Le Ricordanze (Rapisardi 1872)/Parte prima/Ultimo autunno

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Parte prima - Ultimo autunno

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Parte prima - Sole d'inverno Intermezzo - Francesca da Rimini
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ULTIMO AUTUNNO.




     Passa il ramingo augello
Su l’umil vigna allor che muore il giorno,
E posa il volo a un tremulo arbuscello;
Ma poi che mira intorno
La campagna deserta
E più incerta la luce a l’occidente,
Mestamente guardando, il vol dispiega,

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E con pietoso grido
Miglior campo procaccia e miglior nido.

     Così, già presso al fine
Del mio fatal pellegrinaggio in terra,
In voi fermo un istante il fianco lasso,
Dolci colli materni,
Di cui l’imbalsamata aura più volte
Nel cor la fuggitiva alma contenne.
Ma vano or tornerà vostro sorriso
A questa vita stanca,
E allor che al soffio de l’estremo autunno
Cadran le foglie dal materno stelo,
E col manto di gelo
Si calerà da l’Etna il verno rio,
Cadrò, cadrò pur’io,
E calerà su me gelo di morte;
O verdi colli, addio!

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     Pur grato al cor mi scende
Vostro tacito aspetto e la notturna
Aura e il sorriso de le stelle incerto.
Spesso muto e deserto, allor che trema
Su per le argentee ulive
Il verecondo albore
De la luna imminente, erro il viale
Del contiguo giardino,
O là m’assido a canto
D’un piccioletto fonte, arido come
Questi occhi miei cui pur negato è il pianto.
Quindi a la lunga io sento
Dal vecchio campanile
Russar querulo il gufo
Ed ondeggiare al vento
Del mesto legnajuol la cantilena.
Brillano a la serena
Le sparse lucciolette,

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Ed aggrappato al suo materno tufo,
Il monotono trillo
Siegue con ressa il solitario grillo.

     Allor questa noiosa
Creta e mia vita dolorosa oblio;
E già mi par che sciolta
D’ogni colpa mortal la disïosa
Ala spinga pe’l ciel l’anima mia,
Chiara qual sole e libera qual vento.
Ma qual voce e lamento
Da questa nova, luminosa via
Chiamarmi a nome e richiamarmi io sento?
Maria, dolce Maria,
Non turbarmi quest’ora! Ah! ch’io non vegga
Quei pensosi occhi tuoi, che fur già tanto
Universo per me, ch’io non li vegga
Per mia cagione in pianto!

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Ahi! de la vita lieta,
Breve pur troppo e pur suave e cara,
L’ora passò, passò qual fuggitivo
Sonno di ciacciatore;
Lunga stagion di pianto e di dolore
Per me seguì, per te gioia e festivo
Fulgor di tede e amore.

     Vedi, sul labbro mio più non s’accende
Giovin raggio di gioia, entro a la stanca
Alma più non esulta
La bella giovinezza,
Ed anzi tempo la mia chioma imbianca.
Da l’affannato petto
Fuggì l’alma salute, e la vitale
Aere sin la vitale aere sì cara
Nel travagliato cor tarda discende.
Funesta ala di notte

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D’intorno a la mia dolce arpa si stende,
E l’auree corde son disperse e rotte.
Sol’una ancor sol’una
Corda rimane a la dolce arpa mia;
E allor che ne la bruna
Fossa cadrà quest’egra argilla oppressa;
Si spezzerà pur essa,
E flebilmente suonerà Maria.

     Or mi lascia, in pietà. Come a ritrovo
Di libertà e di pace a morte, io corro;
Ne già son’io sdegnoso
Di mia sorte immatura,
Nè a te, cieca Natura,
Qual suole ignobil volgo,
Le mie vane querele
E il pianto mio rivolgo!
Ben tu su noi crudele

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Sempre fosti, o Natura; e un fiore un solo
Fior sul tramite mio mai non scorderò
Le primavere tue vane e fugaci,
E con sorriso amaro
Ai lunghi affanni e a mia virtù schermisti.
Ma se a quest’occhi miei la luce or neghi,
Pianger debbo i tuoi soli e la tua possa?
Forse, se omai quest’ossa
Con muta e disperata ira calpesti,
Speri, che intero io resti
Nel guancial freddo de l’oscura fossa?

     A inesorate, uguali
Leggi tu servi, e in tuoi chiusi destini
Quel che rovini e te stessa non sai.
Con perenne, monotona vicenda,
Macchina cieca, per l’ombre cammini,
E qual fosti, sarai. Ma l’immortale

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Spirto, che è raggio de l’eterna Idea,
Libero sorge e l’infinito abbraccia,
E in luminosa traccia
Tutto muta e feconda e strugge e crea;
Senza principio e fine
Egli è tutto nel tutto e al tutto impera,
E’ prima, ei luce vera
Che la tarda materia informa e accende
Di senso e di pensiero,
E da l’esilio de la terra intendo
L’occhio irrequeto al sempiterno vero.

     Ma tu, Natura, un giorno
Tu, superba, cadrai, pari a codesta
Scorza di fango che mi pesa intorno.
Più non verran gli aprili
Ad infiorarti la superba vesta,
Nè la chiomata cresta

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Ergeran da l’immense acque i tuoi monti.
Ecco, al ciel si confondono
Gli sconfinati mari; orbo di rai
Precipita dal ciel vedovo il sole;
Schiudon le mille gole
I terrestri vulcani; si dissolve
A l’urto dei cadenti astri la terra;
Fra la scomposta polve
Distruzion la negra ala disserra,
E ne l’eterna notte
Tutto ravvolve e inghiotte. Allor congiunto
A l’universo spirito,
Sul nulla vagherà lo spirto mio,
Ch’è di Dio parte anch’esso, anch’esso è Dio!