere altre cose: — Ecco,» gli disse, «ogni sorta di frutti, dolci, confetture, conserve. Scegliete ciò che più vi piace.» Poi, allungando la mano, quasi a presentargli qualche cosa: — Pigliate,» continuò, «eccovi un confetto eccellente per aiutare la digestione.» Schacabac finse di prendere e mangiare. — Signore,» gli disse, «il muschio non vi manca. — Questa specie di confetti si fanno in casa mia,» rispose il Barmeeida, «ed in questo, come in tutto il resto che vi si fa, non voglio risparmi.» Eccitò di nuovo mio fratello a mangiare. — Per un’uomo,» gli disse, «che era ancor digiuno quando veniste qui, mi pare che non abbiate mangiato niente. — Signore,» rispose mio fratello, cui dolevano le mascelle a forza di masticare a vuoto, e vi assicuro che sono tanto pieno, da non poter mangiare un sol boccone di più.

«— Ospite mio,» ripigliò il Barmecida, «dopo avere sì ben mangiato, bisogna ancora che beviamo (1). Voi bevete vino? — Signore,» rispose mio fratello, «non berò vino, se non vi spiace, essendomi ciò proibito. — Siete troppo scrupoloso,» replicò il Barmecida; «fate come me. — Ne berò dunque per compiacenza,» soggiunse Schahabac; «a quanto veggo, voi non volete che manchi nulla al vostro banchetto. Ma siccome non sono avvezzo a ber vino, temo di commettere qualche fallo contro la buona creanza, ed anche contro [p. 157 modifica]il rispetto a voi dovuto; talchè, vi prego di nuovo a dispensarmi dal ber vino; mi contenterò di pura acqua. — No, no,» disse il Barmecida, «berete vino.» E nello stesso tempo comandò di recarne: ma il vino non fu più reale delle vivande e dei frutti. Finse di versarsi da bere, e tracannare pel primo; poi, facendo finta di mescere a mio fratello e presentargli il bicchiere: — Bevete alla mia salute,» gli disse; «sentiamo un po’ se trovate buono questo vino.» Finse mio fratello di prendere il bicchiere, di osservarlo dappresso per vedere se il colore del vino fosse bello, ed accostarselo al naso per giudicare se grato ne fosse l’odore; indi fece un profondo inchino di testa al Barmecida, per dimostrargli che prendeva la libertà di bere alla di lui salute, e finalmente fece le viste di tracannare con tutte le dimostrazioni d’un uomo che beva con piacere. — Signore,» diss’egli poi, «trovo squisito questo vino; ma parmi non abbia molta forza. — Se ne desiderate di più forte,» rispose il Barmecida, «non avete che a parlare; ne ho in cantina parecchie qualità. Guardate se siete contento di questo.» A tali parole, fece mostra di versar da bere prima per sè e poi per mio fratello. E fecelo tante volte, che Schacabac, fingendosi riscaldato dal liquore, contraffece l’ubbriaco, alzò la mano, e percosse sulla testa il Barmecida con tale violenza che lo buttò per terra. Voleva anzi continuare a batterlo; ma il Barmecida, avanzando la mano per evitare i colpi, gridò: — Siete pazzo?» Allora mio fratello, trattenendosi, gli disse: — Signore, aveste la bontà di ricevere il vostro schiavo, e dargli un magnifico pranzo: dovevate contentarvi di avermi fatto mangiare; non bisognava farmi ber vino: ve lo aveva pur detto che avrei potuto mancarvi di rispetto. Me ne spiace infinitamente, e vi chieggo mille perdoni. —

«Appena ebbe finite simili parole; il Barmecida, invece di adirarsi, proruppe in una grande risata. [p. 158 modifica]— È molto tempo,» gli disse, «che cerco un uomo del vostro carattere.»

— Ma, sire,» disse Scheherazade al sultano delle Indie, «non m’accorgeva ch’è già giorno.» Schahriar, bramoso di sapere come se l’avrebbe presa il Barmecida, si alzò; e la notte appresso la sultana continuò a parlare in questi termini:


NOTTE CLXXXII


— Sire, il barbiere, proseguendo la storia del suo sesto fratello:

«Il Barmecida,» soggiunse, «fece mille carezze a Schacabac. — Non solo,» gli disse, «vi perdono il pugno che mi avete dato, ma voglio che d’ora in poi siamo amici, e che non abbiate altra casa fuor della mia. Aveste la compiacenza di accomodarvi al mio umore, e la pazienza di sostenere la burla fino all’ultimo; ma adesso mangeremo davvero.» Sì dicendo battè le mani, e comandò a parecchi servi, che comparvero, di preparare la tavola. Fu tosto obbedito, e mio fratello mangiò degli stessi cibi che non aveva gustato se non in idea, e quando ebbero sparecchiato, si recarono fiaschi di vino; e nello stesso tempo buon numero di schiave, belle o riccamente vestite, entrarono nella sala, e cantarono al suono degli stromenti parecchie piacevoli ariette. In fine, Schacabac ebbe motivo di rimaner contento delle bontà del Barmecida, il quale si compiacque di lui, lo trattò famigliarmente, e gli fece dare un abito della sua guardaroba.

«Trovò il Barmecida in mio fratello tanto spirito e tanta intelligenza in tutte le cose, che pochi giorni dopo li affidò la cura di tutta la casa e de’ suoi [p. 159 modifica]affari, e mio fratello adempì ottimamente al suo impiego per ben vent’anni. Scorso tal tempo, il generoso Barmecida, oppresso dalla vecchiaia, morì, e non avendo lasciato eredi, tutti i suoi beni vennero confiscati a favore del principe. Mio fratello fu spogliato di tutti quelli che aveva accumulati; di modo che, vedendosi ridotto al primiero suo stato, si unì ad una carovana di pellegrini della Mecca, nell’idea di far quel pellegrinaggio assistito dalla loro carità. Per disgrazia, fu la carovana assalita e spogliata da un numero di Beduini (2) superiore a quello de’ pellegrini; mio fratello si trovò schiavo d’un Beduino, che lo bastonò per vari giorni onde costringerlo a riscattarsi. Schacabac gli protestò che lo maltrattava inutilmente. — Sono vostro schiavo,» gli diceva; «potete disporre di me a vostro talento; ma vi dichiaro che mi trovo nell’ultima miseria, e che non istà in poter mio di riscattarmi.» Mio fratello ebbe però un bell’esporgli tutta la sua povertà, procurando di placarlo colle lagrime; il Beduino fu inflessibile, e pel dispetto di vedersi frustrato d’una considerevole somma, sulla quale credeva poter contare, preso il coltello, gli tagliò le labbra per vendicarsi, con tale inumanità, della perdita che supponeva aver fatto.

«Aveva il Beduino una leggiadra moglie, e spesso, quando andava a fare le sue corse, lasciava mio fratello solo con lei. Allora la donna nulla tralasciava per consolarlo del rigore della schiavitù, e gli faceva conoscere di amarlo; ma egli non osava corrispondere alla di lei passione, nella tema di aversene a pentire, ed evitava di trovarsi solo con lei, quanto più essa cercava l’occasione d’essere sola con lui. Aveva [p. 160 modifica]costei contratta tanta abitudine di folleggiare col crudele Schacabac tutte le volte che lo vedeva, che ciò le accadde un giorno in presenza del marito; e mio fratello, senza badare che questi li osservava, si avvisò, pe’ suoi peccati, di corrispondere a’ di lei scherzi. Immaginò tosto il Beduino che vivessero ambedue in colpevole intelligenza; e tal sospetto messolo in furore, si scagliò su mio fratello, e mutilatolo barbaramente, lo condusse sur un camello in cima ad una montagna deserta, ove lo abbandonò. Stava quel monte sulla strada di Bagdad, di modo che i passaggeri che lo avevano incontrato, mi avvisarono del luogo ove si trovava. Recatemi colà in tutta fretta, trovai il misero Schacabac in uno stato deplorabile; gli diedii soccorsi de’ quali aveva bisogno, e lo ricondossi in città.

«Ecco che cosa raccontai al califfo Mostanser Billah,» soggiunse il barbiere. «Quel principe mi applaudì con nuovi scoppi di risa — Ora,» mi disse, «non posso più dubitare che non vi abbiano dato a buona ragione il soprannome di taciturno: chi potrebbe asserire il contrario? Per certe ragioni però vi comando d’uscire al più presto dalla città: andate, e ch’io non senta più parlare di voi.» Fu forza cedere alla necessità, e viaggiai per vari anni in lontani paesi. Seppi finalmente che il califfo era morto, e tornato a Bagdad, non trovai più in vita uno solo de’ miei fratelli. Fu appunto al mio ritorno in quella città, che resi al giovane zoppo l’importante servigio cui avete inteso; ma foste anche testimoni della sua ingratitudine e del modo ingiurioso onde m’ha trattato. Invece di mostrarmisi riconoscente, preferì d’evitar la mia presenza ed allontanarsi dal suo paese. Quando mi fu noto che non era più a Bagdad, sebbene nessuno mi sapesse dire da qual parte rivolti avesse i passi, non lasciai tuttavia di mettermi in viaggio per [p. 161 modifica]cercarlo; è molto tempo che corro di provincia in provincia, e quando meno ci pensava, oggi l’ho incontrato: ma non mi aspettava mai di vederlo tanto irritato contro di me....»

Scheherazade, a tal punto, accorgendosi ch‘era giorno, tacque; e la notte successiva riprese il filo del suo discorso in questi termini:


NOTTE CLXXXIII


— Sire, il sartore finì di raccontare al sultano di Casgar la storia del giovane zoppo e del barbiere di Bagdad, nel modo ch’ebbi l’onore di riferire a vostra maestà.

«— Quando il barbiere,» proseguì poi il sarto, «ebbe finita la sua storia, trovammo tutti che il giovane non aveva avuto torto di accusarlo d’essere un parlatore eterno. Nullostante volemmo che rimanesse con noi, e fosse del banchetto regalatoci dal padrone di casa. Messici dunque a tavola, ci divertimmo fino alla preghiera tra mezzodì ed il tramonto. Allora tutta la compagnia si separò, ed io venni a lavorare nella mia bottega, aspettando l’ora di tornare a casa.

«Fu in questo intervallo che il gobbetto, mezzo briaco, si presentò davanti alla mia bottega, cantando e suonando il tamburello: io credetti che, conducendolo meco a casa, non mancherei di divertire mia moglie, e ciò mi spinse a farlo. Ci ammannì essa un piatto di pesce, ed io ne servii un pezzo al gobbo, il quale lo mangiò senza badare che c’era una resta. Cadde dunque senza vita alla nostra presenza; invasi da timore, e nell’imbarazzo in cui ci mise un sì innesto avvenimento, non esitammo a portarne il corpo fuori di casa, e lo facemmo destramente ricevere dal medico ebreo. [p. 162 modifica]Questo lo calò nella camera del provveditore, il quale lo portò in istrada, ove fu creduto che il mercadante lo avesse ucciso. Ecco, sire,» aggiunse il sarto, «che cosa aveva io a dire per soddisfar vostra maestà. Sta in lei il pronunciare se siamo degni della clemenza o della collera sua, della vita o della morte. —

«Il sultano di Casgar lasciò trasparir sul volto un’aria contenta che ridonò la vita al sartore ed a’ suoi colleghi. — Non posso disconvenire,» diss’egli, «di non essere rimasto più colpito dalla storia del giovane zoppo, di quella del barbiere e delle avventure de’ suoi fratelli, che non dalla storia del mio buffone. Ma prima di rimandarvi tutti e quattro a casa, e che il corpo del gobbo sia seppellito, vorrei veder il barbiere, sola cagione ch’io vi perdoni; giacchè si trova qui, è agevole contentare la mia curiosità.» E nello stesso tempo spedì un usciere per mandarlo a cercare in compagnia del sartore, il quale sapeva dove trovarlo.

«Tornarono in breve il sarto e l’usciere, conducendo il barbiere, cui presentarono al sultano. Era costui un vecchio che poteva avere novant’anni, colla barba e le sopracciglia bianche come neve, le orecchie pendenti e lungo il naso. Non seppe frenarsi il sultano dal riso, vedendolo. — Uomo silenzioso,» gli disse, «ho saputo che conoscete molte storie maravigliose; vorreste raccontarmene qualcuna? — Sire,» rispose il barbiere, «lasciamo, di grazia, lasciamo adesso: le storie che io possa sapere. Supplico umilmente vostra maestà di permettermi che gli domandi cosa facciano qui davanti a lei questo cristiano, l’ebreo, il musulmano, e quel gobbo morto che veggo disteso là per terra.» Sorrise il sultano della libertà del barbiere, e soggiunse: — Che cosa v’importa? — Sire,» ripigliò il barbiere, «m’importa di fare questa domanda affinchè vostra maestà sappia, ch‘ io non [p. 163 modifica]sono un gran parlatore come certuni pretendono, ma un uomo chiamato giustamente il taciturno.»

Colpita Scheherazade dalla luce del giorno, che cominciava a rischiarare l’appartamento del sultano delle Indie, cessò qui dal racconto, e riprese poi il discorso la notte seguente in questi termini:


NOTTE CLXXXIV


— Sire, il sultano di Casgar ebbe la compiacenza di soddisfare la curiosità del barbiere, comandando gli fosse narrata la storia del gobbetto, poichè sembrava desiderarlo con ardore. Quando l’ebbe udita, il barbiere crollò la testa, quasi avesse voluto dire esservi in quell’affare qualche cosa di strano ch’ei non comprendeva. — In vero,» diss’egli, «questa storia è sorprendente; ma voglio esaminare davvicino codesto gobbo.» In fatti, gli si accostò, sedè per terra, ne prese la testa fra le ginocchia, ed osservatala attentamente, proruppe d’improvviso in un sì grande scoppio di risa, e con tanta poca ritenutezza, che si lasciò andare rovescioni sulla schiena, senza riflettere che stava davanti al sultano di Casgar. Poi, rialzatosi, senza cessar dal ridere: — Ben si dice, e con ragione,» sclamò egli ancora, «che non si muore senza motivo. Se mai storia meritò di venire scritta in lettere d’oro, è certo quella di questo gobbo. —

«A tali parole tutti riguardarono il barbiere come un buffone, o come un vecchio, che avesse smarrito il senno. — Uomo silenzioso,» gli disse il sultano, «parlate; che cosa avete per rider tanto? — Sire,» rispose il barbiere, «giuro per l’umore benefico di vostra maestà, che questo gobbo non è morto; vive ancora, e voglio esser trattato da pazzo, se non ve lo fo [p. 164 modifica]vedere sull’istante.» Sì dicendo, prese una scatola, contenente parecchi farmachi, che portava sempre con sè per valersene all’occasione e ne trasse un’ampolla di balsamo, con cui fregò a lungo il collo al gobbo. Prese poscia dall’astuccio un ferro pulitissimo che gli mise fra i denti; ed apertagli la bocca, gli cacciò in gola un paio di pinzette, colle quali estrasse il pezzo di pesce e la spina, cui fece vedere a tutti. Il gobbo subito sternutò, stese braccia e gambe, aprì gli occhi e diè vari altri segni di vita.

«Il sultano di Casgar e tutti quelli che furono testimoni di sì bella operazione, rimasero non tanto sorpresi di veder risuscitato il gobbo dopo una notte intiera e la maggior parte del giorno trascorsa senza dare alcun indizio di vitalità, quanto del merito e della capacita del barbiere, che si cominciò, malgrado i suoi difetti, a riguardare come un gran personaggio. Il sultano, fuor di sè pel giubilo e l’ammirazifone, ordinò che la storia del gobbo fosse messa in iscritto con quella del barbiere, affinchè non ne andasse più mai perduta la memoria, che tanto meritava di essere conservata. Nè si contentò di questo: perchè il sarto, il medico ebreo; il provveditore ed il mercadante cristiano più non si ricordassero se non con piacere dell’avventura lor cagionata dal caso del gobbo, non li rimandò a casa se non dopo averli fatti rivestire ciascuno in propria presenza d’una veste ricchissisima. Quanto al barbiere, l’onorò d’una buona pensione, e lo trattenne presso di sè.»

La sultana Scheherazade pose termine così a quella lunga serie di avventure, cui la pretesa morte del gobbo aveva data occasione. Siccome il giorno già compariva, essa tacque, e la sua cara sorella Dinarzade, vedendo che non parlava più, le disse: — Mia principessa, mia sultana, mi è tanto più piaciuta la storia che ora tu finisti, in quanto che termina con un caso, al quale [p. 165 modifica]non mi aspettava. Io aveva creduto il gobbo assolutamente morto. — Tale sorpresa mi fa piacere,» disse Schahriar, «del pari che le avventure dei fratelli del barbiere. — Mi ha molto divertita anche la storia del giovine zoppo di Bagdad,» ripigliò Dinarzade. — Ne ho gran piacere, mia cara sorella,» soggiunse la sultana; «e poichè ebbi il bene di non annoiare il sultano, nostro signore e padrone, se sua maestà mi facesse ancora la grazia di conservarmi in vita, avrò domani l’onore di raccontarle la storia degli amori di Abulhassan Alì Ehn Becar e di Schemselnihar, favorita del califfo Aaron-al-Raschid, che, non meno della storia del gobbo, è degna della sua attenzione e della vostra.» Il sultano delle Indie, contentissimo delle cose onde divertito lo aveva sin allora Scheherazade, si lasciò vincere dal piacere di udire anche la storia ch’essa prometteva.

Si alzò dunque per far la preghiera e presiedere il consiglio, senza però nulla dimostrare alla sultana della sua buona volontà.


NOTTE CLXXXV


Dinarzade non mancò di risvegliare la sultana all’ora solita.

— Mia cara sorella,» le disse, «tra poco comparirà il giorno; vi supplico intanto di raccontarci qualcuna delle piacevoli storie che sapete. — Non occorre cercarne altre,» disse Schahriar, «fuor di quella degli amori di Abulhassan Alì Ebn Becar e di Schemselnihar, la favorita del califfo Aaron al-Raschid. — Sire,» disse Scheherazade, «eccomi ad appagare la vostra curiosità.» E nello stesso tempo cominciò in tal modo:

Note

  1. Gli Orientali ed i Maomettani in ispecie, non bevono se non dopo il pasto.
  2. Sono i Beduini tribù nomadi dell’Arabia che vivono nei deserti, accampati sotto le tende, e derubano le carovane quando queste non sono in grado di oppor resistenza.