Le avventure di Saffo/Libro III/Capitolo I

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Libro III - Capitolo I. La placida sera

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CAPITOLO PRIMO.


La placida sera.


Di tanti pregj, co’ quali la provida intelligenza superiore ha distinta la umana specie dagli altri animali, sempre mi è sembrato fra tutti utile il dono della favella, ed io non so donde mai sia avvenuto, che tante e si varie sieno le lingue, quando è manifesto che l’umana stirpe deriva da un solo conjugio di un uomo e di una femmina, i quali primieramente posti nel mondo s’incontrarono nelle selve, e fecero in quelle risonare i primi e più sinceri gemiti di un innocente amore. Imperocchè qualunque sistema voglia seguirsi dalla nostra [p. 221 modifica]mente, o le piaccia (come è dottrina degna di buon intelletto) riconoscere dalla potenza divina la formazione de’ due primi umani modelli; o inclíni ad ascrivere alla fortuita combinazione degli atomi così artificioso e mirabile composto, (opinione ripugnante al retto discorso), in ogni modo un solo fu il progenitore, ed una sola la progenitrice di questa immensa posterità divisa in tante nazioni. Conciossiachè quelli, che debitamente riconoscono il supremo architetto, non possono coerentemente supporre, ch’egli moltiplicasse senza necessità le opere sue, nè altra necessità poteva accadere, se non che fosse imperfetta la prima. Opinione per certo indegna, attribuendo alla suprema intelligenza, minore perspicacia che non hanno comunemente gli scultori, i quali non errano nella formazione delle statue, di modo che sieno costretti a romperle quando le abbiano finite. Che se poi si voglia attribuire al caso questa combinazione di [p. 222 modifica]membra, che da se stesse hanno moto spontaneo, e questa incorporea sostanza de’ nostri pensieri, io tollerando (siccome nemico delle contese filosofiche) un così capriccioso delirio, almeno dirò che fu per certo stranissimo il caso, onde deve bastare che sia avvenuto una volta; giacchè, non senza sforzo d’infiniti sofismi, si può ridurre qualche intelletto specioso a supporlo accaduto nella infinita serie del tempo. Or dunque e nella vera e nella erronea filosofia, quando voglia essere consentanea a se medesima, dovendo riferirsi ad una sola fonte la umana prosapia, io non so come non si mantenesse un solo ereditario modo di manifestare i pensieri, nè colui che il primo introdusse strane voci ignote a’ suoi congiunti, fosse discacciato nelle selve, siccome infedele e pernicioso perturbatore del più certo sostegno dell’umana società. La qual maraviglia in me cresce osservando come introdotta in seguito la moneta per necessità del commercio, furono in ogni tempo seve[p. 223 modifica]ramente puniti i di lei falsificatori, quando che è stata in ogni tempo libera e impune la corruttela delle lingue, segno espresso degli umani pensieri. E certamente divennero così gli uomini fra di loro stranieri, non intendendo i loro vicini, più di quello che intendessero il garrire degli uccelli, l’ululare de’ lupi, il muggire de’ buoi, il belare delle pecore, il fischiare de’ serpi; onde, distrutta la sociabilità, furono ridotti a spiegarsi come gli animali per gridi e per cenni; e ben era degno che alcuno non desse alimento o bevanda a colui che ardì il primo di domandare bevanda o nutrimento con false voci inventate dal suo colpevole capriccio. Ma siccome non vi è sostanza più libera degli umani pensieri, quindi hanno taluni immaginato che fosse non meno concessa a’ bruti la favella, trovando la eloquenza del dolore nelle querele del patetico rosignolo, la ferocia marziale ne’ ruggiti del leone, e ne’ gemiti delle colombe il più tenero [p. 224 modifica]colloquio degli amanti. Che se mai un seguace di questa filosofia abbia veduti due tori affilare le corna agli alberi, e poi cozzare con impeto eroico spinti da rivalità per dominar soli nella mandra, certamente traducendo que’ muggiti, ne formerebbe sensi tanto sublimi, quanto le eloquenti esortazioni de’ capitani alle squadre adunate, o de’ campioni di Omero prima di avventurarsi colle aste. Ma io mi accorgo, che andando in traccia delle speculazioni già assumo l’indole della filosofia, la quale è garrula insieme e vagabonda, e però ritornando al mio sentiero, dirò che in nessun tempo è più grato il celeste dono della loquela, che quando sfoga l’animo in amichevoli colloquj con gratissima corrispondenza di pensieri; al qual diletto nessuno potrà essere superiore, se non se il ragionamento degli amanti felici. Tale era adunque il piacevole conforto de’ colloquj nell’albergo di Eutichio, che quasi fresca pioggia negli ardori estivi, rattempra[p. 225 modifica]va alquanto l’animo, non più disperato, benchè ancora misero, della fuggitiva ospite. Ricoverati pertanto nelle interne abitazioni, giocarono agli astragali non già di nulla, ma di somma nè vergognosa a vincersi dagli amici, nè spiacevole a perdersi; e mentre che alcuni erano a ciò intenti, Nomofilo viepiù desideroso di ragionare con Saffo, si collocò presso di lei; onde guardandolo furtivamente gli altri senza amara gelosía, sorridevano per lo nascente di lui amore. Eutichio intanto non si opponeva agli urbani colloquj, e nondimeno (siccome amico di Scamandronimo, ed esperto delle umane passioni) non tralasciava di osservare con giudiziose pupille i progressi di quella inclinazione. Ma non sembrava spandersi quel ragionamento oltre i confini della sociale indifferenza, perchè Saffo non vi prestava maggior attenzione, di quanta era conveniente per dissipare le cure dell’animo; quindi piacevole insieme ed urbana deviava le proteste del [p. 226 modifica]giovane con verecondia, senza ammetterle o escluderle, trattenendo il di lui animo, siccome vapore sull’aura leggiera. Questo industre modo, con cui l’amabile fanciulla manteneva con espressioni indeterminate il colloquio fra il disinganno e la lusinga, pungeva viepiù il cuore di lui, e come brace scossa gli suscitava più vivo l’ardore. Ma te felice, o Saffo, se avessi potuto ascoltare con diletto le seducenti proteste di Nomofilo, e gustare quelle parole che penetrano così facilmente ne’ petti giovanili, perchè tu non potevi al certo ritrovare nè più candido nè più sommesso amante di lui! Ma il tuo misero cuore penetrato dal primo dardo, era per gli altri invulnerabile; onde sventuratamente annojandoti del sincero amante vicino, deliravi per lo ritroso e fuggitivo.

Omai molte stelle, mentre ch’essi ragionavano, si erano nascoste dentro il mare, lentamente volgendosi intorno del polo, onde si congedarono gli ospiti, e [p. 227 modifica]l’ultimo fu Nomofilo. Egli era come l’ape, che mentre succhia un dolcissimo fiore mosso da zefiro, non se ne stacca, ma seco lui va all’aura ondeggiando. Pure alla fine anch’egli partì, augurando lieta notte sì a lei che ad Eutichio, ma non la sperando per sè medesimo, siccome quegli che seco già portava nel cuore la irrequieta veglia di amorosi pensieri.