Le Ricordanze (Rapisardi 1894)/Parte prima/A un segatore di marmi
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A UN SEGATORE DI MARMI
Con l’ostinato filo
Del tuo pigro strumento
Il duro sasso esercitando vai,
O assiduo segatore,
Nè per sole o per vento
DaLla lunga, penosa opra ristai,
A cui tua sorte misera ti danna:
Il petto ansante e il dorso
Sopra la sega stridula affatichi;
E sol di quando in quando,
Dell’aspra lama agevolando il corso,
Versi nel taglio con la bugia canna,
Sciolta nell’acqua la mordente arena,
Malinconicamente mormorando
La patria cantilena.
Al monotono suono
Di tua lenta fatica,
Che la tarda del tempo opra somiglia,
Dalle mie ciglia si dilegua il velo
Del dolcissimo sonno mattutino
Di rosee larve apportator fedele.
Odo il festante grido
Delle rideste vie
E il rumor vago dei carri balzanti;
Fischiano all’aure i canti
Dell’amorosa rondine che suole
Sotto la gronda mia tessere il nido;
Alla nota bottega,
Cantando una canzone,
Il garzoncel s’avvia;
Per la frequente via
Passan belando sotto al mio balcone
Le capre mattutine,
E con impronta ressa
La picciola campana della pieve
Chiama i fedeli a messa.
Allora io sorgo, e tersa
In pura onda la faccia,
Schiudo i vetri custodi, e anch’io cantando
Il nuovo aprile e il fresco aer saluto.
Ma se dal roseo cielo,
Ove cerco di mia vita la luce,
Squallido segatore, a te mi giro,
Di repentino gelo
Pensierosa tristezza il sen mi vince,
E nell’intimo cor gemo e sospiro:
Quale colpa o fortuna
A sì diverso fato obliga e preme
Questa dolente umanità raminga,
Ch’altri scarno e cencioso
Sul duro solco si travagli e sudi,
Altri d’ozio fastoso
E d’opulenza e di splendor si cinga?
Dunque è destin, che a’ faticosi studi
Più vil mercé si renda?
E che tanta di noi parte migliore
D’inedia eterna e di dolor languisca,
E altri del suo soffrir gioco si prenda?
Povero segatore, e a te non lice
Investigar la sacra ombra che chiude
Il tuo fier destin! Forse la prova
Di cotanto dolore
E dell’onesta poverezza i pianti
L’occulta stancheranno ira del cielo;
Chè ormai splendida e nova
Di santa civiltà stagion migliore
Ne impromettono i fati. A più sublime
Vol, non più visto altrove,
Poggia l’umano ingegno;
Dalla superba cattedra discende
A popolar convegno
L’agevole Scienza, e a tutti è schiusa,
Quanta concessa è in terra,
Felicità. Su la contesa soglia
Più non mendica il provvido lavoro
Di ricche orgie i rifiuti,
Ma a sè stesso è tesoro. Ecco, vegg’io
Col vetusto patrizio il fabbro umile
Confondere la destra,
E Civiltà di miti usi maestra
Chiama fra tutte genti arbitro il merto;
Sorge dal fango, in nome
Di Lui che l’onorate opre fè sante,
La derelitta povertade; e come
Pioggia che le morenti erbe rinnova,
Sugli adusti mortali
Uguaglianza ed Amor distendon l’ali.