Le colpe altrui/Parte II/Capitolo I

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Capitolo I

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I.


Nei primi tempi Mikali, eccitato dalla rabbia e dal dolore, pensava di emigrare in America. Gli avevano raccontato che là si stendono grandi pianure coperte di erbe alte come alberi e piene di cavalli allo stato selvatico; ed alla notte sognava di trovarsi laggiù e di prendere col suo laccio quanti puledri voleva e domarli e venderli ai grandi signori di America. Quello era un luogo adatto per un uomo come lui! Del suo piccolo paese ove tutto gli si volgeva contro era stanco; idee malvage lo travolgevano, compromettendo la sua calma d’uomo forte, facendogli rimpiangere i tempi, non lontani del resto, in cui la Sardegna era libera terra di banditi, di uomini che si procuravano giustizia da sè; allora uno poteva almeno dare sfogo alla propria rabbia, al proprio dolore, e crearsi dei veri nemici contro cui combattere da vero uomo, mentre adesso non rimane che rassegnarsi come donnicciuole ad essere calpestati da tutti, o emigrare assieme coi manovali in cerca di fortuna...

Era stato anche a consultare un avvocato, se si poteva intentare lite a Vittoria, per l’eredità. Si poteva intentare, sì, perchè se Bakis Zanche non lo aveva riconosciuto per figlio non [p. 166 modifica]lo aveva neppure misconosciuto legalmente; ma era una cosa complicata, che sarebbe andata per le lunghe, e occorrevano molti denari che l’avvocato richiedeva anticipati. Con quei denari Mikali preferiva andarsene in America e guadagnarne altri: al ritorno era sempre a tempo d’intentare la lite. La verità poi era che, in fondo, egli non voleva disgustare Vittoria finchè non avesse perduto ogni speranza nell’amore di lei...

In fondo egli si conosceva bene, sapeva che non era un violento, ma un povero orfano allevato da una madre serva timorosa di Dio e degli uomini; il sangue della razza gli ribolliva però nelle vene, e a volte gli sembrava di essere ancora ragazzetto, quando stanco delle preghiere che sua madre gli faceva recitare, fuggiva nella brughiera e per fare qualche cosa andava a buttare giù le pietre dei paracarri o si batteva la testa contro i tronchi degli alberi e poi rideva per il dolore.

Eppure, mentre egli stesso si piegava e si umiliava, il dolore rassegnato della madre, che dopo i primi giorni dalla morte di Andrea non s’era più cambiata la camicia nè lavato il viso in segno di lutto, lo irritava fino allo spasimo. Egli non poteva più perdonarle questa rassegnazione.

La notte di San Giovanni, mentre tutte le donne dello stazzo erano nella brughiera a bagnarsi i piedi alla sorgente, e i fanciulli seduti in fila sul ponte aspettavano silenziosi che a mezzanotte si spalancasse il cielo e apparisse [p. 167 modifica]la Corte celeste, egli rientrò e si buttò sbuffando sul carro davanti alla porta. Sullo scalino sedeva sua madre, avvolta dalla triplice ombra del suo dolore, della sua gonna nera e della notte.

Per un pezzo non parlarono; ella finiva di recitare le sue preghiere, e finalmente disse piano:

— Mikali, che hai? Non mangi?

Egli sbuffò più forte.

— Mikali!

— Vorrei mangiarmi il cuore, madre! E l’ho grosso, m’uccidano! Grosso come un macigno. Ebbene, sapete la nuova? Dicono che quella donna sposa il dottore. Ma io... ma io... io non sono Andrea! Io non voglio morire, no; ne farò morire io, arrabbiati come cani, vedrete...

— Mikali, abbassa la voce e non bestemmiare in questa santa notte.

— Che bestemmie ho detto?

— Ogni parola che pronunci è una bestemmia: non nominare il piccolo infelice, lascialo nella sua pace. E tu, senti, pensa ai casi tuoi, Mikà, figlio d’oro.

— Ci penso, sì, ma troppo tardi, madre! Dovevate pensarci anche voi, ai casi miei, appena son nato. Invece mi avete fatto scontare la vostra colpa, mi avete fatto crescere senza padre, senza nome: madre, madre, perchè, almeno, non avete avuto la forza di farmi riconoscere dal mio vero padre? Da Bakis Zanche? — aggiunse tosto, poichè non ammetteva di essere figlio dell’altro.

Ella taceva. Anche lei era convinta ch’egli [p. 168 modifica]era figlio di Bakis, ma non lo aveva fatto riconoscere per paura, per rimorso, come del resto Mikali stesso, più tardi, sebbene consigliato da qualcuno, aveva lasciato le cose com’erano per non irritare inutilmente il vecchio e nella speranza di dividere l’eredità con Andrea, e in ultimo per la certezza che Vittoria lo sposasse.

Dopo un lungo silenzio la madre disse timidamente:

— Mikali, del resto adesso da vivere ne abbiamo! Viviamo in pace, anima mia. Dimentica quella donna e guàrdati intorno.

Mikali si sollevò a metà sul carro e sputò al di là della siepe.

— So cosa volete dire, madre! Ma io donne non ne guardo più, neanche se hanno la lebbra in viso e il mio sguardo dovesse guarirle. Io me ne andrò servo, volete sentirla, me ne andrò lontano e tutto sarà finito. Però prima...

— Pensa a te, Mikali, non sei più un bambino e la sventura ti ha segnato come il fuoco. Battista è una buona ragazza, ed ha qualche cosa; è una donna, Battista, non è il serpente di Eva, come quelle che tu conosci. Vivrete in pace secondo il volere di Dio, e tu lavorerai, seminerai, avrai il tuo bestiame, la tua terra, il tuo focolare. Potrai dire: qui mi corico e mi addormento come un bambino innocente nella culla, e Dio veglierà su di me. Così, Mikali, potrai dire, se smetti di vivere in peccato mortale, così...

Ma egli s’era gettato supino sul carro e sbuffava di nuovo tirandosi i capelli con rabbia. [p. 169 modifica]

— Madre, è inutile gettare le parole al vento. Io Battista non la voglio; non voglio nessuna donna del mondo. Non mi pungete il cuore.

La madre allora sospirò e tacque; ed egli incrociò le mani sotto il capo e i ricordi lo coprirono fitti, vivi come le stelle che gli pareva gli sfiorassero il viso.

Possibile che tutto fosse finito? Ah, no; a costo di dar fuoco allo stazzo di Vittoria e di passare attraverso le fiamme, egli voleva arrivare fino a lei.

— Sapete cosa vi dico, madre? — riprese dopo un momento. — Che finora sono stato come un agnello; ma adesso voglio cambiarmi in leone; voglio farmi rispettare, voglio lasciare l’impronta dove passo. Comincerò col dottore; voglio domarlo come gli ho domato il puledro; e se egli non lo capisce con la prima avvertenza, con la seconda gli farò schizzare le viscere dal cranio.

— Mikà! Misera me! — gemette la madre. — Tu perdi la ragione. È meglio, sì, che tu te ne vada nelle altre parti del mondo e ti salvi l’anima.

— No, perdio, non voglio più partire. Perchè devo partire? Sono un disperato, io? Voglio restare e calcherò bene i piedi dove passo.

— Non alzare la voce, almeno!

— No, perdio! Voglio anzi gridare; guai, guai se le cose non vanno come desidero io, secondo giustizia! Farò come il vento, che spazza tutto.

Per non irritarlo oltre, la madre strinse il rosario nel piccolo pugno tremante e salì nella [p. 170 modifica]sua cameretta; ma invece di coricarsi s’inginocchiò davanti alla finestruola aperta e offrì al Signore la sua pena per la collera, la passione, i feroci propositi di Mikali. Ella accettava tutto; era il suo giusto castigo che continuava; e del resto, guardando le stelle coi poveri occhi malati dal lungo piangere, le pareva di vedere tutto l’universo scintillante di lagrime. Siamo nati per soffrire e piangere; che cercare oltre? Anche Mikali, col tempo avrebbe capito questa verità e si sarebbe rassegnato.

Egli intanto non si rassegnava; lunghi sospiri gli gonfiavano il petto, come fosse legato sul carro e da un momento all’altro si dovesse su questo trasportarlo a un luogo di condanna; solo quando sentì le donne rientrare balzò infastidito e se ne andò a vagare nella notte. La notte era bella; la luna al suo ultimo quarto posava sul confine della brughiera come una coppa d’oro colma di fiori di stelle; e un trillo di chitarra, dietro lo stazzo Zanche, faceva tacere i grilli e persino l’usignolo.

Egli sentiva nelle vene qualcosa simile a quel trillo: un’aspra vibrazione di desiderio, di pianto, di amore e d’odio.

Si diresse laggiù, ma a misura ch’egli lo cercava, il suono s’allontanava, come il grido del cuculo; e così, saltando le muriccie di confine fra un terreno e l’altro, si trovò nella tanca del dottore e vide una forma nera immobile sull’erba come una roccia.

Santu Juanne meu, mi mandate incontro il demonio! [p. 171 modifica]

Ristette, coi pugni sulla fronte che gli batteva da spezzarsi; la forma nera si scosse, si sollevò, come tirando su dalla terra due manciate di fieno. Era il puledro del dottore.

Mikali vedeva tutto confuso, e il formicolìo nelle vene cresceva aspro, diventava tortura: aveva voglia di gridare, ripetendo a tutti le parole che neppure sua madre voleva sentire: aveva bisogno di urlare, nella notte dolce, di intorbidare la quiete del mondo con l’ansito della sua passione; in modo che Vittoria lo sentisse, nella sua casa addormentata, nel suo cuore chiuso, e balzasse piena di terrore e di rimorso; e con lei tutti lo sentissero, da vicino e da lontano, e avessero paura di lui come del leone scappato al laccio. Intanto traeva e apriva il suo coltello, tastandone la lama col pollice. Quella era la sua chitarra: adesso avrebbe vibrato la nota dell’odio.

E si curvò sul puledro, che nel dormiveglia lo riconobbe e stette docile; e lo palpò cercando il punto fragile dell’occipite, carezzandolo e parlandogli sottovoce per vibrare meglio il colpo mortale.

— Mi dispiace a morte, perchè ti ho voluto bene come ad un cristiano; ma è necessario dare un’avvertenza al tuo padrone. Il tuo sangue gli dirà che deve stare attento a che non scorra anche il suo...

Il coltello luccicò alla luna, s’abbassò, sparve come una stilla d’acqua fra la criniera del puledro. L’animale sussultò tutto, con un grande ansito che gli gonfiò la pancia e gli sollevò la [p. 172 modifica]coda; e si alzò pesantemente sulle ginocchia, ma come abbattuto dall’urto della mano di Mikali cadde sull’erba con la testa piegata sul collo e le vertebre agitate da un tremito.

A poco a poco il tremito cessò, come un lento ondulare d’acqua; l’occhio spaurito rifletteva la luna e Mikali stava curvo a guardarlo come sull’orlo di uno stagno di morte.

Quando la forma nera tornò immobile fra l’erba che odorava inumidita dal sangue, egli pulì il coltello con una foglia e se ne andò. Sentiva un po’ di sollievo; ma non era contento. E come il suono della chitarra arrivava adesso dalla parte dell’orto di Vittoria, si diresse laggiù, e raggiunse il suonatore, un ragazzo gallurese figlio del cantoniere.

— Adesso ti farò cantare, — gli disse conducendolo sotto il muro dell’orto: — andiamo più in là, sotto la finestra di Ignazia.

Sull’orto nero e giallo d’ombra e di luna vagava l’odore delle mele di San Giovanni; il vetro verdognolo della finestruola di Ignazia brillava triste come l’occhio del puledro morto.

Mikali fissava la grande casa silenziosa che chiudeva Vittoria come una tomba e le dava la dura freddezza di un cadavere; e sentiva una smania violenta di arrampicarsi con le unghie sui muri, di penetrare per le fessure e devastare tutto là dentro e portarsi via come un tesoro rubato la donna che non voleva essere sua.

Ma la voce del ragazzo s’alzò nel silenzio fresca, liquida come uno stelo d’acqua [p. 173 modifica]cristallina, e il gemito della chitarra l’accompagnò col suo lamento sommesso:

Bedda, palchì tanti peni
Senza mutìu mi dai?
Sarà folsi palchì mi hai
Sicuri in li to cateni.
Bedda, palchì tanti peni?...1

— Adesso apre la finestra... adesso scende... Eccola, è lì... apre... — gemeva e fremeva Mikali, sporgendosi sul muricciuolo, col cuore sulla pietra e il pugno sulle labbra. E guardava, con gli occhi scintillanti nell’ombra. Ecco ella veniva, come nel campo vigilato dalla gobbina; si fermava sotto il melo carico di frutti e faceva un cenno che era come un laccio, sì, come il laccio che egli gittava ai puledri in corsa. Ed egli, preso, attirato, saltava il muro, andava a lei, le cadeva ai piedi spasimando.

— Vittoria! Vittoria... anima mia, era tempo... Eccomi, Vittoria; non ne potevo più... Sei tornata... Sei tornata...

La voce chiara del ragazzo gorgheggiava come un canto d’usignolo, con tutti i richiami, i gridi, il ridere d’amore; e le note della chitarra tremolavano intorno come i raggi d’oro della luna sotto il melo; ma la casa rimaneva silenziosa e chiusa e la donna non veniva. [p. 174 modifica]

Mikali cominciò a morsicarsi il pugno; tuttavia si ostinava ad aspettare, finchè il suono e la voce tacquero e il ragazzo lo tirò per la falda del cappotto.

— Ti sei addormentato, Mikà? Io ho finito; dammi qualche cosa, adesso.

Mikali balzò e gli diede uno schiaffo. La chitarra battè sul petto del ragazzo e le corde gemettero per lui.


  1. Bella, perchè tante pene
    Senza motivo mi dài?
    Sarà forse perchè mi hai
    Sicuro nelle tue catene.
    Bella, perchè tante pene?...